Matteo Renzi, sindaco di Firenze e volto nuovo del Pd
Barca avverte il sindaco di Firenze: premier e segretario mestieri diversi Chiti e Debora Serracchiani contro il moltiplicarsi delle candidature
«Matteo Renzi riflette un errore compiuto da chi ha costruito il Pd. Anche negli Usa il coordinatore del partito è una persona che non ha niente a che fare con il candidato alla presidenza, deve avere altre doti. Sono due mestieri diversi. Però cambiare le regole in corsa non è facile». È l’ex ministro Barca il primo a schierarsi contro Matteo Renzi, che ieri, in una intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» aveva detto che chi vince le primarie per il segretario del Pd deve anche essere candidato premier.
«A me - ha spiegato Barca - interessa una organizzazione- partito che sia curata da una persona che crede in quella organizzazione, che dedichi 13 ore al giorno a quel lavoro... L’ ultima cosa che deve fare il segretario del Pd è dare fastidio al presidente del Consiglio, semmai lo deve incalzare, ma non deve ambire a quella posizione».
Secondo Barca «chi ambisce a guidare una organizzazione deve occuparsi della sua organizzazione, poi potrà anche occuparsi d’altro, ma intanto ce n’è di lavoro da fare. Chiunque voglia candidarsi a fare il segretario si ricordi qual è il mestiere che ambisce a svolgere: il segretario di un partito, un mestiere che fa tremare le vene».
Sulla stessa linea Vannino Chiti: «Il Pd ha bisogno di cure e di impegno: per questo è indispensabile togliere dallo statuto l’automaticita’ tra il ruolo di segretario e quello di candidato premier. Alcuni mesi prima del voto, per scegliere il candidato premier, dovranno essere previste primarie aperte. Così del resto abbiamo fatto prima delle ultime elezioni».
Lo scontro, dunque, è sulle regole, oltre che sui nomi. «Lo statuto del Pd non lo ha inventato Matteo Renzi, ma è in vigore dalla nascita del partito. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico, non si possono cambiare le regole sempre e solo quando all’orizzonte c’è il sindaco di Firenze», dice il senatore del Pd Andrea Marcucci, presidente della commissione cultura a Palazzo Madama, vicino allo stesso Renzi. In campo c’è anche la Serracchiani. «più che costruire un’alternativa a Renzi, io intendo impegnarmi a costruire una nuova idea di Italia, con Renzi» dice in una intervista alla Stampa. «Noi - aggiunge - siamo arrivati a un punto in cui è necessario questo, fare gruppo, fare squadra. Senza una squadra, pensando di ostacolare Matteo, non andiamo avanti».
Come ho già detto in passato, anche con i piedi nel Friuli Venezia posso e voglio contribuire a creare un’autentica alternativa per il Governo nazionale.
Io credo che per questa sfida il Partito democratico debba mettere in campo i suoi migliori esponenti, primo fra tutti Matteo Renzi. E il mio impegno sarà quello di dare una mano per ottenere questo risultato, non certo per farlo saltare.
Ed è anche ovvio che non sono disponibile a far mettere il mio nome in partite di corrente o in manovre interne di cui a me e soprattutto ai cittadini non interessa nulla. Perciò dico: proviamo a fermare le girandole dei nomi, che ora non servono alla serenità del percorso congressuale del Pd, e tantomeno aiutano il lavoro del Governo.
Infatti saremo misurati dalla saldezza con cui sapremo dare la nostra impronta a questo Governo e contemporaneamente dalla serietà che dimostreremo nell’essere partito che sa fare sintesi, dalle regole congressuali ai grandi temi nazionali. Noi non abbiamo bisogno di tornare indietro di vent’anni come Berlusconi per ritrovare noi stessi, ma abbiamo senz’altro bisogno di tirar fuori slancio e coraggio.
Tasse da abbassare, spending review da non rimandare, produttività da rivoluzionare. La piattaforma di Renzi per conquistare il Pd e dettare l’agenda a Letta svelata dalle slide segrete del suo guru economico
Ricordate? Qualche giorno fa il Foglio vi ha dato conto delle bozze di un dossier ancora inedito sul quale stava lavorando da tempo il guru economico di Matteo Renzi: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, cinquantatré anni, una vita passata in McKinsey. Bene. Quel dossier ora è stato definitivamente completato, il consigliere del Rottamatore lo ha raccolto in cinquantuno pagine di powerpoint, il sindaco ha dato la sua approvazione di massima al lavoro di Gutgeld e da oggi in poi il documento di cui vi parliamo in questa pagina (e che da oggi sarà consultabile sul sito del Foglio, qui) diventerà a tutti gli effetti la piattaforma programmatica attraverso la quale Renzi, proprio partendo dall’economia, proverà prima a conquistare il Pd e poi a incalzare con le buone o con le cattive il governo dell’“amico” Enrico Letta.
Ecco. Dalla lettura delle cinquantuno slide di Gutgeld si può dire che il piano studiato dal sindaco per sedurre il suo partito e garantirsi un consenso ampio all’interno del Pd sia più o meno questo. Mettiamola così: Renzi ha capito che uno degli errori commessi durante la sua campagna elettorale (quella per le primarie) è stato (a) aver puntato troppo sulla famosa teoria giavazziana del “liberismo è di sinistra” e (b) aver insistito troppo su alcuni concetti indigeribili per la gauche italiana (come l’abolizione dell’articolo 18). E così, per uscire dall’“equivoco” di essere considerato lontano dal popolo di sinistra sulle policy di natura economica, il sindaco di Firenze ha accolto con favore alcuni suggerimenti di Gutgeld (che ha un profilo più laburista rispetto al liberista Pietro Ichino, che aveva scritto buona parte del programma economico di Renzi alle primarie) e ha deciso di costruire il suo nuovo profilo con questa idea: dimostrare ai suoi compagni di partito di essere diverso rispetto al liberista sfegatato delle primarie e costruire una grande coalizione attorno alla sua candidatura partendo proprio dalla Matteonomics.
La lieve svolta a sinistra del sindaco di Firenze, se così si può dire, è ben testimoniata dalle cinquantuno pagine di Gutgeld. E allo stesso tempo, attraverso il dossier del deputato renziano, di cui pubblichiamo in questa pagina alcune slide, si indovinano anche quali sono i veri temi scelti dal Rottamatore per dettare l’agenda al governo e imprimere alla rotta del Pd una rupture rispetto alla vecchia direzione imboccata nel passato. Tre temi su tutti: riduzione della pressione fiscale, taglio radicale della spesa pubblica, nuovo modello di produttività.
Sul primo punto, ovvero la riduzione della pressione fiscale, i renziani, Gutgeld in testa, ieri hanno accolto con poco entusiasmo il rinvio di tre mesi dell’Iva annunciato dal governo: tra le ipotesi studiate da Letta per bloccare il passaggio dell’Iva dal 21 per cento al 22 per cento vi è infatti la possibilità che a novembre venga aumentata di quattro punti percentuali l’anticipo dell’acconto sull’imposta delle persone fisiche (l’Irpef), e i renziani, su questo fronte, promettono di non fare sconti al governo. Motivo? Facile. La riduzione dell’Irpef è una delle priorità del programma del Rottamatore e il guru economico di Renzi ricorda non a caso che “è un errore non far pagare una tassa aumentandone un’altra” e che “il governo avrebbe tutte le carte in regola per tagliare subito l’imposta sulle persone fisiche”.
