Le tristi cronache del tesseramento selvaggio verificatosi in
alcune realtà territoriali pongono la questione di “quale partito, con
quale modello” vogliamo rilanciare il Pd
Ha ragione Mario Lavia quando martedì su Europa
osservava che le cronache tristi del tesseramento selvaggio verificatosi
in alcune realtà territoriali pongono la questione brutale di “quale
partito, con quale modello” vogliamo rilanciare il Pd. Sarebbe sin
troppo facile dire che lo spettacolo offerto dalla platea degli iscritti
alleggerisce oggi i dubbi espressi da varie parti del partito sulla
opportunità di affidarci a un’altra platea, quella degli elettori.
Ma non dobbiamo abbandonarci a considerazioni moralistiche: se si
manifestano taluni fenomeni significa che esistono problemi seri nella
vita del partito, che non possiamo liquidare sbrigativamente. Significa
che sono scomparse o quantomeno assai affievolite o forse cambiate, le
ragioni della militanza, non si riescono cioè più a cogliere i requisiti
del contratto sociale interno. Perché ci si associa e per fare cosa? Se
il tesseramento si aggancia al micro notabilato la frittata è fatta,
dice Mauro Calise. Eppure non si aveva notizia dell’esistenza fra di noi
di questo micro notabilato, o ci sembrava di non averne. I notabili
nella tradizione partitica italiana non sono mai stati una categoria in
sé solo negativa: i notabili erano i leaders locali che avevano
costruito la loro rilevanza attraverso la lotta politica, nella
rappresentanza territoriale e nella capacità di progettazione politica.
I micro notabili sono invece la tipica espressione
dell’autoreferenzialità della politica, i cosiddetti autoproclamati
capetti, indifferenti a qualsiasi motivazione nobile della loro
autorevolezza, interessati solo a consolidare un loro peso da giocare
nella partita della spartizione del potere: più tessere controlli più
conti. La competizione così ridotta a mera conta del gregge altera il
gioco democratico e deprime il senso della militanza e
dell’appartenenza politica. Ho assunto testimonianze da alcune
periferie messe giustamente sotto osservazione dalla segreteria
nazionale e, purtroppo, ho avuto conferma che le cose sono andate
proprio così.
Come se ne può uscire? Io penso solo alzando la soglia della
vigilanza etica e ripristinando una ragione alta del nostro associarci e
del nostro dividerci. Se questa ragione non è più la politica allora è
inevitabile che subentrino altre logiche.
Dobbiano tornare all’abc, cioè al senso della politica e al senso dei partiti.
Quasi un secolo fa James Bryce diceva che «i partiti sono
inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo
potrebbe funzionare senza di loro». E Simone Weil, nel suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici,
aggiungeva che «un partito è, in linea di principio, uno strumento
destinato a servire una certa concezione del bene pubblico». Dunque, se
non c’è questa concezione del bene pubblico, è difficile organizzare un
partito politico che sia tale e non si trasformi in qualcosa di
deteriore. Ecco il punto. Se non c’è una visione, un progetto di futuro,
un’idea di gestione e trasformazione della realtà, su cosa può
costruirsi un contratto associativo? Sulla memoria di ciò che si è
stati? Ma quanto può reggere una simile base? Sul contratto di clientela
con qualche datore di favori o anche solo di promesse? Ma allora si
programma come minimo l’instabilità del corpo sociale, perché ci sarà
sempre un nuovo “datore” più accattivante o conveniente. Sulla fedeltà a
micro leadership diffuse sul territorio? Ma allora scompare non solo lo
spessore ma anche il valore dell’affiliazione a un partito.
Sono fenomeni non nuovi che hanno portato nel tempo postideologico a
diverse mutazioni della forma partito. Siamo così passati dai partiti di
massa, ai partiti di élite, ai partiti pigliattutto, ai partiti
personali, ai cartel-party.
A me pare che l’unico rimedio sia quello di tornare all’originale
modello di partito moderno, quello nato per intenderci all’interno del
parlamento inglese nel XVIII secolo con la divisione fra i due
schieramenti, i whigs e i tories, in competizione per determinare gli
indirizzi governativi. È dall’incontro fra le istituzioni
rappresentative e la società di oggi, ormai libera da vincoli ideologici
e notabilari, che può prendere forma il nuovo partito politico. La
forma novecentesca di partito politico “assemblato” da una precedente
appartenenza ideologica non può più reggere, non foss’altro perché non
ci sono più le ideologie, ma non solo per questo.
Ecco perché le nostre primarie dell’8 dicembre debbono essere
l’occasione per rinnovare profondamente anche la forma partito. Sempre
che i candidati abbiano consapevolezza di questa sfida. E abbiano la
disponibilità conseguente a rifletterci e a fare riflettere le
intelligenze che pure gravitano nei nostri dintorni.
Se, come ha scritto il professor Oreste Massari (ne I partiti politici nelle democrazie contemporanee),
«la buona salute delle democrazie dipende dalla buona salute dei
partiti», allora la nostra diventa una responsabilità non solo verso noi
stessi, ma verso la democrazia del nostro paese.
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