La Stampa 20 dicembre 2013
I primi giorni di Matteo Renzi a Roma - dopo l’elezione
plebiscitaria a leader del Pd, sull’onda di primarie che hanno coinvolto
quasi tre milioni di cittadini - ricordano il famoso racconto di Ennio
Flaiano, «Un marziano a Roma». Atterrato all’improvviso a Villa
Borghese, il marziano veniva ricevuto al Quirinale e in Vaticano,
coinvolto in faticose kermesse di incontri politico-cultural-mondani, e
addirittura commercializzato, con visite a pagamento alla sua astronave.
Ma alla fine, su di lui, scendeva il velo
dell’indifferenza, la vita nella Capitale riprendeva il suo andazzo, e
il povero marziano cominciava a pensare di tornarsene su Marte.
L’accoglienza riservata al giovane segretario del maggior
partito italiano, in effetti, ricorda abbastanza quella fatta al
protagonista dell’apologo. Si guarda a come va vestito, ai suoi modi
spicci, chi saluta e chi no. E già si mormora sulla dosata permanenza a
Roma e sulla manifesta insofferenza alle liturgie istituzionali: tanto
che quasi nasceva un caso lunedì pomeriggio, quando Renzi ha lasciato il
Quirinale, appena finito il discorso di auguri del Presidente della
Repubblica, senza neppure rilasciare una dichiarazione, e solo una
successiva telefonata tra i due, resa pubblica proprio per fugare voci
maliziose, ha impedito che si continuasse ad almanaccare sui loro
difficili rapporti.
Agli occhi di una città millenaria che ha sempre digerito
tutti i nuovi arrivati, dai barbari ai leghisti, e con qualche
difficoltà in più sta provando a metabolizzare anche i grillini, Renzi
insomma si presenta come un uomo che resiste all’integrazione, che si
vanta di «non sopportare i buffet», e si muove a bella posta senza il
minimo rispetto per il contesto in cui ha assunto repentinamente un
ruolo chiave. Che poi il nuovo leader possa pure divertirsi, per restare
nella metafora, a fare il marziano, sono in molti a sospettarlo, a
cominciare dalla ex nomenklatura del suo partito, da lui cancellata di
colpo. Ma sul suo progetto, ormai noto da anni e ripetuto in varie
lingue negli ultimi mesi, almeno all’apparenza nessuno s’interroga. Come
fosse un’utopia irrealizzabile in un paese con le caratteristiche
dell’Italia, a cui il segretario-marziano presto o tardi dovrà
rinunciare.
Naturalmente Renzi non la pensa affatto così. È un uomo che
punta alla guida del governo, considera legittimo il suo obiettivo,
dichiarato da tempo e che oggi non si può far finta di ignorare. Chi gli
è stato vicino dall’inizio della sua carriera politica spiega che il
sindaco ha sempre avuto chiaro il percorso che doveva portarlo da
Firenze a Palazzo Chigi, è convinto di aver rispettato tutte le regole e
non aver sbagliato una mossa fin qui. Il milione e ottocentomila voti
raccolti l’8 dicembre, le primarie che sarebbe pronto a ripetere, se il
partito glielo chiedesse e ci fosse uno sfidante, a suo giudizio
rappresentano la legittimazione popolare e la regola per competere. È su
questa base che Renzi vuol essere riconosciuto dall’insieme del sistema
politico, anche da chi lo snobbava, considerandolo al massimo una
tempesta passeggera.
Un’impostazione del genere, però, si porta dietro alcune
conseguenze e qualche inevitabile conflitto. Se ciò che fa la differenza
è la spinta dal basso, se ne ricava che Letta e Alfano, i dioscuri e il
loro governo, per Renzi sono più o meno abusivi. Passi per una fase
transitoria, purché ci siano risultati visibili. Ma al più presto, per
il segretario del Pd, si deve tornare alla normalità democratica.
Inoltre, se potevano avere una giustificazione le larghe intese,
soluzione d’emergenza comune a tutti i paesi europei in cui dalle urne
non è uscita una maggioranza, le piccole, cioè l’accordo tra il Pd e
quello che spregiativamente Renzi si ostina a chiamare «il partito di
Giovanardi», ai suoi occhi non ne hanno alcuna. Il segretario non riesce
a immaginare, esaurita la legge di stabilità, cosa potrà fare il
governo da gennaio in avanti. Teme un «balbettamento» senza sbocchi
pratici. E intanto preme per una rapida approvazione parlamentare della
legge elettorale, costruita trattando a tutto campo anche con Berlusconi
e Grillo. Fatta quella, senza urgenza ma anche con una scadenza chiara,
legata alla (in)capacità dell’esecutivo di fare le cose, non dovrebbero
più esserci ostacoli per tornare a votare: ovviamente per le politiche,
dato che Renzi non ama particolarmente la prospettiva di un voto per le
europee, dopo una forsennata campagna anti-euro di tutte le
opposizioni, a cui fatalmente il Pd non potrebbe unirsi, dovendone
tuttavia sopportare gli effetti.
Resta da dire del rapporto con Napolitano. Diversamente
dalla vulgata romana, che tende a presentarlo in aperta contrapposizione
con il Capo dello Stato, Renzi sa di doverci costruire un’intesa. Non
lo hanno particolarmente interessato le rassicurazioni sul fatto che il
Presidente ha fiducia nelle nuove generazioni: non a caso ha affidato a
un quarantenne la guida del governo e ha nominato una cinquantenne
senatrice a vita. La verità è che Renzi pensa che l’Italia possa uscire
dall’angolo in cui s’è cacciata solo facendo un balzo in avanti e
interpreta così la spinta degli elettori delle primarie. Ecco perché
vuol sapere da Napolitano se è disposto ad aprirgli la strada, o se
considera il passo che Renzi vuol compiere, e per il quale si sente
legittimato, rischioso per l’Italia e l’anticamera di un salto nel
buio.
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