In vista del congresso del Partito democratico, il rottamatore sta lavorando soprattutto su lavoro e forma-partito. Come cambiare dopo l'addio al finanziamento pubblico? L'esempio che viene dalla kermesse torinese somiglia a quello "spazio politico" combattuto da Bersani
In molti si chiedono che partito abbia in mente
Matteo Renzi. Il sindaco ci sta lavorando, per farsi trovare pronto nel
momento in cui ufficializzerà la propria candidatura a segretario del
Pd. Se su molti temi sarà possibile rifarsi a quanto già detto in
occasione delle primarie dello scorso anno, con i necessari
aggiornamenti, è sugli argomenti più sensibili alla base dem che l’ex
rottamatore sta concentrando la propria attenzione, dal lavoro alla
forma-partito.
Come ricorda Simona Bonafè a Europa, «la
nostra idea di abolire il finanziamento pubblico ai partiti è stata
fatta propria anche dal governo Letta. Adesso dobbiamo far capire quale
Pd possiamo costruire senza quel finanziamento». Certo non quello
attuale. Più probabilmente, un partito che somigli molto a quello che si è ritrovato qui a Torino per #OpenPd:
aperto, privo di una struttura organizzativa rigida, spontaneo e,
soprattutto, auto-finanziato. E questa due-giorni è qui a dimostrare che
“si può fare”. Anche per questo gli organizzatori e i parlamentari
renziani presenti sono soddisfatti dell’iniziativa. Consapevoli del
fatto che il voler imporre una quota di partecipazione è stata una
scelta simbolica che ha colto nel segno.
Il Pd à la Renzi somiglia molto a quello
«spazio politico» che Pier Luigi Bersani contesta tanto: un’idea
politica univoca rappresentata da un leader, che si sviluppa in
periferia e perfino in parlamento attraverso iniziative autonome, non
necessariamente dettate dall’alto. Ovviamente, con un coordinamento
necessario sulle questioni più importanti. Un esempio è la mozione
promossa da Roberto Giachetti alla camera per l’abolizione del
Porcellum, una battaglia condotta senza alcuna “imbeccata” da Firenze,
nonostante le voci circolate in quei giorni: «È
per questo che mi trovo bene a fare politica con Matteo – spiega il
deputato romano – quando sa che c’è un obiettivo comune da raggiungere,
si fida di chi gli sta attorno e che si occupa di quel tema». Una
visione che capovolge l’immagine di un Renzi troppo legato al suo
stretto giro di collaboratori (il “Giglio magico”) e diffidente verso
tutti gli altri. O, forse, dimostra che l’ex rottamatore ha finalmente
capito che per fare il grande salto verso la politica nazionale ha
bisogno di delegare anche ad altri l’attuazione delle idee comuni.
La de-strutturazione, nella ricetta renziana, vale
anche per la “macchina” del Pd, al centro come in periferia. «Una
struttura diversa, più snella, sarà inevitabile, in linea con la
riduzione del finanziamento pubblico», spiega Bonafè. E allora più
spazio a chi fa politica per passione ed è anche pronto a rimetterci di
tasca propria pur di dare voce alle proprie idee. Come chi è venuto a
Torino. In questo modo, il Pd sarebbe portato inevitabilmente ad
allargarsi, a comprendere più che a escludere, e a non porsi questo
obiettivo solo a ridosso delle elezioni. E, ovviamente, non si creerebbe
il problema delle regole delle primarie, che dovrebbero essere aperte,
apertissime.
E le correnti? Per carità. «Se noi volevamo essere
una corrente, a quest’ora avremmo il 40 per cento degli incarichi nel
partito», commenta Bonafè, ricordando il risultato delle primarie di
ottobre. Anche in questo caso, chi dimostrerà di avere più filo da
tessere, tesserà. Senza rendite da garantire, né posizioni da
proteggere, all’interno del partito come nei rapporti con le forze nuove
che potrebbero avvicinarsi al Pd.
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