Una ricercatrice, un Nobel per la fisica, un direttore d'orchestra, un architetto. Tutti e quattro di fama mondiale. Per dare lustro alle istituzioni il presidente della Repubblica non ha scelto neppure un politico. Come se il solo possibile antidoto all'idea depressa che l'Italia ha di se stessa fosse cambiare radicalmente prospettiva.
Volgere le spalle ai palazzi del potere e cercare il valore nelle avventure individuali di italiani operosi ed eccellenti.Artisti e scienziati spesso capiti e apprezzati prima all’estero che in patria.
Al di là dei nomi dei quattro senatori a vita (il cui calibro è comunque cento volte maggiore di molti degli esponenti politici che ne commentano la nomina), nella scelta di Napolitano ciò che colpisce è questo compatto rivolgersi “altrove”, a un’Italia cosmopolita e dunque sprovincializzata, che ha vissuto, lavorato, avuto fama e successo a distanza siderale dalle beghe miserabili che paralizzano la vita nazionale, e che cento metri oltre i nostri confini paiono insignificanti, penosi dettagli rispetto al battito del mondo. Che magari sa cosa accade a Parigi o a Londra o a Tokyo, meno che cosa succede a Roma, specie quando ciò che succede a Roma è così poco intellegibile. La sproporzione tra la fama e il peso culturale dei nuovi senatori e la media della rappresentanza parlamentare (anch’essa “nominata”, grazie al Porcellum: ma con quanto merito in meno!) assume, indirettamente, quasi il significato di una denuncia. La denuncia della crisi paurosa della politica, dell’incepparsi patologico dei meccanismi di selezione della classe dirigente attraverso la via più diretta, che è o meglio sarebbe quella elettorale.
Molti dei commenti politici di ieri rimandano, purtroppo, a questa mediocrità. Quasi incredibili, nella loro pochezza da ragionierino astioso, le parole del senatore delle Cinquestelle Alberto Airola, molto seccato perché i quattro neo-nominati «saranno stipendiati a vita senza essere stati eletti da nessuno e saranno i lacché delle larghe intese». Come se Piano e Abbado avessero bisogno, per vivere, di uno stipendio pubblico; e come se il tragitto che ha condotto all’elezione la quasi totalità dei grillini, spesso poche decine di voti cliccati su un sito web ben controllato e filtrato, avesse un qualunque, percepibile significato di democrazia diretta. Chissà se chiederanno gli scontrini del cappuccino, i cinquestellati, anche a Renzo Piano, per altro buon amico di Beppe Grillo.
Stendiamo un velo pietoso sulla dichiarazione della signora Santanché («il solo che doveva essere nominato senatore a vita è Berlusconi»: poco più, anzi poco meno di una battuta di spirito). Ma è impossibile tacere della ciancia meschina, da angiporto della politica, capace di leggere in quelle quattro nomine (e in quei quattro profili italiani) il tentativo di offrire una stampella alle larghe intese. Bisognerebbe spiegare ai tanti parlamentari abituati al piccolo cabotaggio tattico, e qualcuno purtroppo anche alla messa all’asta del proprio voto, che esiste anche un mondo normale. Dove i loro discorsi, i loro sospetti, i loro calcoli paiono trascurabile fanghiglia, e contano zero. Immaginare un Rubbia o una Cattaneo che tramano pro o contro il governo Letta (o pro o contro chicchessia) equivale ad avere perduto il vaglio delle cose, la misura della realtà.
Certo, come accaduto anche in passato, è rintracciabile, nei profili dei nuovi senatori a vita, specie Abbado e Piano, “qualcosa di sinistra”. Ma questo rimanda a una annosa, penosissima questione, che è la gran fatica con la quale “la destra”, genericamente intesa, produce i suoi intellettuali, i suoi artisti, i suoi personaggi illustri. In attesa di udire la solita solfa contro “i comunisti” Abbado e Piano, o le velenose insolenze che colpirono un gigante come la Montalcini, è più serio e più proficuo registrare l’enorme difficoltà che qualunque presidente italiano avrebbe nello scovare e nominare senatori a vita francamente di destra. Non è questo lo spirito con il quale si procede a quelle nomine; ma si può capire che un poco di par condicio in più aiuterebbe a rendere ancora più limpida, ancora più condivisa l’investitura dei senatori a vita. La battuta della signora Santanché ci fa capire quanto manchi, al nostro Paese,una destra di alto
Michele Serra
La Rebupplica - 31/08/2013
foto del giorno
sabato 31 agosto 2013
La bella Italia che vorremmo
Finalmente ora il Pd è pronto a reagire alla crisi
Stefano Menichini
Europa
Renzi corre per la segreteria, lui e Letta uniti nel negare ogni
"salvezza" a Berlusconi. La risposta è un preannuncio di caduta del
governo: scelta grave ma che non troverà più il Pd subalterno.
Il nodo che pareva il più complicato della stagione si scioglie a
Forlì. Matteo Renzi accetta di correre per la segreteria del Pd anche
nella prospettiva di una buona durata del governo Letta.
Ma bastano pochi minuti perché la questione si ponga in termini del
tutto diversi, opposti a quanto abbiamo raccontato negli ultimi giorni
dopo l’esito della trattativa sull’Imu.
Perché, dopo che sia il presidente del consiglio che il più forte
candidato alla guida del Pd, da Genova e da Forlì, avevano chiuso ogni
discorso sul “salvataggio” di Berlusconi, la risposta dell’interessato è
stata l’annuncio che, se le cose dovessero andare come preannunciano
Letta e Renzi (e come Epifani ha ribadito più volte senza incontrare
alcun dissenso interno), alla sua decadenza da senatore corrisponderà
l’immediata caduta del governo delle larghe intese.
Si può osservare che Berlusconi ha già detto questo e l’esatto
contrario, più volte, negli ultimi mesi. È vero. Ogni racconto sul
Berlusconi privato di questi giorni converge nel descrivere un uomo
depresso, confuso, incerto, con forti sbalzi d’umore e d’opinione.
Inoltre quella che potremmo definire – almeno sul piano della
propaganda – come la vittoria del Pdl sull’Imu ha dato sostanza alle
posizioni dei berlusconiani governisti. Il buon argomento di campagna
elettorale – la promessa fiscale mantenuta – si scioglierebbe se la
promessa, causa crisi di governo, dovesse rimanere incompiuta.
Quindi nulla ancora può essere dato per definitivo, a questo punto della vicenda.
Tranne ciò che francamente ci sta più a cuore. Molto più a cuore dei destini di Berlusconi.
E cioè che da ieri la marcia di avvicinamento del Pd alla resa dei
conti elettorale ha trovato un sentiero diritto. Che non vuol dire che i
giochi per Renzi siano fatti ma semplicemente (eppure non pareva così
semplice) che nei prossimi tre mesi si sceglie e si consolida, senza
pasticci né equivoci, la leadership incaricata di chiudere da sinistra
l’epoca delle larghe intese. Come lo stesso Enrico Letta ha affermato
ieri con grande forza.
Questo è il punto chiave.
Berlusconi potrà pensarci, ripensarci, e ripensarci altre dieci
volte. La faticosa coabitazione fra Pd e Pdl potrà durare ancora poche
settimane, oppure qualche mese. Ma non ci sarà più un Pd frastornato e
subalterno, bensì un partito unito nella voglia di vincere, stavolta,
l’intera posta.
venerdì 30 agosto 2013
non se ne può più!!!
Berlusconi: vogliono togliermi di mezzo "Stop al governo se mi fanno decadere"
Letta: “Non è il governo che volevo”
franceschini fioroni marini e rosi bindi....questo è il pd di renzi
Bersani....questo è il pd di Renzi!
altra buona notizia...
soldati israeliani ballano a una festa palestinese....sospesi
Hanno sentito la musica dello Gangnam Style e non hanno resistito. Un
drappello di soldati israeliani che erano in servizio di pattuglia a
Hebron si è imbucato in un locale dove si stava festeggiando un
matrimonio e, deposti i fucili, hanno iniziato a ballare. Ma qualcuno ha
ripreso la scena con il telefonino: si vede un soldato con divisa e
elmetto ballare sulle spalle di un giovane palestinese. Il video è stato
diffuso, anche perché a quanto sembra, il locale è abitualmente
frequentato da membri di Hamas. I soldati sono finiti nei guai: sono
stati posti sotto indagine e sospesi in attesa degli esiti.
buona notizia!
