Olivier Roy,
27 novembre 2015
Le Monde
La Francia è in guerra! Sì, ma
contro chi o cosa? Il gruppo Stato islamico (Is) non manda cittadini
siriani in Francia per compiere attentati e convincere il governo di
Parigi a interrompere i bombardamenti. No, l’Is attinge a un
grande bacino di giovani francesi radicalizzati, che a prescindere
dalla situazione in Medio Oriente sono già in cerca di una causa,
di un’etichetta, di una grande narrazione su cui apporre la firma
sanguinaria della loro rivolta personale. Per questo l’eventuale
distruzione dell’Is non basterà a fermare la rivolta.
La collaborazione tra questi giovani e
l’Is è semplicemente una questione di opportunità. Gli stessi
giovani si erano legati ad Al Qaeda e prima ancora al Gia algerino,
o avevano seguito un nomadismo jihadista individuale tra
Afghanistan, Bosnia e Cecenia. Domani combatteranno per un’altra
bandiera, a meno che la morte in battaglia, la vecchiaia o la
disillusione non svuotino i loro ranghi, un po’ come è accaduto
all’estrema sinistra degli anni settanta.
Il dato fondamentale è che non esiste
una terza, quarta o ennesima generazione di jihadisti. Dal 1996
siamo alle prese con la stabile radicalizzazione di due categorie di
giovani: i francesi di seconda generazione e i convertiti. Il
problema fondamentale per la Francia non è il califfato siriano,
che presto o tardi evaporerà come un miraggio, ma la rivolta dei
giovani. Per questo dobbiamo capire se questi ragazzi sono
l’avanguardia di una guerra imminente o solo le scorie di un
borborigmo della storia.
Cos’hanno in comune i ragazzi della
seconda generazione e i convertiti? La loro è prima di tutto una
rivolta generazionale
Oggi due letture dominano la scena,
indirizzando i dibattiti televisivi e le pagine dei giornali: la
spiegazione culturalista e quella terzomondista. La prima insiste
sulla ricorrente guerra di civiltà: la rivolta dei ragazzi
musulmani dimostra che l’islam non può integrarsi, almeno fino a
quando una riforma teologica non cancellerà dal Corano l’invito
al jihad.
La seconda insiste sulla sofferenza
postcoloniale, sull’identificazione dei giovani con la causa
palestinese, sul loro rifiuto degli interventi occidentali in Medio
Oriente e sulla loro esclusione da una società francese razzista e
islamofoba, e da lì il solito ritornello: finché non risolveremo
il conflitto israelo-palestiense la rivolta andrà avanti. Ma
entrambe le spiegazioni presentano lo stesso problema. Se le cause
della radicalizzazione sono strutturali, allora perché il fenomeno
colpisce solo una parte minima e molto circoscritta dei musulmani
francesi?
Quasi tutti i jihadisti francesi
appartengono a due categorie: i francesi di seconda generazione nati
in Francia o arrivati quando erano bambini e i convertiti, che già
nel 1990 costituivano il 25 per cento degli estremisti e che
continuano ad aumentare. Questo significa che tra gli estremisti non
esiste una prima generazione, ma soprattutto non esiste una terza
generazione. Gli immigrati marocchini degli anni settanta sono già
diventati nonni, ma non troviamo i loro nipoti tra i terroristi.
Perché i convertiti, che non sono mai
stati vittime del razzismo, vogliono improvvisamente vendicare
l’umiliazione subita dai musulmani? Teniamo presente che molti
convertiti vengono dalle campagne francesi e hanno pochi motivi per
identificarsi con una comunità musulmana che per loro ha
un’esistenza quasi esclusivamente virtuale. In altre parole,
questa non è la rivolta dell’islam o dei musulmani, ma un
problema che riguarda due categorie di giovani. Non è una
radicalizzazione dell’islam, ma un’islamizzazione del
radicalismo.
Cos’hanno in comune i ragazzi della
seconda generazione e i convertiti? La loro è prima di tutto una
rivolta generazionale. Entrambe le categorie hanno rotto i ponti con
i loro genitori e con tutto ciò che rappresentano in termini di
cultura e religione. I francesi di seconda generazione non
aderiscono all’islam dei loro genitori. Sono occidentalizzati e
parlano francese perfettamente. Hanno condiviso la cultura giovanile
della loro generazione, hanno bevuto alcol, fumato hashish,
rimorchiato ragazze. Molti di loro sono stati almeno una volta in
prigione, e poi un bel mattino si sono (ri)convertiti scegliendo
l’islam salafita, ovvero un islam che rifiuta il concetto di
cultura, un islam della regola che gli permette di ricostruirsi da
sé. Non vogliono la cultura dei genitori e nemmeno una cultura
“occidentale”, che ormai è il simbolo del loro odio verso se
stessi.
La chiave della rivolta è la mancata
trasmissione di una religione culturalmente integrata. Questo
problema non riguarda né i francesi di prima generazione, portatori
della cultura islamica del paese d’origine ma incapaci di
trasmetterla ai figli, né quelli di terza generazione, che parlano
francese con i genitori e grazie a loro hanno una grande familiarità
con le modalità di espressione dell’islam nella società
francese. Se all’interno dei movimenti radicali troviamo meno
turchi e più magrebini è perché per i primi la transizione è
stata assicurata dallo stato turco, che ha garantito la trasmissione
culturale inviando istitutori e imam.
