di Aldo Schiavone
Corriere della Sera 30 marzo 2016
L’Italia è il Paese dell’Occidente
sul quale la rivoluzione del lavoro ha avuto l’impatto più
travolgente. Dietro la maschera del populismo ci sono cambiamenti che
vanno capiti per affrontare al meglio le sfide del futuro
Si fa presto a dire
«populismo». Nella tradizione culturale italiana, fino a qualche
tempo fa, questa era una parola marginale, usata assai poco. Sembrava
venire da altri mondi, ed evocava immagini vaghe e sfocate: lontani
movimenti rivoluzionari russi, masse sudamericane magnetizzate dal
peronismo.
Oggi, soprattutto da noi (ma non solo,
per la verità: basta dare uno sguardo al libro curato da Daniele
Albertazzi e Duncan McDonnel Tewenty-First Century Populism: The
Spectre of Western European Democracy) quell’etichetta la si
adopera ormai per spiegare tutto, o quasi, quel che avviene nella
nostra politica: prima per Berlusconi, e poi per Salvini, e Grillo, e
Renzi stesso infine; e non solo per dar conto di singole vicende e
personalità, ma per descrivere il nostro costume politico nel suo
insieme, compreso quell’immedicabile tratto di perenne nervosismo,
insieme frivolo e febbrile, che sempre lo accompagna.
In realtà, questo ricorrere così
inflazionato — come una specie di chiave universale per entrare
ovunque — nasconde, credo, una mancanza grave. Un vero e proprio
vuoto di conoscenza e di interpretazione di cosa sia diventata,
almeno dagli anni Novanta in poi, la società italiana: le dinamiche
della sua composizione; i mutamenti che la hanno attraversata come un
turbine; i punti in cui ha maggiormente ceduto la sua vecchia
ossatura (quella «di classe», per intenderci); i contesti in cui
mordono di più le nuove diseguaglianze; quali siano i suoi caratteri
finora imprevedibili — abitudini, comportamenti, pratiche di
convivenza — che stanno cominciando a prendere corpo e forma; dove
e come si producano i suoi vissuti emotivi, e si condensino le sue
convinzioni. Non sappiamo più quasi niente. Abbiamo messo i sondaggi
— un diluvio di sondaggi — al posto delle analisi: ma non sono la
stessa cosa. E la vecchia cultura politica (quella della sinistra, ma
anche in buona parte quella democratico-liberale) dove non sa, o non
capisce, dice: «populismo», e si mette tranquilla — come se
avesse finito, quando non ha nemmeno iniziato.
L’Italia è il Paese dell’Occidente
sul quale la rivoluzione del lavoro — che è l’autentico
mutamento del nostro tempo; tutto il resto viene dopo — ha avuto
l’impatto maggiore e più travolgente. Abbiamo intrecciato le
fragilità storiche — anche culturali — di una
industrializzazione tardiva (e talvolta incompiuta), con le altre,
appena acquisite, frutto di una deindustrializzazione precoce e non
regolata, indotta solo dall’esterno, e da incontrollabili
compatibilità di mercato.
Un intero mondo è finito in pochi
anni: quello della borghesia delle imprese radicate sul territorio, e
delle professioni intellettuali dominate dalla cultura umanistica;
con di fronte una classe operaia matura e consapevole, uscita dal
sistema di fabbrica classico. Il cambiamento ha avuto conseguenze
incalcolabili (e invece gravemente sottovalutate) sulla percezione di
sé e del proprio personale destino per milioni di italiani, di ogni
generazione: dai pensionati cui veniva d’improvviso cancellato il
proprio passato, agli studenti, senza più il futuro cui li avevano
preparati i loro genitori.
Come immaginare che tutto ciò non
avrebbe avuto effetti enormi sul piano dei comportamenti politici?
Che si trattava di ben altro che della sola fine del Pci e della Dc?
Era un modo complessivo di pensare la politica, e prima ancora la
vita stessa — un sistema totale di pensieri e di riferimenti —
che era saltato, perché erano irrimediabilmente compromesse le sue
basi materiali e sociali. Non è stato solo un problema di «fine
delle ideologie» (come è stato tante volte ripetuto): a scomparire
era un’intera architettura sociale, e con essa una maniera di
costruire e di rappresentare il rapporto di ciascuno con la propria
esistenza. Il lavoro del terzo millennio — ad alta intensità
tecnologica e con una richiesta continua di innovazione — non
generava più legami collettivi (né di classe, né d’altro tipo),
e non era più un veicolo di socializzazione di massa: e questo
modificava in radice tratti e contenuti della democrazia e della
rappresentanza, e la qualità stessa delle assemblee elettive.
Frantumava e atomizzava rispetto al passato, e dove prima c’erano
interessi generali e visioni del mondo, c’era ora un pulviscolo di
singolarità che chiedevano, ognuna, riconoscimento e visibilità, e
un rapporto diretto (almeno mediatico) con i leader. Per dirla con un
lessico che ha avuto molta fortuna, una società «liquida» non
poteva che avere una rappresentanza politica altrettanto «liquida».
È una regola cui non si sfugge.
Ed è proprio la novità dirompente di
questo fenomeno, che si nasconde dietro il dilagare di quel che
chiamiamo populismo: una politica che, non trovando altri punti su
cui far presa, insegue il moltiplicarsi di soggetti desocializzati
(mi si passi l’espressione), prigionieri del loro particolare (da
cui non sanno come uscire), che non si riconoscono più in nessuna
delle mediazioni tradizionali — partiti, sindacati e quant’altro
— senza autentica esperienza di vita collettiva, con un rapporto
comunque problematico e inesplorato con le proprie competenze e la
propria occupazione (quando l’hanno), alla ricerca di una nuova
misura fra tempo di vita e tempo di lavoro, ma carichi
(inevitabilmente) di desideri, di bisogni, di aspettative.
Siamo passati, insomma,
dall’individualismo strutturato e progettuale — e però rigido e
tendenzialmente ripetitivo — della nostra prima modernità,
all’individualismo sradicato e fragile — ma flessibile e creativo
— che riempie il nostro tempo. Dargli una forma politica non
regressiva — in grado di esprimere il suo potenziale di innovazione
e di vitalità — è la grande sfida che ci aspetta. Ed è una sfida
di idee, di saperi, di progetti. Per guidare il cambiamento, bisogna
prima pensarlo.
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