Il Parlamento britannico ha bocciato ieri notte la mozione del premier Cameron per usare la forza in Siria
Sfida per l’egemonia sul governo
Stefano Menichini
Europa
La sinistra sente la vicenda dell'Imu come una vittoria di
Berlusconi. Non è vero, ma il messaggio va ribaltato. Da oggi dovrà
pensarci Matteo Renzi
Come gli capita spesso, perché in questo lui è un fuoriclasse,
Matteo Renzi ha trovato le parole giuste per esprimere il sentimento
diffuso nel popolo del centrosinistra. E l’ha fatto, visto che parlava
con un settimanale, prima di conoscere l’esito finale della trattativa
di governo sull’Imu.
Che sia vera o no – e noi sappiamo che non è così vera –
l’impressione di tutti è in effetti che il governo Letta sia dipendente
innanzi tutto da Silvio Berlusconi, nella buona e nella cattiva sorte.
Dunque per Renzi il tema d’autunno, il fulcro della campagna per le
primarie democratiche, è bilanciare questo squilibrio restituendo al Pd
il ruolo che gli spetta di padrone politico della legislatura.
Ovviamente nell’apparente egemonia berlusconiana c’è una logica, al
di là della fragilità di questo Pd: risiede nella genesi stessa delle
larghe intese. Lui le voleva, il Pd no. Lui le ha avute, il Pd le ha
subite. Lui le ha difese, contro i falchi del proprio stesso campo, il
Pd si limita a coprirle agli occhi di una opinione pubblica di sinistra
rimasta molto diffidente.
La gestione della vicenda Imu da parte di Letta è stata perfetta, il
tandem con Alfano ha funzionato benissimo, può perfino darsi che gli
effetti per l’economia, per le famiglie e per i comuni siano davvero
positivi (se si vigilerà in favore degli inquilini). In più ci sono le
sacrosante misure per esodati e cassintegrati. Ma i democratici non
riescono a “vendere” le misure di fine agosto come un successo. Un po’
pasticciano con la comunicazione. Come al solito, la posizione della
Cgil non aiuta. Risultato: Pd sulla difensiva, di nuovo.
Da stasera, con la parola a Renzi, si cambia marcia.
Non è poi un compito difficile, il suo. Non si tratta di attaccare il
governo: farlo ora sarebbe ingiusto, incomprensibile e soprattutto
inutile vista l’assicurazione sulla vita che Letta s’è garantita per i
prossimi mesi. Si tratta di riscattare il Pd trasformandolo da stanco e
poco convinto difensore del governo in duro giocatore d’attacco. Letta è
sulla stessa linea.
Il prossimo campo di gioco è già designato: la decadenza dal senato.
Perché l’egemonia di Berlusconi sulla legislatura non è ancora arrivata
al punto di trasformare governo, parlamento e Quirinale in corte di
giudizio di quarto grado. E questo non glielo si può consentire in alcun
modo: se vorrà farne discendere la crisi, spiegherà lui agli elettori
la brutta fine della mitica abolizione dell’Imu.
'Larghe intese ma anche no'
di Marco Damilano
«Non mi metto di traverso al governo, però l'accordo
con il Pdl non può diventare un'ideologia. E basta anche con la
tecnocrazia, europea o italiana. La politica deve restituire un po' di
speranza». Il sindaco di Firenze cambia marcia: guardando a sinistra e
criticando l'esecutivo. L'anticipazione de 'l'Espresso' in edicola
domani
L'annuncio è ancora rinviato, il sindaco di Firenze aspetta che
finalmente il congresso del Pd sia convocato con l'assemblea del
20-21 settembre per formalizzare la scelta con un evento speciale
modello Leopolda, ma la decisione è già stata presa. Matteo Renzi
si candiderà alla guida del Pd e in caso di elezione farà il
segretario del partito.
Alla vigilia del suo ritorno in scena, alle feste del Pd di fine settimana, 'L'Espresso' rivela piani, strategie, alleanze, amici e nemici del sindaco di Firenze. La sua idea di Pd. E il rapporto con il governo Letta. «Il governo dura», prevede il sindaco. «C'è un unico elemento imponderabile, si chiama Berlusconi. Ma non ha nessuna convenienza reale a tentare la spallata. Poi, cosa farebbe?». E se Letta resiste, «al Pd resta una sola strada: fare il Pd. In questi mesi si è sentita solo la voce del Pdl sull'Imu, questione rilevantissima, per carità, ma non è l'unica cosa che interessa agli italiani».
«Non sarò mai io ad aprire una polemica o a metterlo in crisi, se c'è bisogno di un nemico, spiacente, non sarò certo io a interpretare questo ruolo. Mi metto di lato», ripete Renzi. Ma aggiunge: «Le larghe intese non possono diventare un'ideologia, come vorrebbe qualcuno, la politica deve restituire speranza». E poi: «Se il governo dura e fa le cose, e io spero che sia così, il Pd dovrà incalzarlo ogni giorno con una sua proposta. La legge elettorale su modello di quella dei sindaci, funziona benissimo. Oppure il taglio delle pensioni d'oro. Il governo Letta deve diventare il governo del Pd. E ogni giorno il segretario del Pd, chiunque egli sia, deve spingere perché il governo sia coerente con i suoi programmi».
Nel 2014 si voterà per le elezioni europee, quasi certamente Renzi sarà candidato. La riserva sulla sua candidatura alla segreteria non è ancora sciolta, ma il congresso per il sindaco non è la rivincita delle primarie 2012: «Basta con la tecnocrazia, quella europea e quella esportata in Italia. Serve restituire dignità alla politica e dignità all'Italia in Europa, l'unico partito che può farlo è il Pd. Un Pd molto diverso da com'è ora, certo. Un partito della base e non del vertice della piramide. Un partito in cui le burocrazie di apparato contano meno degli amministratori locali. Il partito è di chi ha il consenso della gente e si misura con il governo. Un partito così non è leggero, anzi, deve essere più organizzato dell'attuale».
Alla vigilia del suo ritorno in scena, alle feste del Pd di fine settimana, 'L'Espresso' rivela piani, strategie, alleanze, amici e nemici del sindaco di Firenze. La sua idea di Pd. E il rapporto con il governo Letta. «Il governo dura», prevede il sindaco. «C'è un unico elemento imponderabile, si chiama Berlusconi. Ma non ha nessuna convenienza reale a tentare la spallata. Poi, cosa farebbe?». E se Letta resiste, «al Pd resta una sola strada: fare il Pd. In questi mesi si è sentita solo la voce del Pdl sull'Imu, questione rilevantissima, per carità, ma non è l'unica cosa che interessa agli italiani».
«Non sarò mai io ad aprire una polemica o a metterlo in crisi, se c'è bisogno di un nemico, spiacente, non sarò certo io a interpretare questo ruolo. Mi metto di lato», ripete Renzi. Ma aggiunge: «Le larghe intese non possono diventare un'ideologia, come vorrebbe qualcuno, la politica deve restituire speranza». E poi: «Se il governo dura e fa le cose, e io spero che sia così, il Pd dovrà incalzarlo ogni giorno con una sua proposta. La legge elettorale su modello di quella dei sindaci, funziona benissimo. Oppure il taglio delle pensioni d'oro. Il governo Letta deve diventare il governo del Pd. E ogni giorno il segretario del Pd, chiunque egli sia, deve spingere perché il governo sia coerente con i suoi programmi».
Nel 2014 si voterà per le elezioni europee, quasi certamente Renzi sarà candidato. La riserva sulla sua candidatura alla segreteria non è ancora sciolta, ma il congresso per il sindaco non è la rivincita delle primarie 2012: «Basta con la tecnocrazia, quella europea e quella esportata in Italia. Serve restituire dignità alla politica e dignità all'Italia in Europa, l'unico partito che può farlo è il Pd. Un Pd molto diverso da com'è ora, certo. Un partito della base e non del vertice della piramide. Un partito in cui le burocrazie di apparato contano meno degli amministratori locali. Il partito è di chi ha il consenso della gente e si misura con il governo. Un partito così non è leggero, anzi, deve essere più organizzato dell'attuale».
l'espresso 29 agosto 2013
giovedì 29 agosto 2013
no alla guerra...
