Com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro
programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il
“dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo
Parlare di congresso e di identità del Pd in queste ore così incerte e convulse può sembrare un lusso ozioso, ma non lo è.
Le prossime elezioni infatti, siano quando siano, e sia chi sia il
nostro candidato, non saranno una passeggiata, dovremo munirci di corde e
scarponi. Del resto mi sento obbligato a tornare sul tema perché nei
giorni scorsi Stefano Fassina dalle pagine dell’Unità ha interloquito
con il mio articolo qui apparso il 14 agosto scorso (oltreché con
Fioroni e Boccia) in modo molto puntuale e rigoroso.
In particolare ha ripreso, contestandolo duramente, il passo in cui
sostenevo che la «sinistra storica cammin facendo si è convinta che il
Pd potesse essere l’ultima forma della sequela di forme-partito
realizzate nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di una Bad
Godesberg…» chiedendosi e chiedendo: «Quali sono state le posizioni
assunte durante la segreteria Bersani che hanno riproposto la continuità
comunista, la conservazione, la vetero-socialdemocrazia?».
Dirò subito che non risponderò a questa domanda sia perché non coglie
il senso delle mie osservazioni, sia perché io ho votato Bersani alle
primarie e ne ho condiviso il programma puntigliosamente richiamato da
Fassina, sia infine perché ho molto rispetto per il percorso compiuto
dalla sinistra storica italiana.
A me pare che la domanda che dovremmo porci sia un’altra: com’è
potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora
una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo
interrogativo non ne verremo a capo. Alle ultime elezioni abbiamo
registrato infatti il dato elettorale, in valori assoluti, peggiore
degli ultimi venti anni, tre milioni di voti in meno del solo Pds (io
stavo altrove) di Occhetto nel 1994. Ma veniamo a confronti più vicini e
omogenei: nelle elezioni del febbraio scorso abbiamo preso come
coalizione 10.047.808 (3.641.552 in meno rispetto al 2008) e come Pd
8.644.523 (3.450.783 in meno rispetto al 2008). E, se proprio vogliamo
continuare a soffrire, possiamo aggiungere che come coalizione abbiamo
preso 8.954.790 (!) in meno rispetto al dato di Uniti nell’Ulivo del
2006.
Se ci fermassimo alle giustificazioni da propaganda (tipo: la destra
ha perso il doppio di voti di noi, l’astensionismo è un dato comune alle
democrazie moderne, molti nostri elettori passati al M5S torneranno
alle prossime elezioni) riveleremmo scarsa intelligenza oltreché scarsa
attitudine a sopportare il male. Dobbiamo invece, ora che la ferita è
aperta, proseguire la nostra analisi per cercare le cause in profondità.
Secondo uno studio recente di Ipsos metà dei nostri ultimi elettori
ha più di 55 anni, un terzo più di 65 anni. Il movimento di Grillo è il
primo partito in quasi tutte le segmentazioni dell’elettorato compresi
gli operai (29% contro il 20% del Pd e il 24% del Pdl), i disoccupati
(33% contro il 18% del Pd e il 25% del Pdl), gli studenti (37% contro il
23% del Pd e il 25% del Pdl). Il Pd è il primo partito (37%) solo tra i
pensionati.
Vorrei che ci fermassimo su questi numeri che valgono assai più dei
nostri filosofemi e delle nostre polemiche. Sono numeri che non ci
parlano della divisione all’interno del Pd fra social-democratici e
cattolico-democratici, ma che, al contrario, rivelano una dislocazione
dell’elettorato assai “laica” e secolarizzata rispetto alle ideologie
che sono alle nostre spalle.
Le fasce demografiche giovanili e quelle intermedie stanno
prevalentemente altrove, le fasce sociali più deboli (operai e
disoccupati) stanno prevalentemente altrove, le fasce dei nuovi lavori e
dei nuovi ceti produttivi pure. Perché? Perché non hanno letto il
nostro programma? Perché abbiamo fatto qualche errore nella
comunicazione? Perché non hanno apprezzato la chiusura orgogliosa e la
ristrettezza del gruppo dirigente del Pd? Perché abbiamo letto poche
encicliche del magistero sociale della Chiesa?