Già ma come? Gutgeld sostiene, molto semplicemente, che “per abbassare le tasse bisogna far pagare le tasse e che per far pagare le tasse non vanno più alzate le tasse”. “La riduzione dell’Irpef sulle fasce di reddito medio-basse – scrive Gutgeld – va avviata immediatamente. E’ infatti possibile ridurre l’Irpef di 50 euro al mese da subito su tutti i lavoratori dipendenti (o assimilabili) con redditi netti inferiori a 2.000 euro al mese. L’operazione richiede tra gli otto e i dieci miliardi di euro che sono reperibili in due modi”. Il primo: “Messa in vendita di tutte le case popolari agli inquilini a prezzo di favore stabilito nazionalmente. Si stima – continua Gutgeld – che il valore complessivo delle case popolari superi i 30 miliardi, e la misura lascerebbe nelle casse dei comuni una parte del ricavato (20-40 per cento), utilizzando il resto per la riduzione dell’Irpef sulle fasce di reddito medio basse”.
Il secondo: “Utilizzare la Cassa depositi e prestiti per pagare una quota della spesa in conto capitale, creando uno spazio di manovra di pari misura per una riduzione delle tasse. Queste misure straordinarie saranno sostituite dal 2014 dal gettito fiscale atteso dalle azioni di prevenzione dell’evasione, che come è noto in Italia ammonta a circa 150 miliardi di euro all’anno, 60 miliardi in più rispetto alla media europea”.
Sull’evasione fiscale, le idee di Gutgeld per recuperare “30-35 miliardi di euro all’anno” sono state anticipate qualche giorno fa sul Foglio (pagamenti tracciabili, riduzione fino a 500 euro o anche 300 euro dell’uso contante, strumenti di pagamento elettronici obbligatori, dichiarazione patrimoniale, fattura elettronica per i pagamenti tra aziende). Ma oltre a questo, l’altro programma studiato da Gutgeld per “vincolare la lotta all’evasione fiscale a una riduzione della pressione fiscale” riguarda uno schema che prevede “una redistribuzione dei proventi derivanti da maggior fedeltà fiscale a favore dei contribuenti a basso reddito”. Ok, ma in che modo?
Così: “La riduzione della pressione fiscale deve essere orientata a favore dei pensionati e dei lavoratori dipendenti con un reddito annuo inferiore ai trentamila euro. Il tutto attraverso una detrazione media mensile di circa novanta euro finanziata con 25 miliardi derivati dalla lotta all’evasione. Quanto varrebbe in termini di pil l’operazione? A regime avrebbe un impatto di circa 0,5 punti di pil all’anno creato da maggiori consumi”.
Il libro dei sogni sulla destinazione degli introiti ricavati dall’evasione fiscale, si sa, è ricco di protagonisti: e non c’è politico che (sia da destra sia da sinistra) prima di preparare una cavalcata verso una leadership non abbia evocato il desiderio di collegare la riduzione della pressione fiscale a una più severa lotta all’evasione. Il guru di Renzi sa che incatenare i finanziamenti per ridurre le tasse alla semplice lotta all’evasione è un rischio non da poco (si rischia cioè di non fare nulla) ed è per questo che all’interno della piattaforma economica suggerita al Rottamatore per prendersi il Pd e dettare l’agenda al governo Gutgeld ha puntato anche su una questione che finora, per forza di cose, non è stata affrontata dal governo: “Un taglio choc alla spesa pubblica”.
Negli ambienti governativi, il fatto che Enrico Letta finora non abbia mai fatto accenno alla necessità di mettere in pratica una formidabile opera di spending review è spiegata con un ragionamento di questo tipo: “Gli equilibri dell’esecutivo sono già molto fragili e metterci a discutere proprio adesso di che cosa tagliare rischia di far saltare tutto, e non ne vale la pena”. In verità, a quanto risulta, la commissione Bilancio della Camera, presieduta dall’ultra lettiano Francesco Boccia, ha cominciato a discutere di spending review e ha promesso di ritornare sul tema dopo l’estate. Renzi, nei suoi colloqui privati, è critico però con la lentezza dell’esecutivo, e non è un caso che il sindaco ricordi costantemente che se il governo non prende di petto il tema spending review rischia di sbattere contro un muro grande così. Per questo, dunque, il Rottamatore ha chiesto al suo consigliere economico di mettere in pratica un progetto di spending review. E sulla questione “dove si possono andare a trovare un po’ di soldi per stimolare la crescita e creare occupazione” Gutgeld ha alcune idee.
L’ex McKinsey – che nel suo dossier ricorda come in Italia tra il 2000 e il 2011 la spesa pubblica sia passata dal 39,7 al 45,5 per cento del pil (in Germania, negli stessi anni, è passata dal 41,9 al 42,8) – sostiene che ci sono molte strade da percorrere per rendere “più produttiva la spesa pubblica” e “convincere una volta per tutte la sinistra che sia possibile avere un welfare state più forte anche spendendo di meno”. Il primo punto, secondo Gutgeld, sono le pensioni.
“Abbiamo 500 mila pensionati che percepiscono, con il metodo retributivo, più di sette volte la pensione minima (circa 3.400 euro al mese), per un costo complessivo di oltre 32 miliardi all’anno. Cosa si potrebbe fare per ottimizzare? Per le pensioni che superano di tre o cinque volte il minimo, quelle che vanno da 1.443 fino a 2.405 euro al mese lordi, andrebbe dimezzato l’adeguamento all’inflazione per un anno, e avremmo un risparmio di 0,7 miliardi. Per le pensioni che superano tra 5 e 7 volte il minimo, quelle cioè che vanno da 2.405 euro a 3.367 euro, dovremmo fermare l’adeguamento per 2 anni e avremmo un risparmio di un miliardo a partire dal secondo anno. Per le pensioni superiori di sette volte il minimo andrebbero infine previsti tagli del 10 per cento e blocco dell’adeguamento all’inflazione per 3 anni: avremmo così un risparmio di tre miliardi il primo anno e di 3,8 miliardi dal terzo anno in poi”. Con questi risparmi, aggiunge il guru di Renzi, “si potrebbe per esempio dare un incentivo vero alla lotta alla disoccupazione”. Secondo Gutgeld, infatti, “trasformare qualche contratto precario in qualche contratto stabile, come ha fatto oggi il governo (ieri, ndr), non è una misura che aiuta a creare nuovi posti di lavoro, ma è una misura che si limita a stabilizzare. E avendo risorse limitate, oggi sarebbe giusto dare la priorità alla creazione di nuovo lavoro piuttosto che trasformare alcuni contratti”. Per esempio? “Con quattro miliardi all’anno potremo finanziare 650 mila giovani in servizio civile o apprendistato a cinquecento euro al mese, come accade in Germania, e in pratica, in questo modo, sarebbe lo stato che potrebbe accollarsi il pagamento di questi stipendi, seppur per un periodo limitato”. Oltre alle pensioni, poi, Gutgeld, come si evince dalle slide, sta preparando anche un progetto di legge, voluto da Renzi, che prevede una revisione del settore delle assicurazioni che potrebbe far risparmiare quattro miliardi di euro all’anno, e che porterebbe a una riduzione del 22 per cento delle spese complessive nel settore del Rc auto.