Una manifestazione a Londra, contro l’intervento militare in Siria da parte di Regno Unito e Stati Uniti. |
ditelo a Violante...
«Berlusconi ideatore del giro illecito sui diritti Mediaset»
Sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha condannato il leader del Pdl a 4 anni di reclusione. Tutto il collegio ha deciso di firmare il documento che, di norma, viene siglato solo dal presidentemercoledì 28 agosto 2013
'I have a dream'', 50 anni fa il discorso di Martin Luther King
http://video.repubblica.it/mondo/i-have-a-dream-50-anni-fa-il-
discorso-di-martin-luther-king/138103/136649
Washington, 28 agosto 1963. Davanti a una
folla di 200mila persone, radunate al Lincoln memorial, Martin Luther
King pronuncia lo storico discorso nel quale più volte pronuncia la
frase ''I' have a dream'': "Ho un sogno. Quello di vedere ogni uomo
uguale all'altro". Il 10 febbraio del 1964 viene approvata la legge per i
diritti civili e nel dicembre dello stesso anno Martin Luther King
viene insignito del premio Nobel per la pace
Renzi chieda trasparenza sulla scelta dei vertici Mps
Tito Boeri , Luigi Guiso
Europa
Le fondazioni bancarie continuano a perpetuare un sistema in cui la
politica ha un ruolo primario di controllo sul sistema bancario
Le nostre banche vivono un momento difficile. Otto di loro sono
state messe sotto sorveglianza speciale dalla Banca d’Italia, perché
hanno accantonamenti insufficienti a coprire i crediti deteriorati. Il
passaggio al sistema di supervisione bancaria unica presso la Bce
comporterà controlli ancora più stringenti.
Negli anni a venire la maggior parte dovrà ristrutturarsi
pesantemente per abbattere i costi e riguadagnare efficienza. Le banche
dovranno rafforzare il loro patrimonio e selezionare meglio i loro
impieghi. Prima lo fanno, tanto meglio è, non solo per le banche in sé
ma per l’economia italiana che senza un sistema bancario ben funzionante
rischia di trasformare la ripresa in una lunga stagnazione. Le
interferenze politiche cui il sistema bancario italiano è soggetto
possono però bloccare e distorcere il processo.
A poco sembrano essere servite le lezioni di questa crisi: le perdite
patrimoniali patite dalle fondazioni per aver concentrato il loro
investimento nella banca di riferimento, gli effetti sulla gestione
delle banche della presenza delle fondazioni, di cui il caso Mps è la
rappresentazione plastica. Oggi tanto quanto ieri la politica non molla
la presa sulle fondazioni bancarie e, attraverso queste, sulle banche.
Tre casi ne sono la testimonianza.
Primo quello della Fondazione Carige, che si è opposta strenuamente
all’aumento di capitale di 800 milioni di Banca Carige richiesto da
Banca d’Italia, pur di non vedere troppo diluita la propria quota (47
per cento) nel capitale azionario della banca ligure. Per questo ha
fatto dimettere tutti i propri rappresentanti nel consiglio
d’amministrazione di Banca Carige forzando il rinnovo dei vertici
dell’istituto. Sarà ancora una volta la fondazione a scegliere i vertici
della banca, che ha storicamente distribuito almeno 7 euro su 10 di
utile alla Fondazione invece di usarli per rafforzare il patrimonio,
avendo ai posti di comando una serie di politici locali, da ultimo il
fratello dell’ex ministro Scaloja. L’esito più probabile è che a guidare
l’istituto saranno messi il vice-presidente della Fondazione – già
candidato sindaco per il Pdl – assieme a un esponente dell’attuale
comitato esecutivo della banca. Diversi politici locali (dal governatore
Burlando all’ex senatore Luigi Grillo), a parole, chiedono che la
politica si astenga dall’intervenire, ma da che pulpito viene la
richiesta?
A Sassari l’avvicendamento, nei mesi scorsi, ai vertici del Banco di
Sardegna e della sua fondazione, appannaggio da anni di politici di
centro sinistra, è stato caratterizzato da una transumanza di poltrone:
il presidente in scadenza della Fondazione, Antonello Arru, diventa
presidente del Banco e si fa sostituire alla presidenza della Fondazione
da Antonello Cabras, ex senatore Pd non rieletto. Nessun cenno a una
dismissione della sostanziosa e per questo rischiosa partecipazione nel
capitale del Banco (49 per cento del capitale). Anzi, è stata
riaffermata ostinatamente la volontà di mantenerla per “meglio difendere
il credito locale dal tentativo di erogarlo altrove” cedendo il
risparmio dei sardi agli “stranieri”, questi ultimi essendo
presumibilmente i modenesi della Bper che esercitano il controllo. Non
c’è dubbio, i politici sono bravi a toccare le corde del localismo e del
nazionalismo isolano; è il loro mestiere. Meno bravi a fare i banchieri
e garantire rendimenti più elevati alle fondazioni che amministrano. Le
uniche voci critiche all’operazione si sono levate da alcuni spiriti
liberi del centro-sinistra; l’opposizione di centro-destra avrebbe avuto
vita facile nel denunciare il gioco di poltrone fra la Fondazione Banco
di Sardegna e la banca omonima, ma ha taciuto. Il silenzio talvolta
parla più forte delle parole. In questo caso annuncia che quelle
pratiche non destano scalpore perché sono essenzialmente condivise: i
politici, siano di centro-destra o di centro-sinistra, non hanno alcun
dubbio che uno di loro (politico buono o cattivo che sia) possa anche
essere un ottimo banchiere. O, forse più correttamente, il dubbio lo
hanno ma non gli conviene ammetterlo.
Il terzo caso è quello senese. A Siena si procede al rinnovo del
consiglio della Fondazione che ha portato il Monte dei Paschi sull’orlo
del fallimento come se niente o ben poco fosse avvenuto. Il rinnovo
avviene sullo sfondo delle rivelazioni del presidente uscente della
Fondazione, Gabriello Mancino, che ha tolto il velo al re testimoniando
ai giudici inquirenti – e quindi ufficializzando a tutti quello che
tutti sapevano ma non ammettevano – come le nomine siano sempre state
fatte dai “maggiorenti della politica locale e regionale, con
l’approvazione del Pdl all’opposizione, con la condivisione della
politica nazionale ai massimi livelli (Gianni Letta, sentito Silvio
Berlusconi)”. Analogo discorso per le nomine nelle società controllate,
soggette a “una forte ingerenza dei partiti” e per i “finanziamenti dei
progetti da parte della Fondazione” oggi vicina a portare i libri in
tribunale.
Questi tre esempi provano l’esistenza di un sistema, condiviso
dall’intero arco dei partiti tradizionali, in cui la politica ha un
ruolo primario di controllo sul sistema bancario attraverso il “mercato”
delle nomine nelle fondazioni bancarie e (attraverso queste) nelle
banche. Il mercato avviene nell’ombra, forse nemmeno nelle segreterie,
ma spesso in limitati gruppi di controllo all’interno dei partiti che
accettano scambi trasversali. È un controllo fine a se stesso, serve
solo a estendere le carriere dei politici. Tipico il caso della
Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata che ha bruciato il proprio
patrimonio investendo il 70 per cento del proprio capitale in
BancaMarche, lasciando peraltro che la banca, ignorando i richiami della
Banca d’Italia, contravvenisse a ogni principio di sana e prudente
gestione. Oppure della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara che, pur
detenendo il 54 per cento della Cassa di Risparmio, l’ha docilmente
accompagnata al commissariamento. Oggi la Fondazione si trova costretta a
mettere i propri dipendenti in cassa di integrazione. Oppure ancora
della Fondazione del Monte di Parma, salvata solo dall’intervento di
Banca Intesa, che ha acquistato la sua quota di controllo in Banca Monte
Parma.