La violenza a cui aderiscono è una
violenza moderna. Uccidono come gli autori delle stragi statunitensi
e come Anders Breivik, a sangue freddo
I giovani convertiti, per definizione,
aderiscono alla religione “pura”. Il compromesso culturale non
gli interessa (a differenza delle vecchie generazioni che si
convertivano al sufismo) e si uniscono alla seconda generazione
nell’adesione a un “islam di rottura”, una rottura
generazionale, culturale e politica. Non serve a niente offrirgli un
islam moderato, perché è precisamente il radicalismo ad attirarli.
Il salafismo non è solo una predicazione finanziata dall’Arabia
Saudita, ma il prodotto più adatto a questi ragazzi alla deriva.
Improvvisamente – ed è questa la
grande differenza con il caso dei giovani palestinesi che
partecipano alle diverse forme di intifada – i genitori musulmani
degli estremisti francesi non capiscono più la rivolta dei loro
figli. Come i genitori dei convertiti, anche loro cercano sempre più
spesso di frenare la radicalizzazione dei figli: chiamano la
polizia, vanno in Turchia a recuperarli, temono che i fratelli
maggiori possano trascinare i più piccoli. In questo senso, lungi
dall’essere il simbolo di una radicalizzazione della popolazione
musulmana, i jihadisti creano e alimentano una frattura
generazionale, spaccando in due le famiglie.
I jihadisti finiscono così emarginati
anche dalle comunità musulmane. È significativo che gli
attentatori non abbiamo quasi mai un passato religioso. Gli articoli
di giornale che raccontano la loro storia sono tutti incredibilmente
simili. I conoscenti dei terroristi si dicono sempre stupiti: “Non
capiamo, era una persona gentile (o un piccolo delinquente), non era
un musulmano praticante, beveva, fumava spinelli e frequentava le
ragazze. Poi è cambiato, si è lasciato crescere la barba e ha
cominciato a parlare di religione”.
È inutile parlare della taqiyya
(dissimulazione) perché una volta “rinati” questi ragazzi non
si nascondono e manifestano le loro nuove convinzioni anche su
Facebook. Esibiscono la loro nuova personalità onnipotente, la loro
voglia di rivincita, l’esaltazione che deriva dalla volontà di
uccidere e la fascinazione per la propria morte. La violenza a cui
aderiscono è una violenza moderna. Uccidono come gli autori delle
stragi statunitensi e come Anders Breivik, a sangue freddo. In loro
il nichilismo e l’orgoglio sono profondamente interconnessi.
Questo individualismo forsennato si
ritrova nel loro isolamento rispetto alle comunità musulmane. Pochi
frequentano una moschea e i loro imam sono spesso autoproclamati. La
loro radicalizzazione si sviluppa attorno a immagini di eroi, alla
violenza e alla morte, non alla sharia o all’utopia. In Siria
vanno solo per combattere, nessuno di loro si integra o si interessa
alla società civile. Sono più nichilisti che utopisti.
Alcuni sono passati dal Tabligh
(società di predicazione musulmana fondamentalista), ma nessuno ha
mai frequentato i Fratelli musulmani o militato in un movimento
politico filopalestinese. Nessuno si è impegnato nella sua comunità
consegnando i pasti alla fine del Ramadan o pregando nelle moschee e
nelle strade. Nessuno ha condotto studi religiosi approfonditi.
Nessuno si interessa di teologia, nemmeno alla natura del jihad o
dello Stato islamico.
I terroristi non sono l’espressione
di una radicalizzazione della popolazione musulmana, ma il prodotto
di una rivolta generazionale
Tutti si radicalizzano insieme a un
piccolo gruppo di “compagni” che hanno incontrato in un luogo
particolare (quartiere, prigione, società sportiva), con cui
ricreano una famiglia e ritrovano un senso di fratellanza. E qui
emerge uno schema molto importante che ancora nessuno ha studiato:
questa fratellanza è spesso biologica. Tra gli attentatori troviamo
regolarmente coppie di fratelli: i fratelli Kouachi e Abdeslam,
Abdelhamid Abaaoud che rapisce suo fratello minore, i fratelli Clain
che si convertono insieme, i fratelli Tsarnaev che organizzano
l’attentato di Boston dell’aprile 2013.
Come se radicalizzare i fratelli (e le
sorelle) fosse un modo per sottolineare la dimensione generazionale
e la rottura con i genitori. La cellula si sforza di creare legami
affettivi tra i suoi componenti, che spesso sposano la sorella di un
compagno d’armi. Le cellule jihadiste non somigliano a quelle dei
movimenti radicali d’ispirazione marxista o nazionalista (Fln
algerino, Ira o Eta): essendo fondate su legami personali, sono più
impermeabili all’infiltrazione.
I terroristi non sono l’espressione
di una radicalizzazione della popolazione musulmana, ma il prodotto
di una rivolta generazionale che coinvolge una categoria precisa di
giovani. Ma perché scelgono l’islam? Per i ragazzi della seconda
generazione il motivo è evidente: rielaborano un’identità che ai
loro occhi è stata compromessa dai genitori e si convincono di
essere “più musulmani dei musulmani”, in particolare dei padri.
Le energie che dedicano ai vani tentativi di riconvertire i genitori
sono eloquenti e al tempo stesso mostrano fino che punto si trovano
ormai su un altro pianeta. Quanto ai convertiti, scelgono l’islam
perché sul mercato della rivolta radicale non c’è altro. Entrare
nell’Is significa avere la certezza di poter seminare il terrore.
Nessun commento:
Posta un commento