Marco Damilano
dal blog finemondo l'espresso 11 novembre 2013
Nel 2005, era il leader dell’Ulivo, Romano Prodi
annunciò in tv che non avrebbe obbedito alle indicazioni elettorali
della Cei sulla fecondazione assistita e che, al contrario del cardinale
Ruini, sui referendum non si sarebbe astenuto, sarebbe andato a votare,
«da cattolico adulto», ovvero uno che ascolta gli insegnamenti della
Chiesa ma prima di tutto la sua coscienza. Ora il Professore annuncia
che alle primarie dell’8 dicembre per scegliere il segretario del Pd non
andrà a votare: «non per polemica, ma ho deciso di ritirarmi dalla vita
politica. Ho fatto un passo indietro, è bene che mi mantenga nella mia
coerente posizione». Due strade opposte, ma tra il voto e il non-voto
non c’è distanza. Più che un atto di distacco, infatti, l’annuncio di
Prodi assomiglia a un atto di denuncia verso chi non ha uguale coerenza.
Nelle stesse ore, infatti, i sostenitori di Gianni Cuperlo facevano
rimbalzare su twitter la conclusione del discorso del candidato a
Milano: «La notte sta per finire e noi siamo l’alba». E l’ex segretario
Pier Luigi Bersani si è presentato in tv da Lucia Annunziata per
ribadire che si sente di non aver sbagliato nulla o quasi. Segno che nel
Pd continuano a rimuovere le domande che dovrebbero essere alla base
del dibattito congressuale. Perché si sono perse le elezioni (altro che
“non vinte”)? Perché si è permesso a 101 parlamentari, uno su quattro,
di eliminare il padre fondatore del partito e di gran lunga il migliore
candidato al Quirinale (ormai l’ha riconosciuto perfino la Santanchè…),
senza fare il minimo sforzo di individuarli, non con un’azione
poliziesca ma con un tentativo di minima chiarezza politica? E che si
giudizio si può dare e cosa si deve fare con il governo delle larghe
intese che è nato da quell’operazione a volto coperto?
Bersani non ne parla. Ribadisce che i 101 sono frutto di una
«immaturità della nostra combriccola»: senza dire, però, che quel Pd lì,
quel gruppo parlamentare, era interamente bersanizzato, formato a sua
immagine e somiglianza. Anche il tesseramento gonfiato di questi giorni
ha molti colpevoli, i signori delle tessere che agiscono dal nord al sud
del Paese, da Torino a Enna, ma un unico responsabile, il capo
dell’organizzazione del Pd: in questi anni si sono chiamati Maurizio
Migliavacca, Nico Stumpo, Davide Zoggia. Bersani parla poco di Prodi,
preferisce rimpiangere la mancata elezione di Franco Marini al Quirinale
(con il voto del Pdl), «sarebbe stato il Pertini cattolico». Paragone
privo di significato: in comune tra i due personaggi c’è la pipa, per il
resto Pertini è sempre stato un uomo di minoranza, senza correnti e
senza truppe, mai esistiti i pertiniani, e per questo capace di dare dal
Quirinale grandi dispiaceri alle segreterie di partito (compresa la
sua, il Psi di Craxi), Marini al contrario è sempre stato il capo
dell’apparato, sempre in maggioranza, come Bersani e Cuperlo nel
Pci-Pds-Ds-Pd, affidabile (dal punto di vista di Bersani) proprio per la
sua fedeltà alla logica di auto-conservazione dei partiti. Bersani ha
ripetuto che se ci fosse stato lui a Palazzo Chigi ci sarebbe stato un
governo di cambiamento, ma purtroppo in campagna elettorale nel Paese
nessuno se n’è accorto, no, Bersani non è Bob Kennedy e neppure Salvador
Allende, non c’è un colpo di Stato che ha interrotto il suo disegno, ma
soltanto i suoi errori. In Francia il socialista Lionel Jospin consegnò
l’elettorato della gauche a un orrendo ballotaggio tra Chirac e Le Pen,
si dimise ed è sparito dalla circolazione, Bersani ha lasciato il Pd
stritolato tra l’esigenza di allearsi o con Berlusconi o con Grillo. Qui
l’unico a sparire dalla scena è Prodi che con la sconfitta non c’entra
nulla, pazienza.
Non di giorni, ma di anni di menzogne e di tradimenti è fatta la
storia del centrosinistra. L’ultimo no di Prodi, la decisione di non
votare alle primarie, che tutti si sono affrettati a «guardare con
rispetto», chiude definitivamente questa sfortunata storia del Pd. E
anticipa quella che potrebbe essere la scelta di tanti: uno scisma
silenzioso, lo scisma sommerso, come si intitolava un libro del filosofo
Pietro Prini, quello tra il popolo e il vertice, il riflusso nel non
voto dei tanti delusi da questa classe dirigente. Sbaglia Matteo Renzi
se sottovaluta questo stato d’animo: il suo problema non è convincere
Prodi a superare l’amarezza, ma i tanti altri che non si ritrovano in
questa campagna congressuale, compresa la sua. C’è un salto enorme tra
il Renzi dirompente e all’attacco visto l’altra sera da Santoro e alcuni
renzini locali, in difficoltà quando devono spiegare chi sono e cosa
vogliono, quando c’è da fare politica e non auto-intrattenimento.
Eppure il rischio è mortale, perché senza il coinvolgimento di quella
massa critica, il popolo delle primarie, finiranno per vincere i
protagonisti del disastroso ventennio appena passato, gli stessi che
hanno condotto il centrosinistra nella notte più buia, nascosti alle
spalle dei loro ex colonnelli o eredi. Una vittoria sulle macerie:
scarsa partecipazione alle primarie, un nuovo segretario già logorato in
partenza, un partito diviso tra i micronotabili locali di cui parla
Mauro Calise in “Fuorigioco”. Vedi la sezione di Pietraperzia in
provincia di Enna, dove domina l’ex ds Mirellino Crisafulli: 151
votanti, 149 voti per Cuperlo. Chi invece ha interesse a chiudere quella
pagina, si chiami Renzi o Civati, ha il dovere di combattere nelle
prossime settimane. E forse allora si capirà il significato del gesto di
Prodi.
Nessun commento:
Posta un commento