francesca schianchi
La Stampa 21 novembre 2015
Richetti chiede un cambio di passo
nella gestione del partito.
«Mi faccia dire chiaramente una cosa:
non ho nessuna intenzione di attaccare Renzi, né di cambiare idea
sul percorso fatto insieme», è la premessa del deputato dem Matteo
Richetti, renziano della prima ora. Detto questo, però, «non credo
sia onesto, nemmeno nei confronti di Renzi, nascondere problemi che
sono evidenti anche all’ultimo degli iscritti al Pd».
Quali problemi?
«Mentre sull’azione di governo c’è
la percezione che, dopo anni, finalmente qualcosa si stia muovendo
nel verso giusto, nel partito il momento di suo massimo consenso
coincide con il momento di massimo smarrimento».
Cosa intende dire?
«Il Pd non è più di nessuno: non di
chi ha sostenuto Renzi, che vede candidati e dirigenti in totale
continuità col passato, con la “ditta” tanto criticata, e non di
chi ha contrastato Renzi e ritiene che la sua gestione del partito
non abbia niente a che fare con la sinistra. L’identità del Pd è
fortemente minata».
Addirittura?
«Le candidature messe in campo dal Pd
sotto la nostra gestione – dalla Calabria alla Puglia alla Toscana
– non hanno risentito dell’innovazione che ci si aspettava: si
sarebbe dovuto valorizzare qualche bravo sindaco in più e qualche
dirigente in meno».
Insomma, la rottamazione nei territori
è fallita.
«Rottamazione è un termine che non mi
è mai piaciuto molto. Diciamo che sta riuscendo la rottamazione
delle prassi sbagliate, come la “supplentite” nella scuola,
mentre sulla classe dirigente abbiamo l’onere di offrirne una al
Paese che ancora non si vede prendere forma».
Di chi è la responsabilità se non del
segretario Renzi?
«Se c’è una responsabilità sua è
che il governo del partito dev’essere più condiviso. Guerini e la
Serracchiani (i vicesegretari, ndr.) stanno facendo un lavoro
straordinario, ma la forza di Renzi spesso si traduce nell’attesa
che l’oracolo si esprima. È ora di dirigenti nuovi che governino i
processi, di una segreteria che sia un costante riferimento per i
territori e intervenga sulle questioni con criteri chiari e senza
ambiguità».
È fiducioso che avvenga?
«Non credo che la forza propulsiva di
Renzi sia esaurita: certo, se a Napoli il candidato sarà Bassolino,
sarà il funerale della rottamazione».
A proposito di Napoli: secondo lei, che
si ritirò dalle primarie per un’indagine (finita poi con
un’assoluzione), De Luca si dovrebbe dimettere?
«Fossi in lui non mi sarei mai
candidato, ma discutere oggi di dimissioni mi fa sorridere, la
situazione non mi sembra molto diversa da quando si è candidato. Con
De Luca abbiamo vinto in Campania, ma quella vicenda rischia di
essere perdente nelle altre 19 regioni, dove quest’ambiguità non è
compresa».
Ma qual è il criterio nel Pd quando si
è sotto indagine? Si deve fare un passo indietro o no?
«Il punto fermo è la Costituzione: si
può impedire a qualcuno di candidarsi dinanzi a una condanna
definitiva. Il resto attiene a una sensibilità personale, che il Pd
deve avere però come patrimonio condiviso: non si mette in
difficoltà il partito. Il Pd sarà maturo quando non si affiderà
alla sensibilità dei singoli, ma a una regola non scritta per cui le
istituzioni vengono prima dei percorsi personali».
Lei ha chiesto in passato a Renzi anche
di fare chiarezza sul ruolo di Verdini al fianco del Pd...
«Chiedo ci sia una distinzione chiara
tra le esigenze della legislatura e delle riforme, e quelle del
progetto politico, che non può essere snaturato da tracce di
berlusconismo».
C’è stata questa parola di
chiarezza?
«Io non ho sentito nulla, se non il
fastidio per le mie parole: e questo, da chi stimo e apprezzo come
Renzi, mi dispiace».
Scusi, ma lei è ancora renziano?
«Più di prima: l’ultima proposta di
legge che ho presentato, per abolire i vitalizi dei parlamentari e
passare al ricalcolo contributivo per tutti, è quanto di più
renziano si possa produrre».
Andrà alla Leopolda anche quest’anno?
«Ci rifletterò, lì sono sempre a
casa».
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