Il vecchio partito di massa non risponde più alla realtà di oggi
Prove di dialogo, ieri, al seminario di Italianieuropei.
In parallelo alla riunione della commissione per il regolamento (da non
confondere con il primo, com’è capitato). Siamo ai preliminari, su temi
che scaldano solo pochi appassionati. Il clima non è falsamente
unanime, come nel 2007. E nemmeno gladiatorio, come nel 2009. Molte
diversità di opinione sono rimaste quasi intatte.
Con l’endorsement ormai esplicito a Gianni Cuperlo, D’Alema ha di
fatto inaugurato la sua campagna congressuale. Si è detto convinto che
segretario e candidato premier non devono «necessariamente» coincidere.
Ma la logica dello statuto, la scelta del segretario da parte di tutti
gli elettori, non mi pare sia più in discussione.
Rimane il sottofondo comune a molti degli interventi iniziali: la
nostalgia per tratti tipici dei partiti di massa novecenteschi, o forse
della loro idealizzazione postuma. Partiti espressione di una «comunità»
o di una classe di cittadini ben identificabile, di individui non
isolati, identificati con la missione collettiva, capaci di offrire ai
militanti un percorso di partecipazione ricco, di socializzarli ad una
visione condivisa, anche di educarli, in certi casi, di dare forza
rappresentativa ai deboli e di fronteggiare le pressioni degli interessi
forti, di essere intermediari non solo in termini elettorali, ma giorno
per giorno, tra la società e le istituzioni, di selezionare, sostenere e
coordinare classe dirigente. Partiti capaci di promuovere a ruoli di
classe dirigente persone che mai avrebbero potuto aspirarvi se avessero
dovuto far contro solo sulle proprie risorse private.
La nostalgia è comprensibile, non solo per ragioni soggettive e
biografiche. Il partito di massa è stata una tra le più importanti
innovazioni politiche del secolo scorso. Una invenzione che “da
sinistra” ha contagiato il campo avversario. Una forma che corrispondeva
alla sostanza di partiti nati da profonde fratture sociali, dentro
conflitti che creavano comunità parallele, sub-culture, e ne facevano
veicolo di movimenti collettivi imponenti.
La rievocazione di quei tratti, magari ammodernati grazie all’uso di
categorie pseudo-politologiche, continuano a suscitare, per le stesse
comprensibili ragioni, sentimenti positivi tra molti militanti, non solo
quelli di lunga data. Rischiano così d’essere usati come mezzo di
propaganda congressuale. È capitato appunto nel 2009, quando il mantra
del “partito strutturato e radicato nel territorio”, rappresentò il più
forte tra i richiami della coalizione mobilitata a sostegno di Pier
Luigi Bersani. Una promessa mai mantenuta, forse perché non mantenibile.
Di Bersani si ricorderanno semmai impegnative campagne di comunicazione
centrate sulla faccia e il personale lessico del leader.
Nel frattempo, infatti, troppe cose sono cambiate perché quella
visione dei partiti politici possa tradursi in pratica. I partiti si
sono assottigliati non certo «a causa delle primarie», che semmai li
hanno rigonfiati di una nuova linfa, restituendo inaspettatamente vita a
organismi semi-agonizzanti. Si sono “volatilizzate” (non solo in
termini elettorali) le classi sociali di riferimento che creavano
identificazioni immediatamente spendibili in campo politico. Si è
enormemente assottigliata la platea degli iscritti attivi. Proprio
grazie alla «mobilitazione cognitiva», almeno nel senso che questo
termine ha nella scienza politica contemporanea, dagli studi di Russel
Dalton in poi, diverso dall’accezione sui generis con cui lo usa
Fabrizio Barca. Individui più istruiti, ricchi, esposti ad una
molteplicità di media e messaggi, sono diventati più disposti a prendere
posizione su temi pubblici, ma sempre meno ad identificarsi con un
singolo partito e a vederlo come canale prevalente o univoco per
partecipare.
Le primarie hanno dato per l’appunto una risposta alla «mobilitazione
cognitiva», e anche ad un altro problema, che nel seminario mi è parso
sottovalutato. I partiti di sinistra correvano e corrono il rischio, con
l’assottigliarsi della militanza tradizionale, di ridursi a «società di
professionisti», aggregati di «classe dirigente» o aspirante tale. Di
oligarchie che amministrano il consenso dello zoccolo duro per auto
tutelarsi. Le primarie non sono la panacea per tutti i mali della
cattiva politica, ma possono introdurre un nuovo equilibrio,
potenzialmente più dinamico, tra la base associativa, le correnti e il
leader.
Nessun commento:
Posta un commento