La Stampa 13/08/2013
L’incessante mancanza di rispetto che
investe la Ministra Kyenge non nuoce solo a lei. Il dileggio e il
disprezzo che piovono dall’alto – da importanti cariche dello
Stato, da leader politici, compreso il pugnace Bossi, da accademici ed
editorialisti – legittimano l’insulto stradale, l’aggressione spicciola.
Espongono a un maggior rischio non solo le persone di origine immigrata
che vivono in Italia, ma anche chi si trova nel nostro Paese come
turista o come uomo d’affari straniero, se gli capita di avere una
fisionomia poco europea. E questo ovviamente nuoce all’Italia, alla sua
immagine internazionale, ai suoi rapporti commerciali, al suo turismo.
Una commessa italiana di
Zurigo che ha fatto notare alla supermiliardaria conduttrice nera Oprah
Winfrey quanto il costo di una borsetta (27.000 euro, sic!) potesse
risultare eccessivo per le sue tasche è finita in prima pagina; ma forse
l’accorta commessa avrebbe messo in guardia qualunque signora priva di
patenti indicatori di esagerata ricchezza. Chi dice a Kyenge che non può
fare la Ministra, invece, lo dice proprio perché non vuole accettare in
quella posizione una donna di colore. Dietro questo indecoroso rigetto
individuale c’è un più ampio e pericoloso rigetto. C’è un rifiuto del
presente destinato a produrre seri problemi nel futuro.
La popolazione del presente italiano, che piaccia o meno, è
fatta anche di immigrazione e di post-immigrazione. Gli stranieri
residenti in Italia al primo gennaio 2013 erano 4.387.721, il 7,8% della
popolazione, e tra questi non si computano gli individui che, pur
essendo di origine straniera, come Kyenge o la sua ex collega Idem, sono
diventati cittadini italiani: nel solo 2012 sono stati più di 65.000. I
residenti stranieri aumentano: solo nell’ultimo anno di 334.000 unità,
8,2% in più rispetto all’anno precedente. E intorno a queste cifre, con
varie oscillazioni, si sono assestati gli aumenti degli ultimi anni,
anche se dobbiamo aspettarci nel breve termine un rallentamento legato
alla crisi economica. Considerare l’immigrazione un fenomeno reversibile
significa negare l’evidenza, affrontarlo a suon di insulti per
incassare qualche voto è un atto di consapevole irresponsabilità. Anche
se nel nostro Paese di atti di irresponsabilità politica se ne
commettono in buon numero, non è un buon motivo per insistere. Partiamo
dalla constatazione che la popolazione italiana futura sarà composta
sempre più da individui e famiglie di provenienze nazionali e di etnie
diverse. Occorre gestire questa potente trasformazione sociale con la
prudenza che merita. Non è facile, perché le manifestazioni di
insofferenza dimostrano che non si tratta solo di integrare gli
immigrati, ma che si deve pure integrare quella parte non piccola di
italiani che non accetta di vivere in un paese di immigrazione.
Chi oggi non vuole cambiare la legge sulla cittadinanza, chi
rifiuta forme moderate di ius soli, manifesta un più ampio rifiuto
dell’immigrazione e dei suoi figli. Nel 2012 sono nati 80.000 bambini
stranieri, ed è bene essere consapevoli che la stragrande maggioranza di
loro resterà a vivere in Italia: farli diventare italiani prima dei 18
anni è solo ragionevole. Tuttavia, anche chi accetta l’immigrazione e
vuole giustamente cambiare la legge sulla cittadinanza in senso più
liberale, deve tener conto della realtà dei fenomeni migratori, dei loro
aspetti presenti e delle probabili evoluzioni future. È bene non
ripetere l’errore fatto con la riforma della cittadinanza del 1992, che
guardava al passato: tutta rivolta a premiare i discendenti degli
emigrati italiani all’estero, quando l’Italia era diventata più
destinazione che fonte di emigrazione.
Il grosso delle proposte in discussione mira a favorire i
bambini nati e istruiti in Italia, e a ridurre i tempi di residenza
richiesti agli adulti per fare domanda di naturalizzazione (ora sono tra
i più lunghi d’Europa). Si tratta di proposte che circolano dalla fine
degli anni Novanta: vanno benissimo ma hanno bisogno di una bella
rinfrescata. È vero che il grosso degli immigrati è qui per restare, ma
non tutti lo fanno o lo faranno. Gli stranieri (anche una volta
naturalizzati) possono decidere di spostarsi in un altro Paese, o
tornare in patria. Nel 2012 hanno lasciato l’Italia almeno 38.000
immigrati (probabilmente molti di più, visto che non tutti si cancellano
all’anagrafe). Non sappiamo, invece, se e quanti «nuovi cittadini»,
immigrati naturalizzati italiani, abbiano lasciato il Paese. Chiediamoci
se non sia il caso di individuare le condizioni in base alle quali si
trasmette la cittadinanza da parte di naturalizzati che rientrano nella
patria di origine o vanno altrove (e, in parallelo, ragionare sui
requisiti da richiedere ai discendenti di emigrati italiani per
ereditare la cittadinanza risiedendo all’estero). Insomma, occorre
ideare una riforma della cittadinanza che tenga conto della mobilità.
Il vecchio accordo italo-argentino del 1971 prevedeva che, a
turno, la cittadinanza del Paese in cui non si risiedeva fosse «messa
in sonno»: non era una cattiva soluzione. Invece, con la riforma
costituzionale del 2001 abbiamo assegnato ai discendenti di emigrati
italiani che magari non hanno mai visitato il nostro Paese il diritto di
eleggere propri rappresentanti sulla base di stravaganti
macro-circoscrizioni, e sappiamo quanti pasticci ne siano nati.
D’altra parte, occorre regolare il pur auspicabile
incremento delle carriere politiche dei «nuovi cittadini». Si vuole
chiedere un supplemento di anni di residenza, dopo la naturalizzazione,
per accedere alle massime cariche pubbliche? Si vuole riservare la
carica più alta, quella della Presidenza della Repubblica, ai nati in
Italia, come avviene negli Usa? Si vuole chiedere a chi viene eletto in
Parlamento, o nei consigli regionali, di rinunciare alla cittadinanza
del Paese di origine? Sono domande legittime, che non implicano
necessariamente risposte affermative, ma richiedono una riflessione,
specie in un contesto di crescente mobilità. Non vorrei, però, che la
complessa questione dell’integrazione si avvitasse intorno al tema della
cittadinanza e dei diritti politici. Abbiamo assistito a fallimenti nei
percorsi di integrazione anche in Paesi a cittadinanza facile, come la
Francia o la Gran Bretagna. Purtroppo non esistono ricette facili per
integrare. C’è, però, una ricetta facile per sabotare l’integrazione e
aumentare conflitti interetnici: esibire disprezzo culturale nei
confronti degli immigrati. Se al rispetto umano non ci spinge
un’auspicabile sensibilità, ci spinga almeno il calcolo razionale dei
danni che fomentare i conflitti comporta.
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