A questo, infine, sempre scorrendo il dossier, andrebbero aggiunte altre proposte che nei prossimi mesi diventeranno parte della piattaforma programmatica dell’universo renziano in materia di spending review. Il primo punto è la sanità, dove Gutgeld sta studiando un modo per creare un unico contenitore organizzativo e giuridico per evitare dispersioni e inefficienze tra Inps, comuni e regioni, e il piano porterebbe a un risparmio intorno ai dieci miliardi. Il secondo punto riguarda le prefetture, e qui Gutgeld ha suggerito a Renzi un accorpamento che farebbe passare il numero effettivo di prefetture da 70-80 presidi periferici a 20-30 prefetture centrali. Il terzo punto è relativo ai contributi alle imprese e Gutgeld propone di chiudere con la fase dei contributi a pioggia e suggerisce a Renzi di intestarsi una campagna per la patrimonializzazione delle imprese puntando a recuperare 50 miliardi di investimenti privati in 5 anni. E infine l’ultimo capitolo più corposo riguarda la produttività. Il ragionamento del guru di Renzi, già accennato qualche giorno fa sul Foglio, è che prima di chiedere una qualsiasi diminuzione dell’Irap nel mondo confindustriale è necessario aumentare la produttività, “e per la politica è importante non cedere alle pressioni dei sindacati”. Ma il ragionamento, in un certo senso, riguarda non solo Confindustria ma anche i servizi dello stato. Gutgeld sostiene che si può “aumentare la produttività producendo gli stessi prodotti o servizi con costi più bassi” e dice che “tutto ciò che viene risparmiato nella pubblica amministrazione andrebbe reinvestito nelle stessa pubblica amministrazione per creare nuovi posti di lavoro”. E quanto vale il piano? L’ex McKinsey stima che si potrebbe portare la macchina dello stato a un risparmio tra i 4 e i 6 miliardi l’anno.
Ecco. Questo dunque è il succo della nuova piattaforma economica del renzismo. Una piattaforma forse meno liberista, meno giavazziana e anche meno blairiana del passato ma una piattaforma che, comunque sia, Renzi nelle prossime settimane farà sua per realizzare un doppio obiettivo: prendersi il Pd (e creare attorno alla sua candidatura un fronte di consenso trasversale); e mettere in campo sul piano delle politiche economiche un’agenda alternativa non solo a quella del centrodestra ma anche a quella del governo. Il percorso è complicato, e Renzi dovrà stare attento a non cadere nella tentazione di trasformare la propria voglia di dettare l’agenda al governo in una voglia di rottamare il governo. Ma la strada che Renzi seguirà per raggiungere i suoi obiettivi comincia dall’economia: e in questo senso per seguire la traiettoria che il sindaco di Firenze imboccherà da qui al congresso forse bisogna partire proprio da qui.
Berlusconi: “Tornerà Forza Italia Temo che sarò ancora il numero uno”
Il Cavaliere: «Il Popolo della libertà resterà come coalizione di partiti». Sul governo: «Da parte nostra
c’è un sostegno leale e convinto»
Silvio Berlusconi scalda i muscoli e si prepara a tornare
ad essere «il numero uno» di Forza Italia; ma il Pdl non verrà gettato
alle ortiche, «resterà in campo come coalizione dei partiti di
centrodestra»: l’annuncio questa volta lo ha fatto lo stesso Cavaliere
che, dopo il rincorrersi di voci e battibecchi (tra Santanché e Alfano)
ha sgombrato il campo dalle incertezze.
Parla Raso, antisabotatore tra i primi a scoprire il cadavere del politico: «Il sangue era fresco, erano le 11 del 9 maggio»
Aldo Moro (Ansa)
La morte di Aldo Moro non è ancora una questione per gli storici.
Vitantonio Raso, il giovane antisabotatore che arrivò per primo in Via
Caetani, rivela all'Ansa e al sito vuotoaperdere.org che
la sua opera fu richiesta ben prima delle 11 del 9 di maggio 1978 e che
arrivò davanti alla R4 amaranto in via Caetani poco dopo quell'ora. In
un suo recente libro («La bomba umana») Raso aveva lasciato
indeterminata la questione degli orari che ora chiarisce dopo 35 anni.
La questione è rilevante perché la telefonata delle Br (Morucci e
Faranda) che avvertiva dell'uomo chiuso nel bagagliaio della macchina è
delle 12.13. Non solo: Francesco Cossiga e un certo numero di alti
funzionari assistettero, ben prima delle famose riprese di Gbr che sono
state girate a cavallo delle 14, alla prima identificazione del corpo
fatta proprio da Raso. Cossiga si recò quindi due volte in via Caetani.
La R4 fu ripetutamente aperta dai due sportelli laterali come
testimoniano le foto a corredo di questa inchiesta.
«SEMBRAVA CHE COSSIGA SAPESSE GIA'» - «Quando dissi a Cossiga,
tremando, che in quella macchina c'era il cadavere di Aldo Moro, Cossiga
e i suoi non mi apparvero né depressi, né sorpresi come se sapessero o
fossero già a conoscenza di tutto», dice Raso. «Ricordo bene che il
sangue sulle ferite di Moro era fresco. Più fresco di quello che vidi
sui corpi in Via Fani, dove giunsi mezz'ora dopo la sparatoria».
MAI INTERROGATO - Raso fornisce la prova che le cose il 9 di
maggio non andarono come finora si è raccontato: «Sono ben consapevole.
La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in
via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere,
sapeva. Ne parlo oggi per la prima volta, dopo averne accennato nel
libro, perché spero sempre che le mie parole possano servire a fare un
po' di luce su una vicenda che per me rappresenta ancora un forte choc.
