«Del cattivo uso della ricchezza è responsabile principalmente chi
la detiene».
Un testo fondamentale del cattolico Paronetto, uno dei
padri del Codice di Camaldoli
Professione e rivoluzione: l’accostamento dei due termini potrà
apparire arbitrario e gratuito solo a una considerazione superficiale e
manchevole, ignara delle ragioni e delle forze che muovono i
rivolgimenti sociali e le rivoluzioni di ogni tempo ed imprecisa nella
valutazione e nella definizione di ciò che è “professione” nella
struttura del corpo sociale, pur nelle diverse forme che una tale entità
assume nei diversi ambienti storici.
Non ci sembra necessario soffermarci qui a mostrare con richiami
storici, che ognuno saprà fare da sé, come ogni rivoluzione, da quelle
di cui tanto fertile fu fin dai primordi la democrazia ateniese, al
profondissimo capovolgimento sociale di cui è stata ed è teatro la
Russia contemporanea, può essere considerata in un certo senso una
“rivoluzione professionale” in quanto ha da un lato profondamente
modificato e talora persino capovolto tutti quei valori umani, tecnici,
economici, che il termine “professione” comprende e sottolinea, e si è
dall’altro valsa di questi stessi valori come strumento essenziale di
successo e di consolidamento.
Professione sta infatti a significare soprattutto due cose: il mondo e gli uomini della tecnica,
intesa nel senso più lato, come quel complesso di conoscenze e di
attività scientifiche, metodologiche ed organizzative attraverso le
quali si manifesta l’umana operosità, rivolta a conseguire il naturale
dominio dell’uomo e della sua ragione sulle cose e sul mondo e ad
assicurare i fini della convivenza civile in tutti i suoi aspetti.
Professione vuole ancora, su un più specifico piano sociale,
significare una distinzione fra le varie funzioni ed i relativi compiti
spettanti ai membri del corpo sociale, individuando nei “professionisti”
il nucleo essenziale e più vitale di quella che suol dirsi la classe dirigente.
Sono proprio gli uomini in possesso di una professione nel senso sopra
indicato, quelli dai quali dipende in buona parte l’imprimere
l’indirizzo e il movimento alla miriade di organismi, di istituzioni, di
attività di cui è mirabilmente intessuta la vita sociale. In questo
senso professionista è non solo il medico, l’avvocato, il notaio,
l’ingegnere, l’architetto, il giornalista, ma anche l’insegnante, il
funzionario, il giudice, lo scienziato, l’artista, lo scrittore, il
tecnico, e soprattutto il capo d’azienda, l’uomo d’affari, il banchiere,
il dirigente di uffici, di organizzazioni, di enti, l’amministratore,
l’uomo politico, il diplomatico: chiunque in altre parole sia titolare
di un frammento, piccolo o grande che sia, della autorità sociale, vista
nella sua specifica funzione, che è di “governo di uomini”, di
coordinamento e guida della attività e del lavoro di altri uomini, fra
loro legati da un vincolo che assai spesso, per non dir sempre,
trascende i limiti della pura convenienza economica.
La professione nella società capitalistica
Così intesa la professione, non è chi non veda come sia giustificato
analizzare quali siano le sue relazioni, quali le sue responsabilità,
quali le sue prospettive davanti a quella che, sullo scorcio di un
conflitto che è senza dubbio anche un grande conflitto sociale, si
preannunzia per molti sintomi come una delle più radicali e sommovitrici
rivoluzioni nella travagliata vicenda della storia umana; rivoluzione
che, anzi, è già in atto per molti incontrovertibili fatti che ormai
appartengono alla realtà della nostra attuale o imminente vita
quotidiana, se non ancora alla storia.
Prima però di cercare di definire i termini e gli aspetti di questa
rivoluzione e la posizione che di fronte ad essa spetta alla
professione, preme di renderci conto della parte che essa professione ha
avuto ed ha nell’ordine, o meglio nel disordine sociale dal quale è
nato e si è sviluppato il fermento rivoluzionario che oggi, al di sopra
di ogni frontiera politica ed ideologica, sommuove nel profondo le
strutture della società civile.
L’indagine potrebbe essere vasta, approfondita ed anche interessante e
feconda: ma qui ci basti solo mettere in luce un aspetto sul quale si è
già soffermata, in un senso però più generale, la nostra rivista: la responsabilità della professione.
E specifichiamo: la responsabilità che alla professione spetta
nell’ordine sociale moralmente ingiusto e umanamente insostenibile,
malgrado ogni giustificazione storicistica, quale è – senza possibilità
di dubbio – quello nel quale siamo vissuti e per il quale siamo
precipitati nel sanguinoso e distruttivo dramma collettivo che tutti
oggi viviamo. Uno degli aspetti principali, se non il principale, di
tale grave disagio è costituito dalle molteplici forme di quella che
potrebbe chiamarsi “l’ingiustizia sociale” intesa come mancata
attuazione di un minimo di “giustizia sociale”, di quella giustizia cioè
che presiede a tutti i rapporti sociali ed in particolare alla
distribuzione e all’uso dei beni materiali, ed alle relazioni fra le
classi e gli organismi della vita sociale e che, per ciò stesso, non
limita la sua sfera di influenza alla vita economica, ma riguarda la
stessa espansione e lo sviluppo della persona umana nelle sue
manifestazioni sociali e in primo luogo la stessa libertà.
È, in definitiva, per una grave ed insanabile carenza di giustizia
sociale che nella attuale società regnano il privilegio, l’oppressione e
la violenza, esercitate sia colla forza bruta che con l’occulta, ma
assai spesso più potente, leva dell’interesse e del pane quotidiano; è
per questo stesso motivo che sono spesso rese possibili profonde lesioni
della dignità umana; che si nega lo “spazio vitale” alla famiglia, e
che si origina quella inconsistenza economica e sociale che è causa non
ultima della progressiva spersonalizzazione e della avvilente
irresponsabilità di tanta parte degli uomini d’oggi; del pari
l’eguaglianza fra gli uomini a parità di meriti e di attitudini, anche
se spesso sancita dall’ordinamento giuridico, rimane un ideale
irraggiungibile, e l’educazione e l’elevazione del popolo rimane
preclusa, e le stesse coscienze si adagiano in uno stanco e rassegnato
disinteresse, o si agitano in moti inconsulti e irresponsabili, anche se
spesso fin troppo giustificati.
L’ideologia socialista e quella comunista attribuiscono tutto ciò al
permanere del potere politico nelle mani della classe capitalistica e
della borghesia. Spogliata la tesi di ogni aspetto polemico e di ogni
irreale e infondata specificazione classistica, è pur vero che in buona
parte questo stato di fatto è legato ad un sistema e a una prassi
profondamente malate e fatalmente degeneri circa l’uso dei beni
materiali e la distribuzione della ricchezza e circa la concezione
stessa della vita economica e i suoi rapporti coll’etica e con il
diritto naturale. Ed è pur vero che di questo cattivo uso della
ricchezza sono principalmente responsabili coloro che della ricchezza o
del potere sono in possesso.
* dal saggio “Professione e rivoluzione” in Studium, n. 1-2, gennaio-febbraio 1944, pp. 3-12
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