I casi Mps, Carige e Sassari sono perciò tutt’altro che isolati. E
l’assenza della politica dalle fondazioni è l’eccezione non la norma,
come dovrebbe essere. Per questo, infatti, le fondazioni furono create:
per dare alle banche un padrone diverso dal Tesoro e lontano dalle
segreterie dei partiti. Purtroppo, la storia ha preso fino ad ora
un’altra piega.
Ma non è mai detta l’ultima parola. La politica che interferisce può
decidere di smettere di farlo, ma occorre la volontà di operare in tale
senso, denunciando un sistema improprio e dichiarando di volerlo
abbandonare. Matteo Renzi oggi si presenta come una persona esterna agli
inciuci locali che pervadono la politica nazionale, giungendo talvolta
fino a condizionare gli equilibri per la formazione di maggioranze di
governo in un momento molto delicato per il nostro Paese. Se Renzi vuole
dimostrare nei fatti di avere queste caratteristiche, può segnalarlo
prendendo una semplice iniziativa. Chieda al sindaco di Siena, definito
“renziano” dalla stampa, che il rinnovo dei vertici della Fondazione Mps
avvengano in modo trasparente, con la definizione di criteri di
competenza e l’adozione di bandi aperti a tutti coloro che soddisfino i
requisiti. Chieda che si adottino per le fondazioni bancarie gli stessi
criteri di apertura e trasparenza che lui giustamente pretende per le
primarie del suo partito. Con un mandato chiaro: separare la fondazione
dalla banca.
Ma chiedere la grazia resta l’unica chance
“LIBERO” di fare politica, ma da condannato. Il peggio, alla fin fine, per uno come Berlusconi. Pure con l’incubo della legge Severino. Costretto alla perenne gratitudine verso Napolitano. Cui comunque, lui o i suoi avvocati, questa mini-grazia dovranno necessariamente chiederla.
PERCHÉ, come ha scritto il presidente nella sua nota del 13 agosto, «questa è la prassi». Un atto tutto politico e poco giuridico che, lo diranno i sondaggi, potrebbe non piacere affatto alla gente comune.
Tra i poteri del capo dello Stato c’è anche quello di dare la grazia e scegliere che tipo di grazia dare?
Il Presidente, in materia di grazia, ha potere praticamente assoluto. Come insegnano le oltre 42mila grazie che si contano in Italia dal 1948 a oggi, il primo inquilino del Colle può agire di sua iniziativa, si può muovere su richiesta (la prassi più recente, dopo il caso Sofri), può scegliere che tipo di beneficio concedere.
Napolitano può decidere di non cancellare la condanna a 4 anni (ridotti a un anno per via dell’indulto2006) e intervenire solosulla pena accessoria?
Sì, può farlo. Deve indicarlo espressamente. Può lasciare intatta la pena principale e intervenire soltanto su quella accessoria, nel caso di Berlusconi l’interdizione dai pubblici uffici che la Corte di appello di Milano dovrà ricalcolare dopo lo stop della Cassazione.
Ma Napolitano “vuole” farlo?
Nella nota di agosto egli parlava solo di «pena principale» e i giuristi lessero il passaggio come espressione della sua volontà di non toccare le pene accessorie.
Quanto “pesa” l’interdizione di Berlusconi?
È ben pesante. In primo e secondo grado Milano aveva chiesto 5 anni. Il pg della Suprema corte ne ha proposti 3.
In che tempi il ricalcolo potrebbe essere definitivo?
Si può stimare che le motivazioni della sentenza Mediaset siano depositate per la metà, al massimo la fine di settembre. Tra Corte di appello e Cassazione l’interdizione sarebbe “chiusa” per gennaiofebbraio 2014. Ma gli avvocati del Cavaliere potrebbero non fare ricorso anticipando i tempi di un paio di mesi.
Berlusconi deve chiedere comunque la grazia anche per vedersi cancellare solo la pena accessoria?
Il passo è obbligato. Berlusconi recalcitra perché per lui chiedere la grazia è come ammettere la colpa. Ma Napolitano è stato perentorio con tutti quelli con cui ha parlato, niente domanda niente grazia.
Si può commutare anche l’interdizione?
Una condanna da scontare si può commutare in un corrispettivo in denaro che viene calcolato per ogni giorno di detenzione. Ma questo ovviamente non si può fare con l’interdizione che non può essere commutata, bensì cancellata.
Cancellare l’interdizione che valore ha?
Una potente valenza politica trattandosi di Berlusconi. Per la prima volta in Italia verrebbe consentito a un condannato per un reato grave come la frode fiscale di evitare l’interdizione solo perché egli è il leader di un partito. Sarebbe un precedente — questo sì giuridico — che peserebbe molto sui rapporti tra magistratura e politica.
La grazia cancellerebbe anche legge Severino?
No, perché essa è del tutto sganciata dall’interdizione, cammina su un binario parallelo per “punire” chi vorrebbe entrare nei palazzo della politica e rappresentare i cittadini pur avendo una fedina penale sporca. La Severino ristabilisce il principio dell’uguaglianza fissato dall’articolo 3 della Costituzione, come il cittadino condannato non può più fare il bidello, così lo stesso cittadino non può diventare deputato o senatore.
Berlusconi, graziato da Napolitano, potrebbe finire vittima della Severino?
Sì, con tempi diversi a seconda del destino della norma. Se la giunta e l’aula del Senato votano la decadenza, la grazia del Colle è inutile. Se la legge viene spedita alla Consulta Berlusconi guadagna tempo. Ma la Consulta potrebbe non ammettere il ricorso.
Berlusconi resterebbe a tutti gli effetti un condannato?
Assolutamente sì, in questo modo Napolitano realizzerebbe il compromesso di non cancellare la condanna definitiva della Cassazione e non smentirebbe i giudici, ma consentirebbe a Berlusconi di continuare a fare polit
Berlusconi potrebbe ricandidarsi?
Per la legge Severino non potrà farlo per sei anni.
Liana Milella
La Repubblica - 28/08/2013
martedì 27 agosto 2013
Perché al Pd è mancata una Bad Godesberg
Pierluigi Castagnetti
Europa
Com’è potuto accadere che nonostante la serietà del nostro
programma ancora una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il
“dolore” di questo interrogativo non ne verremo a capo
Parlare di congresso e di identità del Pd in queste ore così incerte e convulse può sembrare un lusso ozioso, ma non lo è.
Le prossime elezioni infatti, siano quando siano, e sia chi sia il
nostro candidato, non saranno una passeggiata, dovremo munirci di corde e
scarponi. Del resto mi sento obbligato a tornare sul tema perché nei
giorni scorsi Stefano Fassina dalle pagine dell’Unità ha interloquito
con il mio articolo qui apparso il 14 agosto scorso (oltreché con
Fioroni e Boccia) in modo molto puntuale e rigoroso.
In particolare ha ripreso, contestandolo duramente, il passo in cui
sostenevo che la «sinistra storica cammin facendo si è convinta che il
Pd potesse essere l’ultima forma della sequela di forme-partito
realizzate nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di una Bad
Godesberg…» chiedendosi e chiedendo: «Quali sono state le posizioni
assunte durante la segreteria Bersani che hanno riproposto la continuità
comunista, la conservazione, la vetero-socialdemocrazia?».
Dirò subito che non risponderò a questa domanda sia perché non coglie
il senso delle mie osservazioni, sia perché io ho votato Bersani alle
primarie e ne ho condiviso il programma puntigliosamente richiamato da
Fassina, sia infine perché ho molto rispetto per il percorso compiuto
dalla sinistra storica italiana.
A me pare che la domanda che dovremmo porci sia un’altra: com’è
potuto accadere che nonostante la serietà del nostro programma ancora
una volta non abbiamo vinto? Se non sopportiamo il “dolore” di questo
interrogativo non ne verremo a capo. Alle ultime elezioni abbiamo
registrato infatti il dato elettorale, in valori assoluti, peggiore
degli ultimi venti anni, tre milioni di voti in meno del solo Pds (io
stavo altrove) di Occhetto nel 1994. Ma veniamo a confronti più vicini e
omogenei: nelle elezioni del febbraio scorso abbiamo preso come
coalizione 10.047.808 (3.641.552 in meno rispetto al 2008) e come Pd
8.644.523 (3.450.783 in meno rispetto al 2008). E, se proprio vogliamo
continuare a soffrire, possiamo aggiungere che come coalizione abbiamo
preso 8.954.790 (!) in meno rispetto al dato di Uniti nell’Ulivo del
2006.