Con la quale ancora non so convivere». Raso non è mai stato interrogato. Corriere della Sera 29 giugno 2013
“Ciao Marghe, come stai?” “E come vuoi che stia Fede, sono qua in gabbia. Non vogliono
più che vada più in giro: ma io scappo. Anche perché la mia testa mica
la puoi fermare”. Abbiamo riso insieme, pochi giorni fa al telefono,
come mille altre volte. Anche se la voce era sempre più flebile. Il
fiato più corto. Quel cuore impazzito ormai ingestibile da quando aveva
scelta di non farsi operare, tempo fa, perché “Non voglio sfinire sotto i
ferri per vivere qualche mese in più: non ne vale la pena. Preferisco
morire sorridendo”. Con Margherita era impossibile non ridere, perché
l’ironia era il suo approccio alla vita, un approccio rigoroso e
spettinato, come amava definirlo lei. Ho avuto la fortuna di frequentare tanto la Marghe in questi
anni, per lavoro e per piacere. Lunghe chiacchierate, per conoscere e
far conoscere la sua storia, il suo pensiero, il suo sapere. Lei è la sue T-Shirt, sempre spiazzanti e sempre un po’
macchiate. Lei e i suoi pranzi a base di insalata, pomodori e gatti tra i
piedi. Lei è il suo inseparabile bastone da passeggio e lo zainetto
sulle spalle, gobba e tremolante, ma sempre in piedi. Sempre un passo
avanti agli altri. Lei e i suoi libri, lei e la sua sfida infinita a
spiegare i buchi neri ai bambini, lei e l’amore per lo sport, per la sua
Fiorentina, la passione nascosta per “Un posto al sole”, l’odio per
Berlusconi, le critiche alla Chiesa e l’amicizia vera e profonda con
tanti preti di strada e di battaglia. Ricordare ora Margherita è tutto questo: è rivedere il suo
amore, vero, profonda, inscalfibile per il marito Aldo. E’ la serenità
con cui ti diceva che non voleva avere figli perché a lei i bambini
piacevano, ma solo se erano bambini di altri, e che non si sentiva
quindi in colpa nel sentirsi più attratta dai gatti. E’ il suo
rispondere sempre al telefono, dare comunque sempre un appuntamento a
chi glielo chiedeva, correre per convegni e presentazioni, fare prima
della ricerca e poi della divulgazione una scelta di vita. “Sai qual è una cosa che proprio mi dà fastidio?” – mi
diceva spesso – “Quando mi trattano come se fossi la Madonna, quando
invece sono solo una donna. Invece mi fanno sembrare una santa, una
reliquia: mi toccano, mi vogliono baciare, mi ringraziano per le cose
più diverse. Non credi di aver fatto nulla di straordinario per
meritarmi la loro dolcezza, men che meno la loro ammirazione. Ho fatto
un lavoro serio, onesto, ma senza grandi clamori. Ho solo portato la mia
pietruzza al mosaico della scienza, cercando la verità. Dicendo la
verità”. E poi c’era il tema della morte, che abbiamo sfiorato tantissime volte. Le chiedevo se lei, così innamorata della vita non la
temesse. E lei, rideva, rideva sempre. “Non me ne frega niente della
morte Federico. Fosse per me, camperei 1000 anni, ci sono ancora tante
cose da scoprire: ma la morte non mi fa paura, mi basta andarmene senza
troppe agonie, senza troppe sofferenze. Poi mica sparisco: mi trasformo
in una molecola, e in un modo o nell’altro rimarrò ancora su questa
terra. E sai una cosa? Non mi interessa nemmeno se sarò ricordata o
meno: non sarà più un problema mio”. E poi via, c’era la scrollata di spalle, segno che era ora
di non parlarne più, perché era un argomento inutile. La stessa
scrollata di spalle con cui ti rispondeva a domande tipo “Perché non ti
emozionano le stelle?”, “Perché non sei mai andata dalla parrucchiera?,
“Perché non ti riposi un po’?”. Sarebbero mille gli aneddoti di questa
straordinaria scienziata, che per farla arrabbiare bastava chiamarla
nonna: “Ma quale nonna e nonna, dentro mi sento una giovincella io”. In queste settimane stavamo iniziando a lavorare ad un nuovo
progetto insieme: le avevo chiesto di scegliere le 50 parole che
avrebbe voluto lasciare come testamento e darmi di ognuna una sua
piccola definizione. 50 parole per raccontarsi, ma 50 parole che fossero
stimoli e pungolo per i giovani. La divertiva molto questa cosa. E per
ora me ne aveva scelte due: “Fiorentina: l’unica fede possibile” e
“Ricerca: non accontentarsi di quello che si sa, non farsi spaventare da
quello che si sa”. Ci mancherà Margherita, che non ha mai avuto paura della morte perché non ha mai avuto paura di vivere.
Siglata tra Palazzo Chigi e il Quirinale
dove il condannato Berlusconi era stato solennemente ricevuto
all’indomani della pesante sentenza per il caso Ruby - e alla vigilia
dell’udienza in Cassazione sul lodo Mondadori e della probabile
incriminazione per la compravendita di senatori in epoca ultimo governo
Prodi - è durata appena 24 ore la tregua che doveva consentire al
governo di riprendere fiato e a Letta di presentarsi al vertice europeo
senza tenere l’orecchio incollato al cellulare per ricevere cattive
notizie dall’Italia.
Il presidente del consiglio ha avuto appena
il tempo di concentrarsi per qualche ora sui delicati dossier che sono
al centro dell’incontro tra i leader, che subito la sua attenzione è
stata richiamata in Italia dal nuovo scontro apertosi nella maggioranza
sulla giustizia e sui provvedimenti per l’occupazione. Va detto che con
la levata di scudi contro l’emendamento del Pdl, che punta a
ridisegnare, in caso di riforme istituzionali, il ruolo del Consiglio
superiore della magistratura, il Pd ha voluto mettere le mani avanti e
far sentire il crepitio di un fuoco di avvertimento. Se davvero - e sarà
da vedersi, in questo clima - il Parlamento dovesse mettere mano ai
poteri della Camera e del Senato, come si propone di fare, e se un
lavoro del genere, anche senza cambiare del tutto l’aspetto
costituzionale del nostro sistema, comportasse un rafforzamento della
figura del premier o addirittura l’elezione diretta del Presidente della
Repubblica, non si capisce come da una ristrutturazione del genere
potrebbe restare escluso l’organo di autogoverno dei giudici. Ma tant’è:
i rapporti tra i due principali partiti della maggioranza sono
improntati a un tale clima di sospetto che al minimo stormir di fronde
si incrociano raffiche di polemiche.
Non è stata da meno anche l’accoglienza che il Pdl, non
tutto, ma a un certo livello, ha tributato ai provvedimenti usciti da
Palazzo Chigi mercoledì. Il capogruppo dei deputati Brunetta ha
sostenuto che la sospensione dell’aumento dell’Iva è stata adottata
senza trasparenza sulle coperture (attacco al ministro dell’Economia
Saccomanni), mentre la sua vice Gelmini spiegava che il decreto sul
l’occupazione giovanile realizzava solo in parte una proposta lanciata
durante la campagna elettorale dal centrodestra. Per evitare che il
consiglio dei ministri preparato con tanta cura, e tenuto alla vigilia
del vertice di Bruxelles anche per dimostrare la capacità riformatrice
del proprio governo, apparisse come una specie di gioco delle tre carte,
Letta è dovuto intervenire personalmente dall’estero per difendere
Saccomanni e reagire alle accuse di Brunetta.
Ora, a parte i risultati che potrà conseguire con la sua
missione europea (segnata, come sempre, da un avvio interlocutorio e da
un veto del primo ministro inglese Cameron che non fa ben sperare), ci
si chiede quanto potrà andare avanti ancora il governo su una strada
così accidentata. Il problema non è la durata (sulla quale, in mancanza
di alternative, sia Berlusconi sia Epifani si sono impegnati fino
all’altro ieri), ma la possibilità e la capacità di realizzare il
programma su cui era nato l’accordo delle larghe intese. Un elenco
ambizioso di riforme improcrastinabili, dall’economia alle istituzioni,
non prive di conseguenze sociali, che solo un accordo tra (ex?)
avversari poteva consentire di varare, suddividendone i costi politici e
preparandosi a incassarne i dividendi al momento dell’uscita
dell’Italia dalla crisi. Invece, finora, s’è preferito procedere di
rinvio in rinvio, dall’Imu all’Iva alla Grande Riforma, spostando
all’autunno il momento della vera resa dei conti e dell’eventuale, in
caso di rottura, ritorno alle urne.
Pressati in questa gimcana dai rispettivi
partiti - uno, il Pd, in corsa verso il congresso, l’altro, il Pdl,
precipitato verso una rifondazione del marchio e dello spirito
«rivoluzionario» di Forza Italia - Letta e Alfano hanno dimostrato fin
qui una personale e straordinaria abilità a districarsi tra i veti
incrociati e a tenere in piedi un esecutivo, nato traballante, e alle
prese con un’opposizione trasversale e strisciante che attraversa tutta
la larga maggioranza di cui dispone. Ma alla vigilia della lunga estate
in cui una volta e per tutte si giocherà la sopravvivenza, forse è
lecito chiedersi se un governo come questo può accontentarsi di tirare a
campare. E soprattutto di campare così.
