Le fondazioni bancarie continuano a perpetuare un sistema in cui la
politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario
Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono
state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché
hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il
passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce
comporterà controlli ancora più stringenti.
Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi
pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche
dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro
impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé
ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante
rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le
interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto
possono però bloccare e distorcere il processo.
A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite
patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro
investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione
delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la
rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla
la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche.
Tre casi ne sono la testimonianza.
Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente
all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da
Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47
per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha
fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio
d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici
dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione a scegliere i vertici
della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di
utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio,
avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il
fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che a guidare
l’istituto saranno messi il vice-presidente della Fondazione – già
candidato sindaco per il Pdl – assieme a un esponente dell’attuale
comitato esecutivo della banca. Diversi politici locali (dal governatore
Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la
politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la
richiesta?
A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di
Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di
centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone:
il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa
presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione
da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una
dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel
capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata
riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere
il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il
risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo
presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non
c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del
nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri
e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le
uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti
liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto
vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco
di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta
parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle
pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i
politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun
dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche
essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo
hanno ma non gli conviene ammetterlo.
Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del
consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo
del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo
avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della
Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando
ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che
tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state
fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con
l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della
politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio
Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate,
soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei
progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in
tribunale.
Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso
dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un
ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato”
delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle
banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie,
ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che
accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve
solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della
Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio
patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in
BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della
Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente
gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur
detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente
accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a
mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora
della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di
Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte
Parma.
I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E
l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma,
come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create:
per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle
segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora
un’altra piega.
Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può
decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale
senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo
abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli
inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta
fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di
governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole
dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo
prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito
“renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps
avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di
competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i
requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi
criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le
primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione
dalla banca.
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