Marwan Barghouti è detenuto dal 2002 in un carcere israeliano. Un
comitato internazionale ne chiede la liberazione. Raccoglie le simpatie
dei palestinesi d'ogni tendenza e ha il carisma necessario per un vero
negoziato di pace
Le parole più belle in onore di Nelson Mandela, le più sentite,
le più significative, sono state scritte da una cella di detenzione
simile a quella dove per ventisette anni fu prigioniero Madiba. Sono di
Marwan Barghouti, il “Mandela palestinese”, un appellativo che l’associa
al leader appena scomparso, non solo per la lunga e dura detenzione
“politica” ma anche per la comune e rara virtù di saper parlare alle
diverse anime e tendenze che vivono nel proprio popolo e per la
riconosciuta capacità di leadership, per la forza carismatica, per
l’intelligenza nel sapere usare la leva della forza come quella del
dialogo. Barghouti ha trascorso, complessivamente, più di diciotto anni
nelle carceri israeliane, di cui oltre undici da quel 15 aprile 2002,
quando fu catturato a Ramallah nel corso delle operazioni militari
denominate Scudo difensivo. È accusato di cinque omicidi e sconta cinque
ergastoli.
«Nel corso di tutti gli anni della mia lotta – scrive Barghouti dalla prigione di Hadarim –
ho avuto l’occasione più volte di pensare a te, caro Nelson Mandela. E
ancor di più dopo il mio arresto nel 2002. Penso a un uomo che ha
trascorso ventisette anni in una cella, cercando di mostrare che la
libertà è in lui prima che diventi una realtà che il suo popolo saprà
cogliere. Penso alla sua capacità di sfidare l’oppressione e
l’apartheid, ma anche di respingere l’odio e mettere la giustizia al di
sopra della vendetta».
Quando Marwan Barghouti fu catturato dai militari israeliani, Yasser
Arafat era ancora vivo, e al capo carismatico e alla leadership
palestinese di allora il giovane dirigente di al Fatah non risparmiava
critiche («Dovrebbero lasciare i loro posti avendo fallito nei loro
ruoli e responsabilità»). Era lui, già allora, alla testa della seconda
Intifada, il possibile ricambio al vertice palestinese, per sostituire
una dirigenza invecchiata, logorata e ormai priva di credibilità agli
occhi stessi della propria gente. In Barghouti gli israeliani avrebbero
trovato un negoziatore duro ma aperto, intransigente ma non
inflessibile. In un editoriale, l’anno scorso, il quotidiano Haaretz
esortava la leadership israeliana ad ascoltare Barghouti, affermando
che egli è il leader più autentico che Fatah abbia prodotto e può
guidare il suo popolo verso un accordo».
La sua prigionia l’ha escluso dai giochi e in questi anni la
situazione è notevolmente peggiorata, sia all’interno del mondo
palestinese sia sul fronte palestino-israeliano (per non dire
dell’involuzione della politica israeliana). Ma anche per questo,
Barghouti non è uscito di scena, pur essendo recluso, ma è anzi
diventato un’icona. E oggi potrebbe rientrare nei giochi, diventando
l’artefice di un processo politico e diplomatico straordinario, come
accadde con Mandela.
È rispettato e sostenuto non solo dentro al Fatah, di cui è membro,
ma anche dentro Hamas e Jihad islamico. 53 anni, oratore di talento,
fluente nella lingua ebraica, ha definito il processo di pace «una
necessità», Barghouti è l’unico in grado di prendere in mano le redini
del movimento palestinese succedendo a Abu Mazen, presidente dell’Anp,
del quale potrebbe diventare vice.
«Sarebbe un’ottima soluzione, ridarebbe credibilità alla leadership
dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e del movimento Fatah.
Aprirebbe la strada a una possibile successione ai vertici dell’Anp e
dell’Olp, a favore di un esponente palestinese popolare e molto
stimato». Così ha risposto l’analista palestinese Ghassan Khatib a
Michele Giorgio del manifesto a proposito delle voci – lo
scorso ottobre – che vorrebbero diversi alti dirigenti di Fatah
impegnati a esortare il presidente dell’Anp Abu Mazen a nominare suo
vice Barghouti. «Una mossa – sostiene ancora Giorgio – che, crede
qualcuno, potrebbe favorire la liberazione di Barghouti, ritenuto da
molti in grado di rilanciare le quotazioni di Fatah fra i palestinesi».
Per la sua liberazione – e con lui dei detenuti palestinesi nelle
carceri israeliane – è in corso una campagna internazionale. Iniziata
simbolicamente il 27 ottobre scorso proprio nella cella di Robben
Island, dove fu detenuto Mandela, si basa su una dichiarazione
firmata (primi aderenti) dai premi Nobel, il vescovo Desmond Tutu, Jody
Williams, Adolfo Perez Esquivel, Josè Ramos Horta, Maireread Maguire e
poi Angela Davis, Joan Burton, Lena Hjelm Wallen, Christiane Hessel (a
nome anche di Stephen Hessel (tra gli estensori della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo). Alla presenza di Fadwa Barghouti,
Ahmed Qatrhada, Majed Bamiah, Neesham Bolton, Qaddura Fares, Francis
Sahar, Ahmed El Azzam, ex-prigionieri sudafricani, rappresentanti
palestinesi ed attivisti sudafricani), Luisa Morgantini (che si adopera
per la diffusione dell’appello in Italia).
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