I verdi provano a riorganizzarsi. Il Pd li ha delusi o tagliati
fuori, Grillo è stato un turbine senza concretezza. Forse Renzi dovrebbe
interessarsene.
La notizia rischia di essere rubricata alla voce
“riposizionamenti di ceto politico”. Nasce una nuova formazione, un
partitino ecologista nel quale confluiscono alcuni rivoli
dell’ambientalismo compresi i Verdi ufficiali: ennesima tappa di una
peregrinazione che non ha mai trovato la terra promessa da quando,
nell’ormai preistorico 1985, apparvero in Italia le prime liste col sole
che ride.
La definizione può apparire ingenerosa. Pazienza: la generosità non
esiste in politica, e in effetti i promotori del nuovo gruppo Green
Italia sono esponenti di spicco dell’ambientalismo italiano rimasti
tagliati fuori per un motivo o per un altro dal terremoto elettorale di
febbraio. Ora puntano a unire le forze nella prospettiva delle Europee
2014 e della possibile fine anticipata della legislatura.
Egualmente però sarebbe sbagliato sottovalutare l’iniziativa. Va
considerato il terreno politico-elettorale che si vuole provare a
picchettare. Un terreno lasciato libero dal Pd, non presidiato con
credibilità da Sel, e che in febbraio Cinquestelle ha letteralmente
razziato, raccogliendo messe di voti (giovanili, in particolare) senza
poi dare risposta alla domanda di concretezza tipica dell’opinione
ecologista.
È impossibile dire oggi se questo spicchio di mercato elettorale
abbia una consistenza, né se nuovi simboli possano risultare
convincenti. Il punto è un altro: in una stagione di grandi ripensamenti
collettivi e individuali sugli stili di vita, sui modi di produrre e di
consumare e sulla sostenibilità di interi comparti industriali (perfino
con risvolti drammatici, dall’Ilva al Sulcis), è possibile per un
grande partito “a vocazione maggioritaria” come il Pd cedere il campo?
Alle ultime elezioni c’è stata la falcidia dei verdi nelle liste
democratiche: non interessavano a Bersani (uomo di altra cultura), non
hanno convinto Renzi, non sono neanche nel cuore di Enrico Letta come si
deduce dalla scelta per il ministero dell’ambiente di un dirigente Pd
bravo e competente ma in materie assai diverse.
Non è tanto un problema di persone: chi rimane tagliato fuori deve
anche interrogarsi su se stesso. È però un enorme problema di politiche,
oggi portate avanti nel Pd da pochi tenaci sopravvissuti (che domani si
riuniscono, come risposta alla presentazione della nuova sigla).
Sicuramente Matteo Renzi considera se stesso il sindaco più
ambientalista d’Italia, testimonial della qualità verde del “suo” Pd. Ma
i tempi cambiano, Grillo sta lasciando “liberi” milioni di voti anche
con questo tipo di interessi: fossi al suo posto darei un occhio a non
far crescere troppa concorrenza in questo ambiente.
L'ipotesi piace all'area bersaniana, che preferirebbe il
viceministro a Gianni Cuperlo. Ma la candidatura potrebbe lasciare
freddi gli altri ex-Giovani turchi e l'area popolare
I bersaniani starebbero pensando a Stefano Fassina come
candidato anti-Renzi per la segreteria del partito: lo scrive Maria
Teresa Meli sul Corriere della Sera di stamattina. L’ipotesi
non è campata per aria. La candidatura di Renzi metterebbe in crisi
molti degli equilibri attuali e la sinistra interna del Pd avrebbe la
necessità di contrapporgli un nome forte: tra le candidature finora su
piazza quella di Pippo Civati, che pure riscuote forti consensi nella
base del partito, suona troppo “anti-governativa” (viste le posizioni
del deputato lombardo sulle grandi intese), mentre – come scrive la Meli
– «Gianni Cuperlo è stato definito “candidato divisivo”».
Stefano Fassina avrebbe il profilo giusto: stimatissimo da una parte
importante della base democratica (alle primarie dello scorso dicembre
era stato il più votato a Roma, con quasi dodicimila preferenze, il
doppio del primo degli inseguitori), da quando è viceministro
dell’economia nel governo Letta ha dimostrato di avere la caratura
dell’uomo di governo, con una capacità di mediazione niente affatto
scontata.
Ma qualche obiezione rimane. Prima fra tutte quella sulla candidatura
di Gianni Cuperlo: sarebbe disposto a farsi da parte in nome
dell’“unità” della sinistra interna? Forse sì, in nome della ditta. E i
suoi sostenitori? Negli ultimi tempi i rapporti tra Fassina e Matteo
Orfini sembrano essersi logorati, e lo stesso Fassina – in un’intervista con Europa – ha definito «finita» l’esperienza dei Giovani turchi. E il documento Fare il Pd, stilato da Fassina insieme ad Alfredo D’Attorre – era stato accolto con una certa freddezza all’interno del partito.
Altra questione quella dei rapporti tra Fassina e il mondo dei popolari. Questa mattina, su Twitter, Claudio Cerasa del Foglioragionava:
«In tutto questo, se i candidati al congresso fossero
Renzi-Cuperlo-Civati-Fassina in teoria il candidato di Letta dovrebbe
essere Fassina». Ma non è detto che tutta l’area ex-Ppi – che pure
faceva parte della vecchia maggioranza bersaniana – sarebbe disposta a
confluire su un candidato così marcatamente caratterizzato “a sinistra”.
Saranno aperte come nelle precedenti occasioni, oltre tutto non ci
sono nemmeno i numeri per cambiare le regole né in direzione né in
assemblea nazionale. E Renzi è lì
Nei giorni scorsi, uno dopo l’altro – con la vistosa eccezione
di Bersani – tutti i big del Pd si sono pronunciati per le primarie
aperte. Aperte a tutti quei cittadini (meglio se anche ai sedicenni) che
con maggiore o minore intensità ritengono che il Pd sia il partito cui
puntare e il cui leader possa competere per la guida del governo. Né più
né meno di quello che abbiamo vissuto nel 2007 e nel 2009, le due
precedenti primarie per la leadership del Pd.
La commissione per le regole alla fine deciderà per la strada più
ragionevole. Niente “albi”, niente obbligo di iscriversi al partito,
niente registrazioni.
Guglielmo Epifani ha tenuto sinora una posizione di mediazione,
attento alle ragioni di Bersani, ma è probabile che stia vivendo questa
discussione con un crescente disagio, e c’è da capirlo. Si rende conto
che non ci sono nemmeno i numeri (in direzione o in assemblea nazionale)
per cambiare statuto e regole. E anche da Bersani a questo punto ci si
aspetta più una battaglia sui contenuti che non sulle procedure, perché
anche solo dare l’impressione di arzigogolare per complicare la vita di
Matteo Renzi non rende un buon servizio a lui per primo.
Ci vorranno dunque più candidati, più documenti, un congresso non
spezzato fra fase centrale e fase locale per dare l’idea di un grande
appuntamento nazionale.
Al massimo si potrà “ammorbidire” l’automatismo fra leader e
candidato premier. Ma sarebbe (sarà) una modifica che non muterebbe la
sostanza: il numero uno del Pd correrà per palazzo Chigi.