Se ci fermassimo alle giustificazioni da propaganda (tipo: la destra
ha perso il doppio di voti di noi, l’astensionismo è un dato comune alle
democrazie moderne, molti nostri elettori passati al M5S torneranno
alle prossime elezioni) riveleremmo scarsa intelligenza oltreché scarsa
attitudine a sopportare il male. Dobbiamo invece, ora che la ferita è
aperta, proseguire la nostra analisi per cercare le cause in profondità.
Secondo uno studio recente di Ipsos metà dei nostri ultimi elettori
ha più di 55 anni, un terzo più di 65 anni. Il movimento di Grillo è il
primo partito in quasi tutte le segmentazioni dell’elettorato compresi
gli operai (29% contro il 20% del Pd e il 24% del Pdl), i disoccupati
(33% contro il 18% del Pd e il 25% del Pdl), gli studenti (37% contro il
23% del Pd e il 25% del Pdl). Il Pd è il primo partito (37%) solo tra i
pensionati.
Vorrei che ci fermassimo su questi numeri che valgono assai più dei
nostri filosofemi e delle nostre polemiche. Sono numeri che non ci
parlano della divisione all’interno del Pd fra social-democratici e
cattolico-democratici, ma che, al contrario, rivelano una dislocazione
dell’elettorato assai “laica” e secolarizzata rispetto alle ideologie
che sono alle nostre spalle.
Le fasce demografiche giovanili e quelle intermedie stanno
prevalentemente altrove, le fasce sociali più deboli (operai e
disoccupati) stanno prevalentemente altrove, le fasce dei nuovi lavori e
dei nuovi ceti produttivi pure. Perché? Perché non hanno letto il
nostro programma? Perché abbiamo fatto qualche errore nella
comunicazione? Perché non hanno apprezzato la chiusura orgogliosa e la
ristrettezza del gruppo dirigente del Pd? Perché abbiamo letto poche
encicliche del magistero sociale della Chiesa?
E si potrebbe proseguire con tante altre domande più o meno
retoriche, ma inutilmente, poiché è evidente che non di questo si
tratta. Io non so dare la risposta. Personalmente posso solo osare,
tentare, con tutti i rischi del caso. Penso che le tante
risposte/ipotesi possibili possano essere riassunte da una: perché siamo
visti, nel nostro complesso, come un pezzo di storia nobile ma ormai
passata. Il nostro (gran parte) personale, il nostro linguaggio, il
nostro argomentare, evocano un altro tempo. Destra/sinistra,
moderati/progressisti, neoliberisti/neosocialisti, credenti/non
credenti, sono categorie importanti e io credo non superate, eppure
sembrano diventate insopportabili quando sono declinate nel linguaggio
politico.
La modernità sembra pretendere la priorità del linguaggio della
concretezza e la conoscenza dei problemi. Una concretezza che abbia
incorporata (senza che sia declinata autonomamente) la dimensione etica.
La politica si vorrebbe fosse progetto ma soprattutto comportamento. La
“pedagogia sociale” di papa Francesco ha molte cose da insegnare: non
la dottrina, ma il comportamento che incorpora la dottrina. Con la
misura di radicalità necessaria a trasmettere l’idea della propria
alterità/diversità. Siamo in una nuova epoca, caro Fassina.
Il «cambiamento epocale», di cui parla con tanta sapienza Alfredo
Reichlin, nella società italiana (e non solo in quella ovviamente) è già
avvenuto, e la politica non può pensare/sperare che sia ancora in
corso: è avvenuto!
Non mi sorprende che in questo particolare momento Letta e Renzi
siano i nostri maggiori interpreti di questa novità. So bene che
entrambi sono figli di una “storia” che numericamente è minoritaria
nell’impasto originario del Pd, e questo oggettivamente può fare
problema, e non ritengo affatto che questa loro origine dia loro titolo
per impartire lezioni di modernità ad altri, semplicemente constato che
chi proviene da una storia politica “non ideologizzata” si trova oggi
meno a disagio nel comprendere le domande della modernità. Mi riferisco
ovviamente alle domande compatibili con la serietà e la responsabilità
della politica. In questo senso deve essere interpretato il mio
riferimento alla Bad Godesberg mancata alla sinistra italiana. Cioè quel
lavacro culturale e mentale che è condizione di vera laicità, nel senso
di vera libertà di sguardo rispetto al reale.
Le socialdemocrazie nordeuropee, quella tedesca, il laburismo
britannico, godono della libertà di parlare di “neue mitte” o di “new
welfare” senza aprire dibattiti su presunti cedimenti ideologici e
accuse di tradimento, semplicemente perché si pongono solo il problema
di interagire più efficacemente con i dati della realtà. Non è
pragmatismo.
È senso della realtà. Con ciò significa rinunciare
all’ambizione/responsabilità di raddrizzare il “legno storto” (la
«mutazione antropologica» di cui parlò a suo tempo Pasolini) di questo
tempo “berlusconizzato” in cui l’eccesso pulsionale affascina
materialisticamente tanti elettori? In cui, come osserva Massimo
Recalcati, il padre non è più simbolo della Legge ma della sua continua
trasgressione? In cui la libertà è l’indice di una volontà di godimento
che rifiuta ogni esperienza del limite? In cui sembrano accettate le
leggi ad personam come leggi che rifiutano la Legge? Sicuramente no.
Ma bisogna sapere che il tempo della semina dei valori, della
induzione di nuovi costumi e atteggiamenti mentali virtuosi necessita di
spazi lunghi, di pazienza, di coerenze confermate nel tempo, di
coltivazione delicata e rispettosa della coscienza collettiva di un
popolo e, soprattutto, di un linguaggio contemporaneo che consenta ai
cittadini che ci osservano (e, purtroppo, poco partecipano) di capire e
distinguere, perché nessuno possa più dire l’insulto inascoltabile:
«Siete tutti uguali». Ciò su cui vorrei riflettessimo è il dato
difficilmente declinabile della nostra essenza e del percepito della
nostra essenza.
Non è necessario riferirisi a una specifica enciclica sociale o
parlare bene di Cl (!) per manifestare il nostro riconoscimento dei
diritti connessi alla libertà religiosa, né – vorrei dire – affermare
come è scritto nel documento dei socialdemocratici tedeschi a Bad
Godesberg che per quanto riguarda l’impianto valoriale ci si riferisce
alla tradizione cristiana, basta che le proposizioni politiche
manifestino tale “sentiment”. La stessa cosa vale per le politiche
economiche, e non solo. È il “percepito” di noi che conta e che dovrebbe
essere al centro dell’analisi del nostro deludente e preoccupante
risultato elettorale. Spero che al congresso se ne possa parlare,
finalmente in modo serio e laico.
ci risiamo....dopo il conflitto di interessi...che genio!!!!
la legalità, ha ricordato Violante al partito legalitario, «impone di ascoltare le ragioni dell'accusato».
vale la pena di affidarsi a lui ha già dato prova di avere le idee chiare nel caso del conflitto di interessi togliendo l'ostacolo a Berlusconi.... credo che sia uno da non ascoltare più. non è un tribunale ma il parlamento. i tribunali hanno già espresso il loro verdetto. basta!!!!
ric
vale la pena di affidarsi a lui ha già dato prova di avere le idee chiare nel caso del conflitto di interessi togliendo l'ostacolo a Berlusconi.... credo che sia uno da non ascoltare più. non è un tribunale ma il parlamento. i tribunali hanno già espresso il loro verdetto. basta!!!!
ric
lunedì 26 agosto 2013
Nessuno mi può giudicare....
Riccardo Imberti
Non se ne può più!!!!
Devo confessare che non
avevo nessuna voglia di parlare del condannato, ma la situazione mi è
parsa tanto grottesca, che non mi sono sentito di tacere (senza
utilizzare termini scurrili) per esprimere la mia forte irritazione
leggendo i titoli di tutti i più importanti giornali della
settimana politica trascorsa. Pagine e pagine per informarci
dell'indulto, della grazia, dell'agibilitá politica, degli incontri
tra falchi e colombe e narrare degli umori di un personaggio che,
dopo una condanna definitiva, dovrebbe solo tacere e ritirarsi di
buon ordine.
