venerdì 16 agosto 2013

L’irresponsabilità della classe dirigente

Sergio Paronetto
Europa    
 
«Del cattivo uso della ricchezza è responsabile principalmente chi la detiene». 
Un testo fondamentale del cattolico Paronetto, uno dei padri del Codice di Camaldoli
Professione e rivoluzione: l’accostamento dei due termini potrà apparire arbitrario e gratuito solo a una considerazione superficiale e manchevole, ignara delle ragioni e delle forze che muovono i rivolgimenti sociali e le rivoluzioni di ogni tempo ed imprecisa nella valutazione e nella definizione di ciò che è “professione” nella struttura del corpo sociale, pur nelle diverse forme che una tale entità assume nei diversi ambienti storici.
Non ci sembra necessario soffermarci qui a mostrare con richiami storici, che ognuno saprà fare da sé, come ogni rivoluzione, da quelle di cui tanto fertile fu fin dai primordi la democrazia ateniese, al profondissimo capovolgimento sociale di cui è stata ed è teatro la Russia contemporanea, può essere considerata in un certo senso una “rivoluzione professionale” in quanto ha da un lato profondamente modificato e talora persino capovolto tutti quei valori umani, tecnici, economici, che il termine “professione” comprende e sottolinea, e si è dall’altro valsa di questi stessi valori come strumento essenziale di successo e di consolidamento.
Professione sta infatti a significare soprattutto due cose: il mondo e gli uomini della tecnica, intesa nel senso più lato, come quel complesso di conoscenze e di attività scientifiche, metodologiche ed organizzative attraverso le quali si manifesta l’umana operosità, rivolta a conseguire il naturale dominio dell’uomo e della sua ragione sulle cose e sul mondo e ad assicurare i fini della convivenza civile in tutti i suoi aspetti.
Professione vuole ancora, su un più specifico piano sociale, significare una distinzione fra le varie funzioni ed i relativi compiti spettanti ai membri del corpo sociale, individuando nei “professionisti” il nucleo essenziale e più vitale di quella che suol dirsi la classe dirigente. Sono proprio gli uomini in possesso di una professione nel senso sopra indicato, quelli dai quali dipende in buona parte l’imprimere l’indirizzo e il movimento alla miriade di organismi, di istituzioni, di attività di cui è mirabilmente intessuta la vita sociale. In questo senso professionista è non solo il medico, l’avvocato, il notaio, l’ingegnere, l’architetto, il giornalista, ma anche l’insegnante, il funzionario, il giudice, lo scienziato, l’artista, lo scrittore, il tecnico, e soprattutto il capo d’azienda, l’uomo d’affari, il banchiere, il dirigente di uffici, di organizzazioni, di enti, l’amministratore, l’uomo politico, il diplomatico: chiunque in altre parole sia titolare di un frammento, piccolo o grande che sia, della autorità sociale, vista nella sua specifica funzione, che è di “governo di uomini”, di coordinamento e guida della attività e del lavoro di altri uomini, fra loro legati da un vincolo che assai spesso, per non dir sempre, trascende i limiti della pura convenienza economica.
La professione nella società capitalistica
Così intesa la professione, non è chi non veda come sia giustificato analizzare quali siano le sue relazioni, quali le sue responsabilità, quali le sue prospettive davanti a quella che, sullo scorcio di un conflitto che è senza dubbio anche un grande conflitto sociale, si preannunzia per molti sintomi come una delle più radicali e sommovitrici rivoluzioni nella travagliata vicenda della storia umana; rivoluzione che, anzi, è già in atto per molti incontrovertibili fatti che ormai appartengono alla realtà della nostra attuale o imminente vita quotidiana, se non ancora alla storia.
Prima però di cercare di definire i termini e gli aspetti di questa rivoluzione e la posizione che di fronte ad essa spetta alla professione, preme di renderci conto della parte che essa professione ha avuto ed ha nell’ordine, o meglio nel disordine sociale dal quale è nato e si è sviluppato il fermento rivoluzionario che oggi, al di sopra di ogni frontiera politica ed ideologica, sommuove nel profondo le strutture della società civile.
L’indagine potrebbe essere vasta, approfondita ed anche interessante e feconda: ma qui ci basti solo mettere in luce un aspetto sul quale si è già soffermata, in un senso però più generale, la nostra rivista: la responsabilità della professione. E specifichiamo: la responsabilità che alla professione spetta nell’ordine sociale moralmente ingiusto e umanamente insostenibile, malgrado ogni giustificazione storicistica, quale è – senza possibilità di dubbio – quello nel quale siamo vissuti e per il quale siamo precipitati nel sanguinoso e distruttivo dramma collettivo che tutti oggi viviamo. Uno degli aspetti principali, se non il principale, di tale grave disagio è costituito dalle molteplici forme di quella che potrebbe chiamarsi “l’ingiustizia sociale” intesa come mancata attuazione di un minimo di “giustizia sociale”, di quella giustizia cioè che presiede a tutti i rapporti sociali ed in particolare alla distribuzione e all’uso dei beni materiali, ed alle relazioni fra le classi e gli organismi della vita sociale e che, per ciò stesso, non limita la sua sfera di influenza alla vita economica, ma riguarda la stessa espansione e lo sviluppo della persona umana nelle sue manifestazioni sociali e in primo luogo la stessa libertà.
È, in definitiva, per una grave ed insanabile carenza di giustizia sociale che nella attuale società regnano il privilegio, l’oppressione e la violenza, esercitate sia colla forza bruta che con l’occulta, ma assai spesso più potente, leva dell’interesse e del pane quotidiano; è per questo stesso motivo che sono spesso rese possibili profonde lesioni della dignità umana; che si nega lo “spazio vitale” alla famiglia, e che si origina quella inconsistenza economica e sociale che è causa non ultima della progressiva spersonalizzazione e della avvilente irresponsabilità di tanta parte degli uomini d’oggi; del pari l’eguaglianza fra gli uomini a parità di meriti e di attitudini, anche se spesso sancita dall’ordinamento giuridico, rimane un ideale irraggiungibile, e l’educazione e l’elevazione del popolo rimane preclusa, e le stesse coscienze si adagiano in uno stanco e rassegnato disinteresse, o si agitano in moti inconsulti e irresponsabili, anche se spesso fin troppo giustificati.
L’ideologia socialista e quella comunista attribuiscono tutto ciò al permanere del potere politico nelle mani della classe capitalistica e della borghesia. Spogliata la tesi di ogni aspetto polemico e di ogni irreale e infondata specificazione classistica, è pur vero che in buona parte questo stato di fatto è legato ad un sistema e a una prassi profondamente malate e fatalmente degeneri circa l’uso dei beni materiali e la distribuzione della ricchezza e circa la concezione stessa della vita economica e i suoi rapporti coll’etica e con il diritto naturale. Ed è pur vero che di questo cattivo uso della ricchezza sono principalmente responsabili coloro che della ricchezza o del potere sono in possesso.
* dal saggio “Professione  e rivoluzione” in Studium, n. 1-2, gennaio-febbraio 1944, pp. 3-12

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