E si potrebbe proseguire con tante altre domande più o meno
retoriche, ma inutilmente, poiché è evidente che non di questo si
tratta. Io non so dare la risposta. Personalmente posso solo osare,
tentare, con tutti i rischi del caso. Penso che le tante
risposte/ipotesi possibili possano essere riassunte da una: perché siamo
visti, nel nostro complesso, come un pezzo di storia nobile ma ormai
passata. Il nostro (gran parte) personale, il nostro linguaggio, il
nostro argomentare, evocano un altro tempo. Destra/sinistra,
moderati/progressisti, neoliberisti/neosocialisti, credenti/non
credenti, sono categorie importanti e io credo non superate, eppure
sembrano diventate insopportabili quando sono declinate nel linguaggio
politico.
La modernità sembra pretendere la priorità del linguaggio della
concretezza e la conoscenza dei problemi. Una concretezza che abbia
incorporata (senza che sia declinata autonomamente) la dimensione etica.
La politica si vorrebbe fosse progetto ma soprattutto comportamento. La
“pedagogia sociale” di papa Francesco ha molte cose da insegnare: non
la dottrina, ma il comportamento che incorpora la dottrina. Con la
misura di radicalità necessaria a trasmettere l’idea della propria
alterità/diversità. Siamo in una nuova epoca, caro Fassina.
Il «cambiamento epocale», di cui parla con tanta sapienza Alfredo
Reichlin, nella società italiana (e non solo in quella ovviamente) è già
avvenuto, e la politica non può pensare/sperare che sia ancora in
corso: è avvenuto!
Non mi sorprende che in questo particolare momento Letta e Renzi
siano i nostri maggiori interpreti di questa novità. So bene che
entrambi sono figli di una “storia” che numericamente è minoritaria
nell’impasto originario del Pd, e questo oggettivamente può fare
problema, e non ritengo affatto che questa loro origine dia loro titolo
per impartire lezioni di modernità ad altri, semplicemente constato che
chi proviene da una storia politica “non ideologizzata” si trova oggi
meno a disagio nel comprendere le domande della modernità. Mi riferisco
ovviamente alle domande compatibili con la serietà e la responsabilità
della politica. In questo senso deve essere interpretato il mio
riferimento alla Bad Godesberg mancata alla sinistra italiana. Cioè quel
lavacro culturale e mentale che è condizione di vera laicità, nel senso
di vera libertà di sguardo rispetto al reale.
Le socialdemocrazie nordeuropee, quella tedesca, il laburismo
britannico, godono della libertà di parlare di “neue mitte” o di “new
welfare” senza aprire dibattiti su presunti cedimenti ideologici e
accuse di tradimento, semplicemente perché si pongono solo il problema
di interagire più efficacemente con i dati della realtà. Non è
pragmatismo.
È senso della realtà. Con ciò significa rinunciare
all’ambizione/responsabilità di raddrizzare il “legno storto” (la
«mutazione antropologica» di cui parlò a suo tempo Pasolini) di questo
tempo “berlusconizzato” in cui l’eccesso pulsionale affascina
materialisticamente tanti elettori? In cui, come osserva Massimo
Recalcati, il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua
trasgressione? In cui la libertà è l’indice di una volontà di godimento
che rifiuta ogni esperienza del limite? In cui sembrano accettate le
leggi ad personam come leggi che rifiutano la Legge? Sicuramente no.
Ma bisogna sapere che il tempo della semina dei valori, della
induzione di nuovi costumi e atteggiamenti mentali virtuosi necessita di
spazi lunghi, di pazienza, di coerenze confermate nel tempo, di
coltivazione delicata e rispettosa della coscienza collettiva di un
popolo e, soprattutto, di un linguaggio contemporaneo che consenta ai
cittadini che ci osservano (e, purtroppo, poco partecipano) di capire e
distinguere, perché nessuno possa più dire l’insulto inascoltabile:
«Siete tutti uguali». Ciò su cui vorrei riflettessimo è il dato
difficilmente declinabile della nostra essenza e del percepito della
nostra essenza.
Non è necessario riferirisi a una specifica enciclica sociale o
parlare bene di Cl (!) per manifestare il nostro riconoscimento dei
diritti connessi alla libertà religiosa, né – vorrei dire – affermare
come è scritto nel documento dei socialdemocratici tedeschi a Bad
Godesberg che per quanto riguarda l’impianto valoriale ci si riferisce
alla tradizione cristiana, basta che le proposizioni politiche
manifestino tale “sentiment”. La stessa cosa vale per le politiche
economiche, e non solo. È il “percepito” di noi che conta e che dovrebbe
essere al centro dell’analisi del nostro deludente e preoccupante
risultato elettorale. Spero che al congresso se ne possa parlare,
finalmente in modo serio e laico.
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