Lia Quartapelle
22 novembre 2015
Sviluppiamo strumenti efficaci di
politica estera per evitare che i paesi del Medio Oriente e Nord
Africa sprofondino nel caos.
Per capire più a fondo l’origine e i
caratteri del terrore che ha colpito il cuore dell’Occidente a
Parigi, dobbiamo guardare ai confini di quella porzione di mondo che
ci è più familiare. Confini geopolitici che è difficile scorgere
se continuiamo a dividere il mondo come si è fatto per anni,
evitando pigramente di comprendere il tanto che è mutato; perché,
come ha scritto Claudio Magris: “I confini vengono spostati,
spariscono e improvvisamente ricompaiono: con essi si trasforma in
maniera errabonda il concetto di ciò che chiamiamo Heimat, patria”.
Per comprendere i contorni nuovi
dell’Occidente e rispondere con più consapevolezza e
determinazione all’attacco subito, dunque, è proprio ai luoghi di
margine che dobbiamo volgere il nostro sguardo. Per questo
sbaglieremmo a sentire l’attentato che c’è stato in Mali
distinto e distante da noi.
Il Mali come il Libano, la Tunisia, il
Kenya; ci sono nazioni che vengono colpite perché esse sono in
transizione, tra molte contraddizioni, verso sistemi democratici,
plurali, in cui possono convivere sciiti e sunniti, cristiani e
musulmani, e che possono dimostrare la validità e applicabilità dei
concetti di libertà, democrazia, diritti umani, sistemi economici
aperti anche fuori dal campo occidentale.
Gli attentati di Bamako e Beirut ci
dicono che una delle linee del fronte contro il terrorismo islamista
passa da qui; dalla capacità che hanno e sviluppano nazioni più
fragili, di compiere fino in fondo la loro transizione. E dalla
capacità del mondo libero e democratico di aiutarli, creando un
argine al terrorismo, sostenendo proprio gli esperimenti di
democrazia e le istituzioni dei paesi più esposti. Consapevoli che
la democrazia, come ammoniva Günter Grass, ha il passo della lumaca.
In questi giorni si discute molto
dell’opportunità di impiegare o meno lo strumento militare in
Siria, contro Daesh. Avere una strategia di politica estera non
significa però solo sapere quando impiegare lo strumento militare.
La prima sfida in questo senso riguarda la possibilità di ripensare
al nesso tra cooperazione internazionale e sicurezza.
Tradizionalmente, i programmi di cooperazione allo sviluppo hanno
come obiettivo la lotta contro la povertà e il miglioramento delle
condizioni di vita dei beneficiari, ed è un tabù pensare di
destinare queste risorse per programmi di sicurezza.
Sappiamo però che senza sicurezza non
può esserci sviluppo e che solo istituzioni endogene stabili e
legittime garantiscono la sicurezza.
Lo vediamo anche in Mali: contro gli
attentatori le forze speciali Usa e Francia hanno dato un contributo
militare decisivo, ma se si dà l’idea che le istituzioni nazionali
siano commissariate nel monopolio della violenza non sarà possibile
sconfiggere né il terrorismo islamista né pacificare le ribellioni
tuareg che vi hanno fatto da retroterra.
Non sarà semplice creare
programmi di cooperazione nel settore dell’ordine pubblico, perché
va sovvertito un forte pregiudizio che vede gli operatori della
cooperazione come ortogonali al settore della sicurezza; perché
spesso gli aiuti, attraverso la creazione di strutture parallele,
indeboliscono le istituzioni formali di un paese (in Mali, ad esempio
il 13% del Pil nazionale viene dai donatori internazionali), e perché
in questi paesi esperimenti di questo tipo hanno fallito
precedentemente (l’impreparazione dell’esercito maliano e poi il
colpo di stato del 2012 hanno colto di sorpresa soprattutto gli Stati
Uniti che avevano un programma di cooperazione nell’ambito del
controterrorismo con il paese dal 2005).
Ma questo terreno è decisivo. In
paesi come la Tunisia, il Libano o la Giordania, invece, dove la
minaccia terroristica sta colpendo soprattutto le economie (il 7% del
Pil tunisino deriva dal turismo; le esportazioni dal Libano alla
Siria si sono ridotte di un quarto in questi anni di guerra secondo
le stime della Banca mondiale) serve ripensare a strumenti di
cooperazione economica e di incentivazione degli investimenti che
stiano a metà strada tra i tradizionali aiuti allo sviluppo e le
politiche commerciali che dovrebbero aprire ai nostri prodotti i
mercati in quella regione.
Si tratta di immaginare da un lato
strumenti pubblici che assicurino le imprese dei paesi occidentali
contro il rischio instabilità; di pensare a programmi di
cancellazione del debito per questi che sono paesi a medio reddito (e
quindi non hanno beneficiato delle iniziative di remissione del
debito); e infine di sviluppare programmi di graduale ma costante
apertura dei nostri mercati, che aiutino a rafforzare quei settori
produttivi che creano occupazione.
Infine, serve rivedere il modello di
cooperazione politica con i paesi del Medio Oriente e del Nord
Africa. Prima delle primavere arabe, pensavamo che le autocrazie
garantissero la stabilità. Il crollo di questi regimi ci ha
restituito la fragilità della nostra intuizione. Gli esperimenti
democratici dopo le primavere arabe dell’Egitto o della Libia,
peraltro falliti, non hanno impedito il moltiplicarsi di tensioni e
conflitti. Fa eccezione solo la Tunisia.
Occorre quindi trovare capacità di
dialogo per influenzare a più livelli (istituzionale, civile,
mediatico) le transizioni dei paesi del Mediterraneo verso sistemi
democratici. L’attribuzione del premio Nobel per la pace al
Quartetto per la Tunisia certifica che le transizioni di successo
sono tali solo se coinvolgono la società tutta. Reimpiantare su
presupposti diversi il dialogo significa, ad esempio, dissuadere
l’Egitto, che è un alleato cruciale, dalle azioni di forte
repressione che perpetra, perché rischiano di contribuire alla
destabilizzazione interna. Ugualmente, nel dialogo con un’altra
potenza regionale come la Turchia, dobbiamo essere in grado di non
accettare lo scambio tra il non vedere i gravi episodi di violenza
interna durante la campagna elettorale e la disponibilità a gestire
due milioni e mezzo di profughi siriani.
Solo se riusciremo a sviluppare
strumenti efficaci di politica estera saremo in grado di mantenere
questi paesi dentro un argine di ordine internazionale, evitando che
sprofondino nel caos e si trasformino in un’altra Libia o in
un’altra Somalia.
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