La verifica diretta della leadership da parte degli elettori evita il distacco dalla società
Dire che la partecipazione è una grande cosa significa
attribuire saggezza a chi ha votato. E questo deve valere non solo per
il fatto di essere andati a votare, ma per quello che hanno votato. In
questo riconoscimento sta il ripensamento che la cultura politica uscita
battuta in malo modo dalla vittoria di Matteo Renzi deve realizzare, se
non vuole condannarsi a quella marginalità alla quale sono state
relegate le varie diaspore a sinistra degli ultimi trent’anni.
In quella cultura, negli anni più recenti, è avvenuto un grande
cambiamento. Un tempo si pensava che capire la gente fosse un dovere,
una necessità esistenziale. Certo non si pensava di affidare alle
opinioni degli elettori la scelta della linea o del leader, ma si sapeva
che senza quella sintonia non ci poteva essere alcuna speranza di
successo (se la parola “vincere” spaventa).
Si diceva: se le avanguardie perdono contatto con le masse diventano
minoranze. Oggi gli epigoni di quella cultura politica (non solo gli ex
comunisti ma tutti i difensori delle prerogative delle burocrazie di
partito come molti ex popolari) di fatto negano la necessità di cercare
quella sintonia, anzi ne fanno un punto di forza.
Sembra quasi che essere in sintonia con le aspirazioni delle persone,
il loro sentire, sia colpa grave, un cedimento, a volte definito con
disprezzo americanizzazione altre berlusconismo o continuità con esso.
Invece, ripartire dal sentire delle persone, significa portare a
compimento in modo coerente la scelta di definirsi democratici, di
considerare l’essere democratici l’appartenere a un insieme più ampio e
inclusivo dell’essere di sinistra.
I democratici devono basare il proprio desiderio di accrescere il
consenso sul riconoscimento della legittimità delle opinioni degli
altri, sul desiderio di diventare i più efficaci interpreti delle loro
legittime aspirazioni. Nel consenso popolare i democratici devono anche
saper vedere la maggiore realizzabilità (quindi efficacia) di una
proposta. Alternative alla conquista del maggior numero di consensi non
ce ne sono.
Le primarie non hanno solo affermato in modo indiscutibile un leader
che si è presentato in modo inequivocabile e non ambiguo. Esse
sanciscono definitivamente il distacco tra il partito (dirigenti e
iscritti) da un lato e gli elettori dall’altro: non li conoscono, non li
capiscono, un po’ li temono per molti sono i barbari alle porte di
Roma.
E dopo una tale dimostrazione di lontananza dai propri follower come si può pensare che siano i soli iscritti a dare forma alla capacità di rappresentare?
E dopo una tale dimostrazione di lontananza dai propri follower come si può pensare che siano i soli iscritti a dare forma alla capacità di rappresentare?
Si tratta ora di “ingegnerizzare” – far diventare organizzazione e
pratica quotidiana – l’idea che la verifica diretta della leadership da
parte degli elettori permette di evitare il distacco dalla società. Quel
distacco dal sentire comune confermato dalle tante incomprensioni
verificatesi negli anni recenti che pare essere la malattia delle élite
politiche del momento: dalla Cei che dice a Monti di candidarsi perché
il suo appoggio porterà molti consensi, ai partiti e ai giornalisti che
non “capiscono” Grillo, da Berlusconi che non riesce a metabolizzare il
distacco di Alfano, per finire con Bersani che non “capisce” i suoi
parlamentari nelle votazioni per la presidenza della repubblica,
arrivando alla meraviglia per l’affluenza alle primarie.
Quel distacco che Matteo Renzi sembra saper diminuire con la sua
capacità di parlare di politica partendo dalla vita di tutti i giorni,
riconnettendo la sinistra (quella in carne ed ossa che si oppone allo
stato di cose presente) con i concetti di cambiamento, realizzazione di
sé, speranza e umanità.
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