giovedì 7 novembre 2013

Nessun moralismo, è decisivo l’8 dicembre

Pierluigi Castagnetti 

Europa  

Le tristi cronache del tesseramento selvaggio verificatosi in alcune realtà territoriali pongono la questione di “quale partito, con quale modello” vogliamo rilanciare il Pd
Ha ragione Mario Lavia quando martedì su Europa osservava che le cronache tristi del tesseramento selvaggio verificatosi in alcune realtà territoriali pongono la questione brutale di “quale partito, con quale modello” vogliamo rilanciare il Pd. Sarebbe sin troppo facile dire che lo spettacolo offerto dalla platea degli iscritti alleggerisce oggi i dubbi espressi da varie parti del partito sulla opportunità di affidarci a un’altra platea, quella degli elettori.
Ma non dobbiamo abbandonarci a considerazioni moralistiche: se si manifestano taluni fenomeni significa che esistono problemi seri nella vita del partito, che non possiamo liquidare sbrigativamente. Significa che sono scomparse o quantomeno assai affievolite o forse cambiate, le ragioni della militanza, non si riescono cioè più a cogliere i requisiti del contratto sociale interno. Perché ci si associa e per fare cosa? Se il tesseramento si aggancia al micro notabilato la frittata è fatta, dice Mauro Calise. Eppure non si aveva notizia dell’esistenza fra di noi di questo micro notabilato, o ci sembrava di non averne. I notabili nella tradizione partitica italiana non sono mai stati una categoria in sé  solo negativa: i notabili erano i leaders locali che avevano costruito la loro rilevanza attraverso la lotta politica, nella rappresentanza territoriale e nella capacità di progettazione politica.
I micro notabili sono invece la tipica espressione dell’autoreferenzialità della politica, i cosiddetti autoproclamati capetti, indifferenti a qualsiasi motivazione nobile della loro autorevolezza, interessati solo a consolidare un loro peso da giocare nella partita della spartizione del potere: più tessere controlli più conti.  La competizione così ridotta a mera conta del gregge altera il gioco democratico e deprime il senso della militanza e dell’appartenenza  politica. Ho assunto testimonianze da alcune periferie messe giustamente sotto osservazione dalla segreteria nazionale e, purtroppo, ho avuto conferma che le cose sono andate proprio così.
Come se ne può uscire? Io penso solo alzando la soglia della vigilanza etica e ripristinando una ragione alta del nostro associarci e del nostro dividerci. Se questa ragione non è più la politica allora è inevitabile che subentrino altre logiche.
Dobbiano tornare all’abc, cioè al senso della politica e al senso dei partiti.
Quasi un secolo fa James Bryce diceva che «i partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro».  E Simone Weil, nel suo Manifesto per la soppressione dei partiti politici, aggiungeva che «un partito è, in linea di principio, uno strumento destinato a servire una certa concezione del bene pubblico». Dunque, se non c’è questa concezione del bene pubblico, è difficile organizzare un partito politico che sia tale e non si trasformi in qualcosa di deteriore. Ecco il punto. Se non c’è una visione, un progetto di futuro, un’idea di gestione e trasformazione della realtà, su cosa può costruirsi un contratto associativo? Sulla memoria di ciò che si è stati? Ma quanto può reggere una simile base? Sul contratto di clientela con qualche datore di favori o anche solo di promesse? Ma allora si programma come minimo l’instabilità del corpo sociale, perché ci sarà sempre un nuovo “datore” più accattivante o conveniente. Sulla fedeltà a micro leadership diffuse sul territorio? Ma allora scompare non solo lo spessore ma anche il valore dell’affiliazione a un partito.
Sono fenomeni non nuovi che hanno portato nel tempo postideologico a diverse mutazioni della forma partito. Siamo così passati dai partiti di massa, ai partiti di élite, ai partiti pigliattutto, ai partiti personali, ai cartel-party.
A me pare che l’unico rimedio sia quello di  tornare all’originale modello di partito moderno, quello nato per intenderci all’interno del parlamento inglese nel XVIII secolo con la divisione fra i due schieramenti, i whigs e i tories, in competizione per determinare gli indirizzi governativi. È dall’incontro fra le istituzioni rappresentative e la società di oggi, ormai libera da vincoli ideologici e notabilari, che può prendere forma il nuovo partito politico. La forma novecentesca di partito politico “assemblato” da una precedente appartenenza ideologica non può più reggere, non foss’altro perché non ci sono più le ideologie, ma non solo per questo.
Ecco perché le nostre primarie dell’8 dicembre debbono essere l’occasione per rinnovare profondamente anche la forma partito. Sempre che i candidati abbiano consapevolezza di questa  sfida. E abbiano la disponibilità conseguente a rifletterci e a fare riflettere le intelligenze che pure gravitano nei nostri dintorni.
Se, come ha scritto il professor Oreste Massari (ne I partiti politici nelle democrazie contemporanee), «la buona salute delle democrazie dipende dalla buona salute dei partiti», allora la nostra diventa una responsabilità non solo verso noi stessi, ma verso la democrazia del nostro paese.

Nessun commento:

Posta un commento