Nei paesi democratici
seri succede...da noi no.
Io spero tanto che il 9
di settembre non accada l'irreparabile, che il pd voti compatto la
decadenza da senatore del condannato e convochi al più presto il suo
congresso.
Se il pdl ritirerá i
suoi ministri e fará la scelta di mettere in crisi questa anomala
maggioranza, il pd non perda altro tempo, si attrezzi al meglio,
trovi i numeri per modificare la legge elettorale, denunci senza
timori la responsabilitá e i motivi della crisi e si prepari alle
elezioni.
Vi pare che l'Italia con
i problemi drammatici che vive, possa sostenere a lungo una
situazione di questo genere?
Di fronte ai gravi
problemi internazionali, con il ritorno del terrorismo nell'area
mediorientale, con la situazione esplosiva in Egitto e la drammatica
situazione della Siria
con possibili minacciosi venti di guerra, possiamo
continuare ad interessarci d'altro?
Mai come in queste ore mi
sono chiesto quando potremo vivere in un Paese normale. Un Paese nel
quale la consapevolezza delle
difficoltà, affermata e condivisa da tutti, si traduca in
comportamenti responsabili, l'interesse generale
prevalga sugli interessi particolari e i privilegi di pochi
siano sostituiti dalla garanzia dei diritti essenziali di tanti
giovani e tante famiglie.
Perchè questo possa
accadere è necessario che la classe dirigente politica, sindacale
ed economica, sia credibile agli occhi dei cittadini e con l'esempio
sappia dimostrare di essere al servizio di questo Paese malmesso,
togliendo privilegi fin troppo stridenti, in un periodo di profonda
crisi come il nostro.
Non servono atti eroici
ma piccoli segni non più rinviabili, che diano la misura della
volontá di voltare pagina: la riduzione dei costi della politica, la
trasparenza dei comportamenti tra ciò che si dice e ciò che si fa,
saper dire di no a rivendicazioni di carattere corporativo e premiare
attività produttive in grado di procurare occupazione regolare,
snellire la burocrazia
asfissiante della nostra pubblica amministrazione. rimettere
in agenda un progetto di valorizzazione del nostro patrimonio
artistico, ambientale e culturale.
Da quanto tempo ci
sentiamo fare promesse e programmi in questa direzione? Il governo
Monti pareva rappresentare l'occasione per far fronte ad alcuni di
questi problemi. Non è riuscito nell'intento. Ora non c'è più
tempo da perdere, se le larghe intese servono solo per salvare il
padrone del pdl, e peggiorare la credibilitá dell'Italia nei
confronti dei partner europei e mondiali, è meglio chiudere qui
l'esperimento, e ricorrere alla volontá popolare. Credo che sia la
cosa più utile per il nostro Paese.
La questione giustizia che imbarazza il Pd
I primi a patire per la mala giustizia sono i disoccupati. Se burocrazia e amministrazione rimangono le stesse i disincentivi sistemici che le aziende hanno adesso ad investire da noi rimarranno invariati
Il malfunzionamento della giustizia è tra le voci indicate in cima alla lista dei fattori che scoraggiano gli investimenti in Italia. Burocrazia e corruzione, le fanno compagnia. Disservizi giudiziari, burocrazia asfissiante e dilagare della corruzione evidentemente si tengono.
Con un’amministrazione della giustizia incapace di amministrare il servizio fondamentale cui è deputata non si hanno investimenti. E senza investimenti non si cresce nel senso che non si genera né lavoro né ricchezza da far circolare. Se si vuole crescere bisogna mettersi in animo di dover lavorare ad una giustizia efficiente, responsabile, non infervorata, giusta.
Il Pd ritiene che il governo Letta garantisca al paese la chance di riprendersi beneficiando del doppio vantaggio: il brand Letta che funziona all’estero, e l’esistenza di un governo che per il suo stesso esistere rassicurerebbe i mercati. L’obiettivo del governo Letta, d’altronde, è quello di ristabilire le funzioni vitali minime per, appunto, permettere a ciascun pezzo di paese di tornare a respirare senza marchingegni artificiali.
Se burocrazia e amministrazione della giustizia rimangono le stesse di prima, però, i disincentivi sistemici che le aziende hanno adesso ad investire da noi rimarranno saldamente intonsi. E quindi hai voglia a fare provvedimenti zanonateschi a sostegno di non sa più quale filiera industriale dimenticata, o cogliere il meglio delle photo-opportunity tardo agostane per mantenere alto lo standing sui media europei.
Il sistema giustizia che il Pd ha sin qui strenuamente difeso è quello in cui si rinuncia a far causa per un credito mai riscosso o, al contrario, si fa causa appunto nella convinzione – comune nei due casi – che il sistema è talmente perverso che fare il giusto può costare un danno. E lasciamo perdere De Magistris, Ingroia – per carità.
Ecco, i primi a patire per questa mala giustizia non sono i Berlusconi ma i disoccupati.
Parlare di giustizia è imbarazzante per il Pd. Difendere un sistema castale debordante, discrezionale e ingiusto è stata una scelta politicamente invereconda, più subita che perseguita, ma pur sempre coltivata da vent’anni almeno con la lucidità prospettica di una zanzara attratta dal sangue di un umano con il baygon in mano. Non avrebbe dovuto risultare così difficile, invece, per il Pd cogliere il bisogno reale di giustizia giusta che c’è e viene dalla “parte migliore del paese”.
E tuttavia, riuscite a immaginare nulla di più ipocrita, retorico ed irritante della proposta avanzata alle ultime elezioni – Il programma fondamentale del partito democratico per la giustizia si chiama Costituzione.
Urticante ignavia, quella, che costa al Pd pro-crescita di oggi, quindi pro-Letta, l’impossibilità di capitalizzare il vantaggio dello sbarellamento del Pdl, presentando lui, entro mercoledì, quello che avrebbe dovuto fare già vent’anni fa: un piano giustizia coerente con gli obiettivi generali di civilizzazione del paese – che, poi, collimano con gli obiettivi più immanenti di tenuta di questo governo, e gli obiettivi politici più ambiziosi di generare nel Pd un pensiero forte ispirato al senso misconosciuto dell’aggettivo che nel logo segue la parola “partito”.
Simona Bonfante
Europa Quotidiano - 26/08/2013
domenica 25 agosto 2013
promozione turistica!!!
In questo scenario si esibiscono ballerini e performe
Nella Mongolia cinese c'è un deserto dove le dune sono chiamate "sabbie che cantano" per il suono particolare prodotto dal vento. |
IL GOVERNO ALLA PROVA
“La destra punta allo sfascio ma il Ventennio di Silvio è finito via il Porcellum e poi al voto”
Veltroni: Pd unito, Renzi sia in campo per la segreteria
IL ventennio del Cavaliere è finito con la sentenza della Cassazione: adesso il Senato dovrà solo applicare rapidamente la legge, “punto e stop”. Il Pdl si rassegni al dopo-Berlusconi e diventi una vera forza moderata. Ma il bipolarismo va salvato a tutti i costi.
DUNQUE il governo Letta vari subito la riforma del Porcellum e poi si vada al voto in primavera. Magari con Renzi, che però deve candidarsi alla segreteria del Pd. Dal suo buen retiro senese, Walter Veltroni osserva da lontano — ma non troppo — le turbolenze della politica romana, e registra sconsolato le bellicose dichiarazioni che Alfano spedisce da Arcore a Enrico Letta. «Il Pdl sembra voler precipitare il Paese in una crisi drammatica, ancora una volta facendo prevalere gli interessi di una persona su quellidel Paese», commenta.
Gli anni passano, ne sono trascorsi quasi venti, eppure sembra che non riusciamo a liberarci di quello che nel 2008 lei definiva «il principale esponente dello schieramento a noi avverso»...
«Però secondo me si è chiuso un ciclo. La sentenza della Corte di cassazione è la conferma della conclusione del ventennio berlusconiano. Questo sarebbe dovuto avvenire sul piano politico, se la sinistra non avesse compiuto una serie di errori che hanno impedito la vittoria alle elezioni di febbraio. Questo ventennio si sta concludendo, si è concluso, e al di là dei suoi rantoli e dei suoi sussulti bisognerà che i due principali soggetti po-litici, il Pdl e il Pd, lo capiscano e agiscano di conseguenza».