Renzi vuole vedere il tutto nero su bianco, giustamente, ma se le
cose stanno così non dovrebbe più avere remore nel decidere di scendere
in campo. Forse un po’ frettolosamente, Scalfari ha scritto che
scioglierà la riserva il primo luglio: magari sarà più verso la fine del
mese ma, anche qui, la sostanza non cambia.
Il suo dubbio sulla possibilità reale di conquistare le “truppe” deve
tenere conto che il corpo del partito si sta abituando all’idea della
sua leadership. E che le correnti interne a lui ostili perdono terreno e
personalità, e infatti il clima interno è meno nevrotico. La strada
ormai è aperta.
La bimba è nata 9 anni fa in Italia, ma la legge la considera straniera. La Federnuoto: costretti a escluderla. Zaia: «Sì a cittadinanza, no a ius soli». La storia di un sogno infranto in vasca.
Per quanto questa situazione (i processi, le condanne eccetera)
fosse facilmente preventivabile quando sono nate le larghe intese, solo
adesso l'ex premier misura il limite del suo indiscutibile successo
politico post-elettorale
Berlusconi è una delle due colonne che tengono in piedi il
tentativo di governo di Enrico Letta. Prima di ogni altro ragionamento, a
sinistra occorre tenere presente questa condizione: è una condizione
forzata ma non per questo meno reale. La prima conseguenza è che se il
Pdl chiede qualcosa al governo, il presidente del consiglio è tenuto a
prestare ascolto. E a sforzarsi di soddisfare le esigenze legittime e
compatibili.
I limiti sono dati dall’accettabilità delle richieste, non dal
perimetro dei temi. Il programma del governo sulla giustizia è molto
vago, e non a caso: questo non significa che sia proibito assumere
iniziative. In via pregiudiziale Letta può porre un solo veto, e l’ha
già fatto: l’epoca delle leggi ad personam è chiusa per sempre.
Per quanto questa situazione (i processi, le condanne eccetera) fosse
facilmente preventivabile quando sono nate le larghe intese, solo adesso
Berlusconi misura il limite del suo indiscutibile successo politico
post-elettorale.
Il Pdl ha giocato molto meglio del Pd la partita di primavera, i
rapporti di forza però rimangono sfavorevoli a forzature da destra. E
anche l’operazione che è stata dipinta come il capolavoro del Cavaliere –
la rielezione di Napolitano – ha avuto in ogni caso come esito che sul
Quirinale è tornato un capo dello stato che per sette anni non aveva mai
mollato d’un centimetro nella difesa dell’autonomia della magistratura.
Anzi. Nel centrodestra è vivo e riaffiora continuamente il dispetto per
la tenaglia che hanno visto spesso stringersi a loro danni tra
presidenza della repubblica e corte costituzionale.
Per finire, Letta, il Pd e tutto il centrosinistra possono affrontare
la difficile fase post-Ruby con un piano B che due mesi fa non c’era, e
di cui il Pdl non dispone. Senza neanche una vera riforma varata,
nessuno può sperare nelle elezioni anticipate. Qualcuno però sa adesso
di non doverle temere: non si chiama né Berlusconi né Grillo, è il Pd se
dovesse affidarsi alla guida di Matteo Renzi.
Il magistero di questo papa può aiutare i politici cattolici a
ritrovare il senso della loro missione che è quella di stare nelle
istituzioni non per convertire il mondo ma per farle funzionare meglio a
servizio del “bene comune”
Penso che i cattolici impegnati in politica debbano fare i conti
con la politica di papa Francesco. Comincia infatti a delinearsi il
“segno” di questo pontificato.
Un magistero fatto di conversione e testimonianza piuttosto che di
note dottrinali. Non che la dottrina non sia importante, ma non è
necessario rideclinarla ad ogni stagione, tanto è la stessa da duemila
anni.
È necessario invece viverla, renderla visibile, praticata,
dimostrarne la praticabilità e, dunque, l’attualità. Il suo è un
magistero di gesti, di scelte, di atti e di fatti. E il mondo dei
credenti viene interpellato e indotto alla sequela. E quello dei non
credenti osserva sorpreso e sempre più intrigato: se il cristianesimo è
questo allora è una cosa seria.
In Italia in particolare, anche per ragioni storiche comprensibili,
soprattutto negli ultimi decenni ci si è affidati troppo alla difesa
della politica, fingendo di non sapere che la politica può sempre meno e
che in ogni caso è popolata da donne e uomini fragili come tutti e le
istituzioni sono necessariamente attente a ciò che c’è fuori piuttosto
che a determinare ciò che c’è fuori. È a monte, cioè fuori, nella
società, che il cristianesimo deve giocare le sue carte se vuole servire
l’uomo. Di seguito verrà il resto, anche la politica. I gesti, i tanti
quotidiani piccoli gesti, di papa Francesco stanno producendo
attenzione, interesse, confessioni, conversioni. Cambiamento.
È bastata l’insistenza sul tema della misericordia, cioè sulla bontà e
paternità di un Dio che vuole bene all’uomo, a tutti gli uomini, anche i
peccatori anche i non credenti, per determinare un “ascolto” nuovo, per
determinare un ritorno al sacramento della “richiesta del perdono” per i
propri errori con la fiducia di ottenerlo, per riempire piazza san
Pietro di domenica, di mercoledì, ogni giorno in cui è possibile
incontrare questo imprevedibile Pastore. Non basterà certo il magnetismo
del nuovo pontefice a cambiare le cose, ma può servire a creare
lentamente un magistero dei comportamenti più allargato e partecipato
che a sua volta può aiutare tutti a scoprire il sapore dimenticato della
buona novella.
Che c’entra tutto ciò con la politica? C’entra perché può aiutare i
politici cattolici a ritrovare il senso della loro missione che è quella
di stare nelle istituzioni non per convertire il mondo ma per farle
funzionare meglio a servizio del “bene comune”, cioè del bene di tutti.
Di starci con intelligenza della storia, dedizione disinteressata,
competenza coltivata. È una reductio? Tutt’altro. È esaltazione di un
ruolo che, poiché non è richiesto a tutti nella comunità cristiana, chi
lo esercita deve dimostrare di esserne all’altezza.
Vale la pena riflettere su uno studio apparso sulla rivista francese Futuribles
(mars-avril 2013, n. 393) in cui si dimostra che la qualità
antropologica e i costumi nei vari paesi dell’Europa sono
prevalentemente determinati non dalla qualificazione politica dei loro
governi quanto dall’influenza della religione prevalente nel paese.
L’autore, Pierre Bréchon, professore a l’Institut d’études politiques de
Grenoble, dopo aver suddiviso i vari paesi per religione prevalente (ad
esempio, paesi cattolici: Malta, Polonia, Irlanda, Austria, Italia,
Portogallo, ecc.; paesi protestanti: Danimarca, Finlandia, Svezia, Gran
Bretagna, ecc.; paesi multiconfessionali: Lettonia, Germania, Paesi
Bassi, ecc.; paesi ortodossi: Grecia, Cipro, Romania, Russia, Ukraina,
ecc.; paesi musulmani: Turchia, Kossovo, Cipro Nord, Albania, ecc.)
esamina l’atteggiamento delle rispettive popolazioni di fronte ad alcuni
temi/valori e ne esce confermata la tesi che ho già anticipata e, in
particolare, la tendenza a ridursi della forbice comportamentale tra i
paesi cattolici e quelli protestanti. Per esigenze di spazio posso
citare solo alcuni dei numerosi indicatori presi in esame.
