Assassinii politici, bombe, la produzione petrolifera che
precipita. Tripoli senza pace a due anni dalla rivoluzione. Ma i libici
restano «ottimisti»
L’Egitto è sull’orlo della guerra civile, la Tunisia è in preda
al caos, con il parlamento sospeso e una linea di demarcazione sempre
più netta tra laici e islamisti. E la Libia? I radar occidentali
difficilmente la intercettano, se non fosse stato per l’attentato di
Bengasi, che l’11 settembre 2012 tolse la vita a quattro americani, tra
cui l’ambasciatore Christopher Stevens, la comunità internazionale
avrebbe già dimenticato di avere combattuto una guerra in Nordafrica e
di avere defenestrato un regime.
La stabilizzazione del paese dovrebbe essere una priorità per
l’Occidente. Eppure l’obiettivo appare lontano, se si legge l’ultimo
rapporto di Human Rights Watch: cinquantuno omicidi politici solo nelle
due città più “calde”, Bengasi e Derna. Assassinii che hanno preso di
mira funzionari di polizia, membri della sicurezza interna, personale
dell’intelligence militare, giudici, attivisti, come il noto
avvocato Abdelsalam al Mismari, uno dei leader del fronte
anti-islamista. A luglio c’è stata una netta recrudescenza delle
violenze, che resteranno impunite, perché un sistema giuridico
funzionante non è stato ancora messo in piedi.
La Cirenaica resta la regione più instabile, tra tendenze
secessioniste ed inquietudine islamiste, ma un po’ ovunque le milizie
che hanno rovesciato Gheddafi stentano ad accettare lo scioglimento nel
nuovo esercito nazionale. Le vendette sono all’ordine del giorno, le
armi, che viaggiano sull’asse Algeria-Tunisia-Libia-Egitto, sono una
moneta piuttosto diffusa, lo stato di diritto è un miraggio. I fatti di
Bengasi – dove tra l’altro, due settimane fa, una maxi-evasione ha
liberato dal carcere mille persone – hanno spinto il premier Ali Zeidan a
promettere un rimpasto di governo, ma la politica non sembra in grado
di mantenere il controllo delle forze in campo. Shashank Joshi, analista
del londinese Royal United Services Institute (Rusi) è pessimista: «La
situazione è peggiorata e le prospettive non sono incoraggianti. Il
problema è il rispetto della legittimità dello stato centrale da parte
dei vari gruppi. Quanto più il governo consentirà questo stato delle
cose, tanto più perderà terreno a favore delle milizie».
La paralisi rischia di estendersi all’economia. La produzione di
petrolio ha toccato i minimi dalla guerra civile, a causa di una serie
di scioperi iniziati a fine luglio, a cui si sono unite le proteste dei
disoccupati. I due fondamentali terminal di Es Sider e Ras Lanuf sono
chiusi, così come il porto di Zuetina. Se a pochi mesi di distanza dalla
caduta di Gheddafi l’output petrolifero aveva raggiunto i
livelli prebellici, 1,6 milioni di barili al giorno, adesso si è scesi a
600mila. L’oro nero copre il 95 per cento del reddito nazionale, per
cui è piuttosto facile misurarne l’impatto. Le riserve monetarie libiche
sono ancora sufficienti a garantire una certa tenuta, ma se la crisi
dovesse prolungarsi le conseguenze potrebbero rivelarsi catastrofiche.
Il bilancio statale, 51 miliardi di dollari, è in buona parte
assorbito dai sussidi e dai salari destinati ai veterani di guerra, e il
premier ha chiesto un extra-budget di ulteriori 11 miliardi. Sarebbe
vitale aumentare il flusso degli investimenti stranieri, ma le grandi
compagnie sono caute, per via della sicurezza. L’affidabilità di Tripoli
come fornitore sui mercati internazionali si è appannata, con il
rischio che le major possano decidere di rivolgersi altrove.
Da altri punti di vista, la Libia ha lanciato segnali importanti.
Nelle elezioni del 7 luglio 2012 l’Alleanza delle forze nazionali
dell’ex premier Jibril – la forza più “liberale” – ha ottenuto un
successo nettamente superiore a quello degli islamisti (anche se il
Congresso è formato in buona parte da candidati indipendenti). C’è
sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’Islam politico e
soprattutto verso il suo sponsor, il Qatar.
In un recente sondaggio pubblicato dalla rivista Foreign Affairs,
l’81 per cento degli intervistati si è detto ottimista sul futuro del
proprio paese e l’83 per cento si è dichiarato d’accordo con
l’affermazione, dal sapore churchilliano, secondo cui «la democrazia ha i
suoi problemi, ma è il migliore di tutti i regimi». A differenza di
tunisini ed egiziani, che vedono la democrazia in termini di uguaglianza
economica, i libici la identificano con altri concetti: libertà civili e
politiche, a partire dal voto, diritti umani. Un programma ambizioso di
governo, possibile solo quando il potere di Tripoli avrà conquistato
piena legittimità.
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