A giudicare dall’esito del vertice di Arcore, il Pdl sembra piuttosto intenzionato a difendere fino all’ultimo il padre-padrone del partito. Cosa dovrebbe fare, invece, secondo lei?
«Non dovrebbe seguire Berlusconi sulla linea della radicalizzazione estrema e dell’esasperazione. Dovrebbe invece cambiare natura al soggetto di centro-destra italiano, che non può continuare a essere un soggetto populista e irriguardoso delle regole ma cominciare a prefigurarsi per il futuro di questo Paese come un soggetto moderato analogo a quello di altri Paesi europei. Le ultime dichiarazioni di Alfano da Arcore sembrano purtroppo andare in una direzione opposta».
E lei ritiene davvero immaginabile un Pdl senza Berlusconi?
«Lo devono immaginare loro, in primo luogo, come è naturale che sia. In nessuna parte del mondo le leadership sono infinite e illimitate nel tempo. In ogni caso loro avrebbero dovuto porsi il problema nel corso di questi anni, e lo debbono fare adesso, con tanta più urgenza».
Qualcuno di loro chiede addirittura un’amnistia ad personam.
«Io penso che non sia possibile nessuna della soluzioni che la destra chiede in questo momento, perché in questo Paese esiste il principio di legalità che vale per tutti i cittadini e al quale tutti gli uomini politici coinvolti in vicende giudiziarie si sono attenuti. Bisogna prendere atto che c’è stata una sentenza».
E cosa dovrebbe fare, secondo lei, un Berlusconi che accettasse questa sentenza?
«Lui può continuare, se vuole, a esprimere le sue idee sulla vita pubblica di questo Paese. Ma esistono leggi, se non codici morali minimi, che sanciscono che chi ha subìto condanne definitive non possa svolgere funzioni istituzionali. Punto e stop. Naturalmente è giusto che la giunta delle elezioni del Senato approfondisca in qualche giornotutti gli elementi di valutazione. Non bisogna dare l’impressione che ci sia una specialità al contrario. Il senatore Berlusconi non va trattato diversamente da come si tratterebbe qualunque altro parlamentare. Ma poi si decide, e si decide lì. E si deve decidere in ottemperanza alle leggi esistenti».
E se Berlusconi, privato del seggio e ridotto gli arresti domiciliari, decidesse di continuare a guidare comunque il suo partito? Se anche da lì facesse la campagna per le prossime politiche?
«Questo è un problema del Pdl, non mio. Sono loro che devono decidere se identificare il loro futuro con il destino personale di un uomo che ha avuto una sentenza di quelle dimensioni, o se invece vogliono reinventare la loro fisionomia politica. Non vorrei però che alla fine di questo ventennio, insieme a Berlusconi finisse anche il bipolarismo. Identificare il bipolarismo con Berlusconi può essere un errore tragico per l’intero Paese. Noi non abbiamo bisogno di tornare ai governi contrattati della Prima Repubblica, alla proporzionale e ai partiti padroni della vita pubblica. Il bipolarismo è un valore, come lo è l’alternanza. Se usciamo dal bipolarismo, se torniamo alla proporzionale, cadiamo in un baratro nel quale ci sono solo governi contrattati o larghe intese. E io non so quale delle due cose siapeggiore dell’altra».
Ma se il Pdl facesse cadere il governo, lei ritiene possibile la ricerca di un’altra maggioranza, magari per un Letta-bis, o pensa invece che sarebbero inevitabili le elezioni anticipate a novembre?
«Penso che quelli del Pdl sarebbero dei pazzi e degli irresponsabili a far cadere il governo. Io credo comunque che prima di andare a votare, anche nei prossimi mesi, bisogna assolutamente cambiare la legge elettorale. Come ha giustamente detto il presidente della Repubblica».
A giudicare dai toni che il Pdl usa in queste ore, non sembra che l’orizzonte dell’esecutivo sia lunghissimo...
«Questo governo è un’anomalia, però in questo momento deve fronteggiare l’emergenza economica e quella della legge elettorale. Quindi faccia ciò che deve fare per aiutare la ripresa dell’economia italiana ma al tempo stesso si impegni subito per la riforma elettorale».
E se invece la situazione precipitasse, il Pd dovrebbe affrontare le elezioni candidando Enrico Letta o Matteo Renzi?
«Le dico quale sarebbe lo sviluppo ordinato di questa vicenda. Si fa subito la legge elettorale che cambia il Porcellum e poi all’inizio del prossimo anno si va a nuove elezioni. Alle quali va il candidato che viene scelto da elezioni primarie del Pd».
Da fare quando, queste primarie?
«Subito. Io sono perché il Pd convochi subito il congresso. Sono perché Renzi si candidi a segretario del partito, perché sono contrario alla separazione dei ruoli tra segretario e candidato premier. Ma sono favorevole a istituzionalizzare la norma in base alla quale, come è successo per Renzi con Bersani, al momento delle elezioni anche altri possano candidarsi alla premiership con apposite primarie. Una cosa però ci tengo a dirla: non sopporto le discussioni su “ex dc” ed “ex pci”. Questo è il contrario del Partito democratico, che è nato per superare questa distinzione. Basta con questa storia: ciascuno rappresenta tutti, quale che sia la storia dalla quale viene. Il Pd non è nato per mettere insieme due mezze mele, l’una diversa dall’altra: nessuno mangerebbe una mela metà rossa e metà verde, o bianca, perché apparirebbe come un frutto malsano. Se vogliamo essere un’alternativa credibile al centro-destra, se non vogliamo che sia solo Papa Francesco a parlare dei valori in una società, se vogliamo recuperare una coerenza tra valori e programmi che la sinistra ha perduto o dimenticato, dobbiamo essere innanzitutto un partito unito. E dobbiamo essere più di sinistra, parola che per me, come ho cercato di argomentare nel mio libro, significa cambiamento e non conservazione, società aperta e non bloccata, eguaglianza e opportunità diffuse. Questa sinistra può arrivare al 40 per cento, non al 25. È la vocazione maggioritaria senza la quale il Pd non ha ragione di esistere».
Lei è per Renzi segretario. E non pensa che la scelta di un altro candidato premier indebolirebbe automaticamente il governoLetta?
«Io penso che Renzi e Letta possano convivere, e mi auguro che convivano. Sono due energie, due risorse utilissime. E non sono le sole. Anche per il futuro si possono trovare delle forme di convivenza. Se uno fa il candidato premier, e l’altro il ministro degli Esteri o dell’Economia, è una cosa che accade nei grandi partiti. Ricordo che Obama e Hillary Clinton duellarono aspramente, alle primarie, poi uno ha fatto il presidente e l’altra il segretario di Stato... «.
Sebastiano Messina
La Repubblica - 24/08/2013
sabato 24 agosto 2013
Nel silenzio assordante del mondo
"Circa 355 persone che "presentavano sintomi neurotossici" sono morti in Siria negli ospedali in cui lavora l'organizzazione Medici senza frontiere. Lo riferisce l'ong precisando che dal 21 agosto nelle strutture sono state ricoverate 3.600 persone". L’Onu stima che almeno in 7mila sono stati uccisi. Il numero di bambini rifugiati fuggiti dal conflitto in Siria ha raggiunto oggi la drammatica soglia del milione. Lo rivelano gli ultimi dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Unicef resi noti oggi a Ginevra.
puntuale....come sempre!
"Non
voglio la rottura, non voglio lo scontro. In questi mesi di governo ho
lavorato con il Pdl e ho visto una classe dirigente di prima qualità".
"La condanna di Berlusconi è stato un fatto negativo non solo per
Berlusconi e per il pdl, ma per tutto il sistema politico. Insisto,
quasi una maledizione che prova a bloccarci mentre siamo sulla strada
giusta".