Primo: “molto favorevoli alla famiglia tradizionale” (dati
percentuali): paesi cattolici 29, protestanti 10, multiconfessionali 26,
ortodossi 51, musulmani 72.
Questi soli quattro indicatori (la ricerca ne ha esaminato più di una
ventina) ci dicono tante cose. Sicuramente che c’è in atto un processo
di avvicinamento nei comportamenti dei popoli europei e che le
differenze che pur rimangono segnalano una perdita di influenza dei
messaggi delle diverse religioni prevalenti, almeno di alcune. E,
dunque, le diverse conseguenti antropologie risentono ben più della
crescente difficoltà delle chiese a parlare all’uomo contemporaneo
piuttosto che dell’azione dei governi. Ciò per confermare la necessità
di ritrovare all’interno delle comunità religiose prima ancora che in
quelle civiche il senso della propria missione abbandonando l’idea
pagana di una sorta di onnipotenza della politica.
In questo senso mi pare, per tornare alle affermazioni iniziali, che
la politica di papa Francesco sia molto interessante anche sotto il
profilo oggettivamente politico. Cercare di “aggiustare” la società
diventa il vero compito prioritario e inevitabilmente, alla lunga, il
più influente per la politica stessa. Più del nostro pur importante e
necessario lavoro nelle istituzioni.
L'inchiesta sui fondi spariti della Lega Nord e sulla gestione dell'ex tesoriere Francesco Belsito
Gli investigatori della Dia stanno effettuando perquisizioni in tutta
Italia per ordine della procura di Reggio Calabria che indaga sui fondi
spariti della Lega Nord e sulla gestione dell'ex tesoriere Francesco
Belsito. L'indagine riguarda il riciclaggio di milioni di euro
attraverso conti correnti utilizzati anche da personaggi legati alla
'ndrangheta.
Convalidato il sequestro dei due parchi di Chiesanuova, in
via Livorno e in via Parenzo a Brescia, dopo i sigilli apposti in via
cautelativa lo scorso 14 giugno dai carabinieri e dalla polizia locale
alle due aree verdi cittadini, contaminate da Pcb. Il giudice per le indagini preliminari ha dato l’ok al
provvedimento disposto dalla procura della repubblica di Brescia su
ordine del pm Silvia Bonardi, che fa parte del team di magistrati che si
occupa di reati ambientali.
Nei mesi scorsi, analogo dispositivo era stato imposto per il Campo Calvesi, struttura che sorge nell’area del Sin (Sito di interesse nazionale) Brescia Caffaro, oggetto di una annosa vicenda di inquinamento ambientale. L’area verde di Chiesanuova è ora inaccessibile, e numerosi
cartelli, oltre alle delimitazioni con strisce di plastica bianco-rosse
apposte attorno ai cancelli del parco, indicano che la zona è off
limits..
Il clima festoso e i propositi pronunciati ieri a giunta riunita non
valgono a nascondere i problemi con cui Emilio Del Bono dovrà misurarsi
già da oggi. Problemi che hanno a che vedere con almeno tre delusioni
politiche - a prescindere da quelle individuali, inevitabili in questi
casi - che ieri si percepivano sotto traccia. La prima è quella di
«Brescia per passione» e della sua leader Laura Castelletti, che ha
chiesto senza ottenerlo un secondo assessorato e da vicesindaco si vede
oggi schiacciata in un ruolo assai più compresso e meno pervasivo
rispetto a quello che Paroli riconobbe a Rolfi. La seconda delusione è
quella dell'area diessina del Pd che non porta nell'esecutivo nessuno
dei suoi esponenti di spicco e deve accontentarsi della biografia
politica (peraltro non marginale, nella storia del partito della
Quercia) di Michela Tiboni, a costo di sottrarre la qua
lifica di
«tecnico» al nuovo assessore all'Urbanistica. La terza delusione è della
Civica del Bono e del suo leader Luigi Morgano, artefice di
un'operazione politica per recuperare voto cattolico e oggi
rappresentato in giunta da un'anima schiettamente laica come Roberta
Morelli. Ci sarebbe una quarta delusione, a dire il vero, ed è quello di
tutte le forze politiche e le liste della coalizione, che il
neo-sindaco dal giorno dell'elezione non ha ancora gratificato di una
riunione plenaria, di un tavolo collegiale, di un summit foss'anche per
comunicare decisioni già prese. In compenso la giunta Del Bono varata
ieri può contare su una straordinaria chance: ricucire il rapporto della
politica con la città, accogliere e convogliare le energie che Brescia
sta mettendo a disposizione, aprire un dialogo schietto con i cittadini e
i loro legittimi interessi. L'importante è non perdere tempo in sterili
polemiche con l'operato della giunta degli ultimi cinque anni. Ieri
nessuno l'ha fatto. Ed è già un buon inizio. MASSIMO TEDESCHI
Vorremmo vivere in un paese dove si possa salutare un leader che
lascia e magari sognare di coinvolgerlo di nuovo, come noi vorremmo fare
con Romano Prodi, senza dover minacciare rivoluzioni
La coincidenza è forte, l’impatto è duro. Dopo
vent’anni al centro della scena, protagonisti e simboli della politica
italiana e dell’Italia nel mondo, Silvio Berlusconi e Romano Prodi
vivono un’altra giornata da primattori. Ma in che ruoli diversi, e con
quali diverse prospettive.
In teoria per entrambi si tratta dell’addio a ogni carica
pubblica. Per Prodi di sua volontà, per Berlusconi per la forza della
legge. La realtà non sarà così, probabilmente per nessuno dei due.
Ma mentre Prodi potrà, se vorrà, ritornare nel gioco che
oggi dichiara “chiuso” sulle ali di una vittoria del suo antico progetto
e per risarcimento ai danni politici ricevuti, per Berlusconi il
ritorno e la eventuale rivincita avranno tutt’altri toni, tutt’altre
condizioni, tutt’altra drammaticità.
Da ieri in tutto il mondo si può legittimamente affermare
che l’Italia è stata governata per dieci anni da uno sfruttatore di
prostitute minorenni e corruttore di pubblici ufficiali.
È una verità giudiziaria dura da mandare giù, dalla quale
io almeno non riesco a trarre alcun motivo di giubilo. Prima di ogni
valutazione sul quadro politico, sulla tenuta del governo e della
legislatura, sulla fatale estremizzazione che muterà i già esterni
caratteri del Pdl, prima di ogni analisi e previsione, è con questa
realtà amara che tocca fare i conti.
E perfino chi crede che la sentenza di ieri non sia un atto
di giustizia ma solo l’ennesima puntata della guerra eterna fra
Berlusconi e la magistratura “politicizzata” dovrebbe riconoscere che in
ogni caso il responsabile primo e principale di questa situazione,
umiliante per tutti, è lui. È di colui che non è mai stato in grado di
proteggere la funzione e l’immagine del leader pubblico dai
comportamenti dell’uomo privato. Anzi, non ha mai voluto farlo,
rifiutando perfino quelle ipocrisie minori che tengono la comunità al
riparo dalle umanissime debolezze dei singoli.
