"I bersaniani preferivano Marini a Prodi: difatti hanno perso.
di Gad Lerner
Del documento della corrente bersaniana del Pd firmato da Stefano
Fassina insieme a Alfredo D’Attorre e Maurizio Martina, merita di essere
sottolineato un passaggio rivelatore. Là dove i tre condannano
l’indisciplina dei gruppi parlamentari nel corso delle votazioni per il
Quirinale -cioè il dissenso apertamente manifestato sulla candidatura
Marini, e poi il tradimento di Prodi nel segreto dell’urna- segue una
precisazione nella quale definiscono nettamente preferibile la prima
ipotesi di Bersani: cioè l’accordo raggiunto con Berlusconi sulla nomina
di Franco Marini alla presidenza della Repubblica. Nella convinzione
che poi Marini avrebbe senz’altro nominato Bersani presidente del
Consiglio, secondo i patti di spartizione su cui hanno sempre concepito
lo stesso Partito Democratico. Quanto a Prodi, relegano a subordinata
seconda scelta la sua indicazione, ricorrendo all’abusata formula della “candidatura divisiva”.
Ecco, io credo che i tre portavoce della corrente Bersani ben
rappresentino in questo bilancio che ha il pregio della sincerità, quali
siano la natura e la cultura politica della “ditta” d’appartenenza.
Nell’ordine: per loro era prioritario trovare l’accordo con Berlusconi
sul Quirinale, non hanno neanche preso in considerazione di puntare su
candidati a lui sgraditi ma invece rappresentativi della “spinta al
cambiamento” di cui pure si riempivano la bocca.
Secondo. Nella loro
visione logora del Pd come patto di sindacato fra ex-comunisti e
ex-democristiani più qualcun altro di contorno, Marini era figura di
garanzia degli equilibri di potere interni, oltre che esterni.
Terzo. Prodi continua a essere vissuto come figura divisiva prima di
tutto all’interno della “ditta” di cui questi giovani dirigenti si
sentono un po’ pateticamente i prosecutori.
Erede di un’atavica
diffidenza per l’idea stessa di alternativa, con questa impostazione
culturale e una specie di torcicollo che da sempre li sospinge (fin dai
tempi del Pci) a privilegiare il rapporto con i moderati, Bersani non
poteva che andare a sbattere. Molto più solido e dignitoso il disegno di
Giorgio Napolitano che non si vergognava a dichiarare a voce alta la
sua priorità: l’accordo con Berlusconi per un governo di larghe intese.
Inutile aggiungere che in questa concezione della “ditta”, peraltro
lacerata all’interno da rancori personali, salvaguardie patrimoniali e
qualche grana giudiziaria, la visione di un partito aperto,
partecipativo, in sintonia con le dinamiche della società, altro non è
che un orpello. Alla fine i firmatari Fassina e Martina si ritrovano a
ricoprire incarichi di governo, secondari ma dignitosi, e magari a
occuparsi di partite di potere reale come l’Expò 2015. Non vedo un gran
futuro per i bersaniani. Per salvare la “ditta” i più smaliziati già
stanno correndo in soccorso del vincitore Renzi."
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