Fassina
Renzi, un leader che deve imparare a fare squadra
Sofia Ventura
Europa
La leadership richiede uno sforzo di costruzione attento e
faticoso. Il sindaco di Firenze dovrebbe comprendere che non può essere
lo spin doctor di se stesso
Un gruppetto di deputati renziani giovedì hanno scritto una
letterina all’ambasciatore statunitense denunciando che il nuovo
Monopoli inneggerebbe alla “finanza irresponsabile”. Meno divertente è
stata la lettera, pubblicata il 9 agosto, che un gruppo di ventisei
deputati ha inviato all’Avvenire, e dunque ai vescovi, per
spiegare il buon lavoro fatto dai cattolici a proposito della legge
contro l’omofobia. Tra i firmatari di questo documento c’è Matteo
Richetti, vicinissimo (pare uno dei suoi uomini di fiducia) al sindaco
di Firenze, che ha invece sempre rivendicato, da cattolico, la sua
laicità.
Si tratta di episodi forse marginali (ma altri potrebbero essere citati), che però mostrano un’oscillazione tra naiveté politicamente corretta e atteggiamenti clericali che mortificano l’autonomia della politica.
Tutte cose che ci si aspetterebbe fossero state “rottamate” almeno
all’interno dell’entourage di Matteo Renzi e che ci costringono ad
interrogarci sul modo in cui lo sfidante dell’apparato Pd sceglie il
proprio personale politico.
Ma questa è solo una delle domande che chi ancora spera che la sua
vittoria, nel Pd e nel paese, possa fare la differenza, o almeno aprire
ad una speranza, è costretto a porsi.
Anche a fronte non solo degli sbandamenti del suo entourage, ma dei
suoi stessi sbandamenti, di certe sue affermazioni un po’ infantili,
come quella recente circa l’ipotesi di ricandidarsi a sindaco di Firenze
(tanto per suscitare il sospetto che non abbia una precisa strategia)
o, peggio, di quel suo continuo ripetere che la sua candidatura alla
segreteria del Partito democratico è subordinata alle regole che saranno
adottate, come se con la definizione di quelle regole lui non dovesse
avere nulla a che fare.
Certo, tutto questo non significa non riconoscere il ruolo giocato fino ad ora da Renzi e il suo coraggio nello sfidare un apparatčik che preferisce morire post-comunista piuttosto che vivere e vincere riformista. Ma come ha scritto Giovanni Cocconi,
non basta essere «un magistrale solista, un leader dal fiuto
formidabile, in grado come pochi di mettersi in ascolto e in sintonia
con il paese».
Renzi dovrebbe comprendere una volta per tutte che la leadership
richiede uno sforzo di costruzione attento, lungo e faticoso. A partire
da se stessi. Nessun leader può essere lo spin doctor di se stesso.
Berlusconi rappresenta l’eccezione, ma Renzi non è Berlusconi – nel bene
e nel male – e soprattutto il solipsismo berlusconiano ha condotto al
disastro al quale oggi assistiamo nel centrodestra. Il leader è anche il
frutto dell’incontro con persone con capacità fuori dal comune che
sanno potenziare e incanalare qualità e capacità. Se Obama, Blair e
Sarkozy hanno avuto bisogno di Axelrod, Campbell e Guaino, chi è Renzi
che pensa di poter “disegnarsi” tutto da solo?
Poi c’è la squadra. Renzi ha dei collaboratori (alcuni molto bravi),
con i quali intrattiene rapporti individuali, non ha una squadra. Ma per
tracciare la strategia (e in questo momento non sbagliare i passaggi
sarebbe fondamentale), costruire un progetto ed essere presenti nei
luoghi decisionali con donne e uomini all’altezza, la squadra è una
condizione necessaria, nessuno può permettersi il lusso di farne a meno,
nemmeno il talentuoso Renzi. Una squadra fatta di persone anche più
capaci, nel proprio settore, del leader (l’ho già scritto altrove, mi si
perdonerà se mi ripeto, ma pare che più che giovare, la ripetizione sia
necessaria), con il coraggio di contrapporsi a lui – anche duramente –
se pensano che stia sbagliando. Ed è da quella squadra che devono poi
emergere le figure chiave per l’eventuale futuro governo.
L’intelligenza del leader sta anche nella capacità di costruire il
gruppo con il quale affrontare le sfide e nella consapevolezza che se il
leader è uno, la leadership è un’impresa alla quale molti collaborano e
quei molti devono essere scelti con i criteri giusti.
Ha voluto la bicicletta, ci ha fatto sperare che almeno su di una bicicletta avremmo potuto contare per vedere avanzare l’Italia, ora, per favore, senza sbandamenti, Matteo Renzi pedali.
Ha voluto la bicicletta, ci ha fatto sperare che almeno su di una bicicletta avremmo potuto contare per vedere avanzare l’Italia, ora, per favore, senza sbandamenti, Matteo Renzi pedali.
venerdì 23 agosto 2013
Siria, il dramma dei bimbi in guerra. L'Onu: 7 mila uccisi, un milione rifugiati
La Repubblica 23 agosto 2013
ROMA - Il numero di bambini rifugiati
fuggiti dal conflitto in Siria ha raggiunto oggi la drammatica soglia
del milione. Lo rivelano gli ultimi dati dell'Alto commissariato Onu per
i rifugiati (Acnur) e dall'Unicef resi noti oggi a Ginevra. Del milione
di bambini e minorenni costretti a fuggire dal proprio Paese, circa i
tre quarti, 740mila, hanno meno di undici anni, precisano le due agenzie
specializzate delle Nazioni Unite.
"Questo milionesimo bambino rifugiato non è solo un altro numero. E' un vero bambino in carne ed ossa strappato alla sua casa, forse anche alla famiglia, di fronte a orrori che possiamo solo cominciare a capire", ha dichiarato il direttore generale dell'Unicef Anthony Lake denunciando il "fallimento della comunità internazionale" di fronte alle sue responsabilità.
"Dobbiamo tutti condividere la vergogna", ha aggiunto. Per l'Alto Commissario Unhcr Antonio Guterres, sono "in gioco la sopravvivenza ed il benessere di una generazione di innocenti". I giovani siriani "hanno perso la loro casa, i loro familiari ed il loto futuro. Anche dopo aver attraversato il confine verso la sicurezza, sono traumatizzati, depressi ed ha bisogno di un motivo di speranza", ha aggiunto.
"Questo milionesimo bambino rifugiato non è solo un altro numero. E' un vero bambino in carne ed ossa strappato alla sua casa, forse anche alla famiglia, di fronte a orrori che possiamo solo cominciare a capire", ha dichiarato il direttore generale dell'Unicef Anthony Lake denunciando il "fallimento della comunità internazionale" di fronte alle sue responsabilità.
"Dobbiamo tutti condividere la vergogna", ha aggiunto. Per l'Alto Commissario Unhcr Antonio Guterres, sono "in gioco la sopravvivenza ed il benessere di una generazione di innocenti". I giovani siriani "hanno perso la loro casa, i loro familiari ed il loto futuro. Anche dopo aver attraversato il confine verso la sicurezza, sono traumatizzati, depressi ed ha bisogno di un motivo di speranza", ha aggiunto.
Secondo gli ultimi dati delle due agenzie specializzate delle
Nazioni Unite, circa 3.500 bambini e minorenni siriani sono giunti in
Giordania, Libano e Iraq non accompagnati o separati dalle loro famiglie
e globalmente i minorenni costituiscono circa la metà dei due milioni
di profughi fuggiti dalla guerra in Siria e giunti in Libano, Giordania,
Turchia, Iraq ed Egitto. Sempre più spesso, i siriani approdano anche
in Nord Africa e in Europa.
Il prezzo pagato dall'infanzia
siriana al conflitto, entrato nel suo terzo anno, è enorme. Al milione
di bambini rifugiati si sommano infatti oltre due milioni di bambini e
minorenni sfollati all'interno del loro Paese e l'Onu stima che almeno
in 7mila sono stati uccisi. I bambini e minorenni rifugiati sono inoltre
esposti a minacce quali il lavoro forzato, il matrimonio precoce e lo
sfruttamento sessuale. Unhcr, Unicef e l'Onu si sono mobilitate per
assistere i rifugiati siriani, ma molto resta da fare e solo il 38%
dell'appello di fondi per finanziare gli aiuti ai profughi fino alla
fine dell'anno è stato ricevuto.
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