venerdì 9 agosto 2013

Il cenno del capo


Mario Lavia 
 
Non era mai accaduto, nella storia dei partiti politici, che un congresso venisse fissato con cenno del capo. Come Humphrey Bogart quando fa suonare la Marsigliese in una delle scene più celebri di Casablanca, ieri Epifani con un seppur lievissimo ondeggiare della testa, uno sporgere il mento di pochi millimetri, magari un impercettibile ammiccamento con gli occhi, ha scritto un pezzetto di storia.
Forse voleva dire, alla Marina Sereni che si era trovata improvvisamente sul banco dei giudici che devono emettere il verdetto, sì, tagliamo corto: ma nel senso, poi si vede. Troppo tardi: aveva annuito, il Capo aveva mosso il capo. Lo sventurato rispose, come la Monaca di Monza.
Ed è stato subito Pirandello. Bene, abbiamo una data (renziani e compagni di strada dei renziani), no, nulla di deciso (apparato di fede bersaniana): come il signor Ponza e la signora Frola, ognuno accusa l’altro di essere pazzo.
Ecco, nel Romanzo Congressuale finora mancava il capito dell’Equivoco. Pensavamo che fossero sufficienti le kafkiana pagine sulle regole, ora abbiamo anche una scena fra Ionesco e Age e Scarpelli. “Ma che volevi dirmi, Guglielmo?”, piena commedia all’italiana.
Ma si può? Può un gruppo dirigente normale, cioè non prigioniero di macchinazioni, sue o di altri, non nervoso e timoroso, impasticciarsi in questo modo? Che ci voleva a dire, già nella relazione, bene amici e compagni, la primarie le facciamo il 24 novembre. Se poi nel frattempo scoppia la guerra mondiale, o arriva un tifone, o c’è un’invasione delle cavallette, ci rivediamo e decidiamo il da farsi. Ma intanto fissiamo un punto fermo. No: sempre nel vago. Continuiamo così, facciamoci del male.

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