Questa è la colpa che – senza condanna ma anche senza
a
ppello – ci sentiamo oggi di attribuire definitivamente a Berlusconi. E
i suoi sostenitori, comprensibilmente scatenati, dovranno valutare bene
dove e come scaricare la propria rabbia: è ormai da qualche anno che
gli italiani hanno dimostrato di averne abbastanza di questo melodramma
interminabile.
Il governo Letta è nato vaccinato, ogni sentenza era messa
in conto (anche se quella di ieri ha superato per durezza ogni
aspettativa). Ed era nel conto che il Pdl promettesse di non rivalersi
sull’esecutivo. Il dubbio però a questo punto è un altro e riguarda il
Pd, non il Pdl: quale sarà la soglia di polemica fra centrodestra e
magistrati che i democratici riterranno sostenibile? I berlusconiani che
stasera dicono “non si può andare avanti così” devono sapere che questa
esasperazione la provano tutti. E che il desiderio di passare
definitivamente a un’altra stagione della storia d’Italia si sta facendo
irresistibile, tale da travolgere ogni calcolo di prudenza.
Vogliamo uscire da questo tunnel. Vogliamo vivere in un
paese dove si possa salutare un leader che lascia e magari sognare di
coinvolgerlo di nuovo, come noi vorremmo fare con Romano Prodi, senza
dover minacciare rivoluzioni.
Berlusconi e i suoi efficacissimi avvocati preparino come è
loro diritto i ricorsi in appello e ogni altra ammissibile iniziativa
di difesa. Se il loro braccio politico esagererà nella risposta, si
porrà il problema di come accelerare l’interdizione di Berlusconi dal
governo non per via giudiziaria ma per via elettorale, con il pregio
della immediata esecutività.
Il presidente statunitense arriva venerdì. Riuscirà a vedere Nelson
Mandela? E' l'uomo che gli ha indicato la strada politica ma del quale
però non si sente l'erede
Riuscirà almeno a vederlo, Madiba? Barack Obama, con Michelle e
le due figlie, è atteso in Sudafrica venerdì, dove rimarrà fino a
domenica. E chissà se Nelson Mandela sarà allora ancora in vita. Visita
preparata da tempo, quella del presidente americano, preceduta da una
tappa in Senegal e seguita da una sosta in Tanzania. Una settimana
lontano da casa che suscita curiosità, essendo Obama figlio dell’Africa,
ma solleva anche parecchio clamore, per i suoi alti costi, in
un’America ossessionata dai tagli alle spese: cento milioni dollari.
La concomitanza dell’addio al mondo di Nelson Mandela e dell’arrivo
nel suo paese del primo presidente nero americano ha dell’incredibile e
sembra fatta apposta per confermare l’immagine di una staffetta ideale
tra l’eroe della lotta all’apartheid, una delle icone del Novecento, con
Gandhi e Martin Luther King, e l’uomo-simbolo del nuovo caleidoscopio
demografico e razziale che caratterizza non solo l’America di questo
secondo millennio, ma l’intero sistema-mondo.
Strano, ma i due si sono incontrati personalmente una sola volta, e per
pochi minuti. Avvenne nel maggio 2005, quando Barack Obama era ancora un
senatore fresco di nomina, con ambizioni presidenziali confessate
giusto a Michelle e a pochi intimi, e Nelson Mandela era ormai
ex-presidente da diversi anni. Fu il leader sudafricano, che si trovava a
Washington, a chiedere d’incontrarlo. Il colloquio si tenne nella
stanza che Mandela occupava all’hotel Four Seasons. Ricevette il futuro
presidente seduto su una poltrona, le gambe distese in alto, il fido
bastone di canna poggiato al fianco. Obama si chinò per stringere con
delicatezza la mano dell’uomo che aveva trasformato il Sudafrica e che,
con la sua lotta, aveva rivoluzionato la lotta politica, con la sua
capacità di coniugare intransigenza e forza con spirito di
riconciliazione. C’è una foto di quell’incontro, fu scattata da David
Katz, un collaboratore di Obama, ma non fu resa pubblica.
Obama deve molto a Mandela. Deve a lui se è in politica. Il suo primo
discorso politico, pronunciato all’Occidental College di Los Angeles
nel 1981 fu chiaramente ispirato da Mandela e dal movimento
antisegregazionista impegnato nella campagna di isolamento del
Sudafrica, con il boicottaggio e il disinvestimento dei capitali
stranieri. Lo racconta Obama stesso in “Sogni di mio padre”. Di Mandela,
il futuro presidente americano apprezza soprattutto l’invincibile
perseveranza. È colpito dal modo in cui, in lui, la giusta miscela di
pazienza e di capacità organizzativa possano produrre un cambiamento
radicale e non violento. L’esempio di Mandela «contribuì ad aprire gli
occhi verso un mondo più grande, e l’obbligo che tutti noi abbiamo di
ergerci per cià che è giusto», scriverà Obama nella prefazione alle
memorie di Mandela, “Conversazioni con me stesso”.
Dopo il breve colloquio al Four Seasons, i due premi Nobel per la pace
non si sono più incontrati. Certo, Mandela si congratulò con Obama
quando fu eletto nel 2008 e quella fu la telefonata più gradita dopo la
storica elezione. Poi si sa di un’altra conversazione telefonica, questa
volta in seguito a un tragico evento, nel 2010, quando il presidente
statunitense chiamò Madiba per porgergli le sue condoglianze per la
morte della pronipote rimasta uccisa in un incidente stradale mentre
rientrava a casa dal concerto di apertura della coppa del mondo.
Così, ora, l’immagine di un passaggio del testimone tra i due, al
capezzale di Mandela è molto “narrativa”. Eppure è forse più suggestione
che realtà. È Obama stesso a lasciare cadere una simile idea, forse per
un comprensibile senso di pudore e di umiltà nei confronti di un
personaggio che egli considera un gigante unico. «Non ho mai sentito il
presidente Obama paragonarsi in alcun modo con il presidente Mandela”,
ha detto a Margaret Talev e Julianna Goldman di Bloomberg Valerie
Jarrett, consigliera di vecchia data di Obama. «Sente che qualsiasi
sfida si trovi di fronte semplicemente impallidisce al confronto con
quanto ha dovuto sostenere Mandela».
Certo, riconciliazione, spirito bipartisan, multilateraalismo sono nelle
corde del presidente democratico così come caratterizzarono la politica
di uscita dall’apartheid e di dialogo con il mondo da parte di Mandela.
In questo senso c’è tra i due una linea di continuità, dice a Bloomberg Jennifer Cooke, che dirige l’Africa Program al Center for Strategic and International Studies di Washington.
Al tempo stesso, tuttavia, non può esserci analogia tra il naturale
terzomondismo di Mandela e le coordinate del capo della superpotenza
americana, per quanto innovativo possa essere. Mandela criticò con la
massima durezza la guerra di Bush in Iraq (in questo può ritrovarsi
Obama) ma anche la politica clintoniana nei confronti di Cuba, Libia e
Iran. Oggi, l’impiego dei droni e il massiccio ricorso allo spionaggio
delle utenze private e della posta elettronica, che sono alla base delle
politiche anti-terrorismo di questa amministrazione, sarebbero per
Mandela – sostiene ancora Jennifer Cooke – «un anatema agli ideali di
una politica estera basata sui principi».
Nel corso della tre-giorni sudricana, Obama visiterà anche Robben
Island, dove Mandela trascorse 18 dei suoi 27 anni in galera. Poi
l’omaggio a Mandela morente, solo se la famiglia lo consentirà.