Fabrizio Rondolino
L'Unità 12 marzo 2016
Quando entrai per la prima volta
nell’ufficio del tuo capostaff, nella primavera del 1996, in vista
del mio prossimo impiego come tuo addetto stampa, alla parete c’era
un ritratto di Tony Blair con una sua frase che diceva più o meno
così: “Chi prova a cambiare è sempre accusato di tradimento”
Caro D’Alema, forse è davvero giunto
il momento di salutarsi e prendere congedo; forse la storia politica
del Pci e la sua ventennale eredità si sono infine consumate. Non
sono fra quelli che ti considerano «bollito», anzi: non esistono
oggi a sinistra personalità forti come la tua. A parte naturalmente
Matteo Renzi, di cui però parleremo più avanti. Non partecipo al
gioco ingeneroso di chi vede nelle tue parole soltanto il rancore
dello sconfitto, né mi convince l’argomento vagamente stalinista
secondo cui chi dissente lavora per il nemico (sebbene ciò possa
accadere indipendentemente dalle intenzioni). Sei un uomo di forti
passioni, nonostante un’agiografia dominante che ti dipinge algido
e calcolatore, e la passione più forte di tutte è la politica.
Le parole che hai detto al Corriere
della Sera, e che hai poi ripetuto davanti alle telecamere, sono
molto impegnative perché segnano, dopo mesi di progressive prese di
distanza, un punto di non ritorno: un congedo, appunto. «A destra –
hai detto – viene riconosciuto a Renzi il merito di aver distrutto
quel che restava della cultura comunista e del cattolicesimo
democratico. Ma così ha reciso una parte fondamentale delle radici
del Pd. Ha soffocato lo spirito dell’Ulivo», al punto che Renzi è
«oggettivamente» più vicino a Berlusconi che a Prodi: «La cultura
di questo nuovo Pd è totalmente estranea a quella originaria».
Il partito, hai proseguito, «è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», «un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra» per «sbarazzarsi del centrosinistra» («il partito della Nazione è già fatto»). E, come se non bastasse, «tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori».
Il partito, hai proseguito, «è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali», «un gruppo di persone che ha preso il controllo del Paese, alleandosi con la vecchia classe politica della destra» per «sbarazzarsi del centrosinistra» («il partito della Nazione è già fatto»). E, come se non bastasse, «tutti quelli che non si allineano vengono brutalmente spinti fuori».
Quando entrai per la prima volta
nell’ufficio del tuo capostaff al secondo piano di Botteghe Oscure,
nella primavera del 1996, in vista del mio prossimo impiego come tuo
addetto stampa, alla parete c’era un ritratto di Tony Blair con una
sua frase che diceva più o meno così: «Chi prova a cambiare è
sempre accusato di tradimento». La sinistra si apprestava a vincere
per la prima volta le elezioni e tu avevi appena pubblicato un libro
intitolato, programmaticamente, “Un paese normale”. Un paio
d’anni dopo ne avresti scritto un altro, con l’aiuto di Gianni
Cuperlo: “La grande occasione: L’Italia verso le riforme”.
La mission, come si direbbe oggi, era
complessa ma, anche, incredibilmente semplice: modernizzare la
sinistra era la premessa per modernizzare l’Italia e battere –
sul terreno dell’innovazione – l’offerta berlusconiana.
Bisognava dunque essere (come Blair) «più liberali» di Forza
Italia: aprirsi alle professioni, al merito, alla creatività,
all’individualismo, e insomma ad un’idea moderna e dinamica di
libertà civile, politica ed economica. Qui hai giocato la partita
politica della tua vita: contro tutti i conservatori. Contro i
conservatori del sindacato, contro la magistratura militante, contro
le burocrazie e le caste, contro chi a sinistra ti accusava di
tradimento per aver fatto con Berlusconi un accordo che finalmente
riformasse la Costituzione, contro i custodi della tradizione, e
naturalmente anche contro il conservatorismo dell’Ulivo.
Sei stato fatto a pezzi per quella tua
giusta, sacrosanta battaglia di modernità. La «rottura
sentimentale» che in un’altra intervista (sempre all’ottimo Aldo
Cazzullo) rimproveravi a Renzi è davvero la chiave per comprendere
ciò che sta accadendo a sinistra: salvo che si è già consumata da
tempo, e precisamente da quando tu, con lucidità politica e
coraggio personale, hai tentato invano di modernizzare la sinistra
italiana (post)comunista. Anche tu sei stato accusato – più o meno
dagli stessi che oggi combattono Renzi – di tradimento e resa
all’avversario. E quando hai provato a rimediare – perché ti
sentivi non il liquidatore, ma il garante della sinistra – ti hanno
eliminato senza troppi complimenti nel generale sollievo di tutti i
conservatori.
È questo il dramma – sentimentale,
cioè politico – della sinistra: è su questa ferita non
rimarginabile, che tu da allora e ancor oggi tenti invano di
rimarginare, che si è consumata l’implosione definitiva della
tradizione (post)comunista. L’amara verità è che da quella
tradizione non poteva più venire pressoché nulla di politicamente
fertile: e lo dimostra proprio la tua ritirata strategica, il
ripiegamento obbligato dell’unico che avrebbe potuto salvarla.
Renzi nasce in questo vuoto, e vince con sorprendente rapidità
perché intorno a lui non c’è più niente di vivo. E’ vero: non
gli manca, come dici, una certa arroganza (anche qui, tutto sommato,
niente di nuovo), ma quel tono c’entra molto con la politica e
molto poco, invece, con il carattere. La nuova sinistra di Renzi –
e di D’Alema negli anni Novanta, e di Craxi negli anni Ottanta –
è impaziente perché la vecchia sinistra è già tramontata ma non
riesce ad ammetterlo. L’errore di questi vent’anni – l’unico
errore politico che mi sento di rimproverarti – è aver cercato di
farle convivere.
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