lunedì 11 novembre 2013

L’accusa di Prodi: fallito il mio progetto di Pd.

Francesco Alberti
Corriere della Sera 11 novembre 2013 
 
«Non era questo il mio disegno politico, prendo atto che ciò per cui mi sono impegnato in tutti questi anni non è riuscito. Ci sono state forze di ogni tipo, e non mi riferisco solo al centrosinistra, che mi hanno ostacolato in ogni modo e ancora fanno sentire il loro agire. E siccome, come dicono i miei concittadini reggiani, “non si può stare in mezzo all’uscio”, ho deciso di dedicarmi ad altro…». Non c’è nemmeno bisogno che l’ultimo spenga la luce. Ora che la porta si è chiusa, anzi, che Romano Prodi l’ha chiusa, si può discettare all’infinito di quando, in quale esatto momento storico, ha cominciato a logorarsi e poi a sfilacciarsi per poi infine rompersi quel filo che dal 1995 a qualche mese fa — attraverso due Ulivi, due governi, due tradimenti fratricidi, mille battaglie contro Berlusconi, un’imboscata quirinalizia e agguati di ogni tipo — ha fatto del Professore il simbolo di un centrosinistra che aspirava (obiettivo fallito) ad avere il suo centro gravitazionale lontano dalle oligarchie romane. Considerato lo spessore e le mille peripezie che hanno segnato la convivenza tra il due volte ex premier e la galassia dei post dc e post pci, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Il punto, piuttosto, è un altro: è giusto, come in automatico molti tendono ora a fare, interpretare la decisione prodiana di prendere definitivamente le distanze dalla sua creatura, prima rifiutandosi di ritirare la tessera pd e poi annunciando di voler disertare i gazebo delle primarie, solo e unicamente come una vendetta? Qualcosa, cioè, di pianificato a tavolino, consumato a freddo e destinato a fare rumore (oltre che male alla gracile costituzione del Pd), ma pur sempre una vendetta: certo legittima da parte di chi ritiene di aver subito un torto, ma comunque nata e maturata in un ambito emozionale, istintivo, impolitico e quindi per certi versi di corto respiro? Chi lo conosce esclude una lettura del genere: «No, è tutto molto più complesso, un lungo percorso segnato da una linea di coerenza…».

Tutto molto più prodiano. Ci sono gli artigli e la passione. Le rivalità e lo sguardo lungo sul Paese. Ogni parola è calcolata nell’uscita di scena del due volte ex premier. E non tutte vanno apparentemente nella stessa direzione. C’è l’artigliata, spietata, quando, nell’ammettere di aver sognato un Pd molto diverso, lui che assieme a Parisi e a Veltroni tanto si spesero, rovescia consapevolmente su quello attuale una bocciatura che più bruciante non si può, consapevole, così facendo, di mettere a dura prova equilibri di partito a dir poco fragili e di scavare ulteriori fossati tra la base e i vertici. Eppure è lo stesso Prodi che poco dopo, in contemporanea con l’annuncio di disertare le primarie, si augura con tutto il cuore che «tanti altri, in particolare moltissimi giovani, vadano a votare»: un messaggio che non è solo lo specchio di un affetto lungo vent’anni e incancellabile a dispetto di tutto, ma la riprova di quanto l’uomo, al netto dei propri bilanci politici, voglia ancora credere in un centrosinistra e in un’Italia diverse. In questa direzione si muove anche il Prodi che, dietro l’ufficialità, aggiunge un altro motivo al suo passo indietro: «Togliere ai miei tanti e sempre in azione nemici storici l’ennesimo pretesto per scatenare attorno alla mia persona, approfittando delle primarie, polveroni e polemiche, facendo di tutto per trasformarmi in un elemento di divisione di cui il partito e il Paese credo non abbiano in questo momento alcun bisogno».

Chiudere con il Pd è stata, oltre che tra le più dolorose, anche la più solitaria delle decisioni prodiane di questi ultimi anni. I suoi fedelissimi, quando una ventina di giorni fa si sono sentiti prospettare l’ipotesi che il Professore disertasse i gazebo, hanno provato a frenarlo, sapendo in partenza che sarebbe stato tutto inutile. «Qualcuno — raccontano gli intimi — ha tirato in ballo il disorientamento della base: “Romano, per tanti resti un simbolo”…». Altri hanno timidamente fatto presente che, con lui lontano, il sogno ulivista, già malconcio, rischiava la disfatta e che chi, all’interno del Pd, ancora sperava nel cambiamento sarebbe rimasto più solo. Niente da fare, argomentazioni già messe in conto dal Professore: «Ho giocato la mia partita, ora voi giocate la vostra».




Nessun commento:

Posta un commento