Corriere della Sera - 04 novembre 2015
Sergio Rizzo
Fra Matteo Renzi e Sergio Chiamparino
non sappiamo chi riderà di più. Una cosa però è certa: il
divertimento sarà assicurato. Le Regioni lamentano di essere da anni
sotto pressione, così da rischiare, denuncia il dimissionario
presidente della loro Conferenza, la stessa sopravvivenza. I tagli,
affermano, sono insostenibili al punto che in certi casi non sarebbe
possibile garantire servizi sanitari essenziali. Roba da far venire i
brividi. La verità è che dal 2010, anno in cui la spesa per la
sanità aveva toccato il tetto di 117,2 miliardi, nel 2016 lo
stanziamento pubblico si fermerà a quota 111. Meno 5,3%: calo che
però in termini reali, tenendo conto dell’inflazione, arriva
all’11,6%.
Raccontato così, i brividi vengono
eccome. Ma la prospettiva cambia decisamente se allarghiamo
l’orizzonte temporale del confronto. Nel 2000 la spesa si attestò
a 71,2 miliardi: il che significa che nel 2016 il costo reale per il
mantenimento del sistema sanitario risulterà del 18,8 per cento
superiore a quello di una quindicina d’anni prima. Quando l’età
media della popolazione era di sicuro inferiore, ma probabilmente non
lo era la qualità del servizio, che del resto disponeva di un numero
di posti letto ben maggiore. Il fatto è che la spesa sanitaria
gestita dalle regioni ha registrato nei primi dieci anni di questo
secolo una crescita forsennata, non soltanto al confronto di
un’inflazione inferiore di quasi 19 punti, ma soprattutto del
crollo della ricchezza nazionale. Il Fondo monetario stima per il
prodotto interno lordo pro capite reale un calo del 6,1% fra il 2000
e il 2016, con un gap di quindi ben 25 punti rispetto alla dinamica
dei costi della sanità. Sappiamo che le statistiche internazionali
non considerano il dato italiano fuori linea rispetto alla media
dell’Unione europea. Ma questi numeri non fanno sospettare se non
altro sprechi e inefficienze, e non sono forse sufficienti per una
riflessione seria, soprattutto considerando come in Italia esistano
venti sanità con differenze abissali?
Per non parlare poi di altre voci della
spesa regionale. Tornato alla sua prima vita di professore
universitario a Bologna, l’ex deputato del Pd Salvatore Vassallo si
è messo a lavorare a un libro bianco sulla governance delle regioni.
Lo ha fatto partendo da uno degli enti territoriali considerati in
assoluto più efficienti, l’Emilia Romagna. E nonostante questo il
lavoro del suo staff ha fatto emergere una serie di «patologie
burocratiche». Per esempio la gestione della dotazione informatica,
delle sedi (in alcune realtà numerosissime e costosissime) e delle
società partecipate: sulle quali aveva acceso invano un riflettore
anche l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli.
Inutile aggiungere, come fa Vassallo, che certe patologie possono
tranquillamente essere estese, in modo maggiore o minore, a tutte le
altre Regioni.
Alle società partecipate la Corte dei
conti ha dedicato nello scorso mese di luglio un lungo e dettagliato
rapporto, ricordando che recentemente le sezioni locali hanno
formulato pressoché dappertutto una serie impressionante di rilievi
alla loro gestione. Si va dalle perdite, in alcuni casi
rilevantissime come nella Regione Campania, dove la gestione delle
società di trasporto pubblico si è rivelata un bagno di sangue con
un buco di 100 milioni nel solo 2010. Per arrivare a «carenze
nell’esercizio delle verifiche». Fino all’aumento
dell’indebitamento regionale finalizzato a tappare i buchi delle
società. E qui saltano fuori casi spettacolari, come quello della
ricapitalizzazione del Casinò de la Vallée di Saint Vincent costata
alla Regione Valle D’Aosta una cinquantina di milioni: 390 euro per
ogni valdostano. A dimostrazione del contributo formidabile che può
arrivare dalle partecipate, la cui utilità è spesso assai
discutibile, al rigonfiamento dei bilanci regionali. Dove il grasso,
a dispetto delle grida di dolore che si levano davanti a ogni
taglietto, non manca certo.
Qualche mese fa la Confcommercio ha
deciso di calcolare quanto ci costano le inefficienze nella gestione
di quegli enti territoriali partendo dal presupposto che tutte le
Regioni funzionassero come la Lombardia. Ne è scaturito un conto
stellare di 82,3 miliardi, dei quali oltre metà (42 miliardi)
attribuibili a sole quattro regioni: nell’ordine, Sicilia (13,8),
Lazio (11,1), Campania (10,7) e Calabria (6,4). E il bello è che fra
le inefficienze non sono nemmeno comprese quelle che per giunta ci
fanno perdere un sacco di soldi europei. Al 31 maggio del 2015,
secondo il sito Opencoesione, avevamo speso 34,3 miliardi degli
importi disponibili per i programmi 2007-2013: nemmeno il 74 per
cento del totale. E se per 23 di quei programmi il livello previsto
era stato oltrepassato, per altri 22 non si era raggiunto nemmeno il
minimo sindacale nell’impiego delle risorse.
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