Anche in questi giorni sta succedendo.
E il copione si ripete, tristemente identico a quello dell’anno prima e
dell’altro anno ancora: gli sbarchi si moltiplicano, i centri di
accoglienza scoppiano, sui giornali riesplodono le polemiche. E si
ripetono anche le tragedie. Come quella dei giorni scorsi
che, secondo testimonianze dirette dei profughi arrivati a Lampedusa,
ha visto morire sette persone aggrappate per ore a una gabbia per tonni
trascinata da un peschereccio tunisino. Altri sette morti che si
aggiungono all’elenco impressionante delle vittime senza nome del
Cimitero Mediterraneo: Fortress Europe ha calcolato che dal 1988 ad oggi siano non meno di 20mila le persone morte lungo le frontiere dell’Europa.
Per questo la tragedia di sabato notte
tocca le nostre coscienze. Ci interpella. Chiama in causa le nostre
responsabilità. Per questo, alla vigilia mondiale della giornata
mondiale del rifugiato nella quale sarà importante sottolineare ancora
una volta il tema dei diritti di chi fugge, non dobbiamo lasciare questo
dramma dentro la nostra coscienza. Dobbiamo urlarlo. Io non so come si possa risolvere totalmente il problema. So che non si può stare zitti.
C’è un mondo che preme alle nostre
frontiere, alle nostre porte, ci son volti e storie che lasciano terre
dove si soffre, dove ci sono guerre e vittime, dove ci sono persone che
chiedono una nuova nazione e una nuova vita. Io dico che è un dramma se
questi uomini, queste donne, questi bambini in cerca di un rifugio non
trovano risposte adeguate al loro grido disperato, un dramma che
non può lasciare indifferente nessuno. Non ci sono alibi, tanto meno
quelli della crisi economica che ci ha reso tutti più poveri e che
consiglierebbe, secondo alcuni, di rispedire indietro questi richiedenti
aiuto, ad alzare muri, a giustificare il rifiuto di accoglierli.
Dicevo che io non so bene come si possa
risolvere il problema. Ma so che non è un problema di logistica e che
non si può usare quest’argomento per mero calcolo politico. Qui alla Casa della carità
di rifugiati che hanno attraversato il mare ne abbiamo ospitati tanti,
ne abbiamo condiviso preoccupazioni, speranze, gioie e dolori. Li
conosciamo bene. Sono nostri amici, un pezzo della nostra storia. Per
questo i drammi ci colpiscono a fondo e non ci basta scriverne e
parlarne. Vorremmo che fossero per tutti un momento di
riflessione vera per cambiare la nostra politica sull’accoglienza e
porre fine a queste tragedie.
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