Walter Veltroni
L'Unità 13 marzo 2016
Questo partito deve essere se stesso,
non mutare pelle e identità. E deve restare unito, perché se si
divide si indebolisce un presidio della stabilità. La sinistra o è
innovazione o non è. Sinistra e conservazione, un ossimoro
Non sciupate il Pd. Lo vorrei dire a
tutti i protagonisti del dibattito in corso in questi giorni. I toni
si sono fatti aspri e si affaccia il rischio di scissioni,
separazioni dolorose, possibili contraccolpi per il centrosinistra
alle elezioni comunali. Senza il Pd, per come lo abbiamo immaginato e
costruito, l’Italia è esposta al rischio che stanno correndo le
democrazie occidentali. Ci si rende conto di questo? Ci si rende
conto di quello che sta accadendo negli Usa, la democrazia più forte
del mondo, o nella Francia di Mitterrand e De Gaulle oggi dominata da
un partito di estrema destra, o nella Inghilterra sospesa al filo di
un voto dal quale può dipendere la fine di una certa idea di Europa?
Ci si rende conto di quello che sta
accadendo negli Usa, la democrazia più forte del mondo, o nella
Francia di Mitterrand e De Gaulle oggi dominata da un partito di
estrema destra, o nella Inghilterra sospesa al filo di un voto dal
quale può dipendere la fine di una certa idea di Europa? O la Spagna
senza governo da mesi, avviata verso il rischio di nuove elezioni,
nuova instabilità? Ci si accorge di quello che accade nei paesi
dell’est europeo, molti dei quali sembrano essere caduti nelle mani
di una nuova destra, come quella polacca o ungherese, determinata a
mettere in discussione le stesse conquista realizzate dalla
democrazia, dopo la notte della dittatura comunista? E il Nord
Europa, culla della socialdemocrazia, oggi attraversata da pulsioni
xenofobe un tempo inimmaginabili? Ci si guardi intorno prima di
sfasciare lo strumento essenziale del riformismo italiano e, se posso
dirlo, oggi una delle risorse fondamentali per il mantenimento della
prospettiva europea.
Come si sa ho creduto tra i primi e
sempre alla prospettiva del Partito Democratico e quando Achille
Occhetto (a proposito, auguri per ottanta anni da vero combattente
della democrazia) ebbe il coraggio di fare il salto decisivo nella
storia della sinistra per farne un partito della sinistra europea fui
tra coloro che, insieme a lui, si schierarono perché nel nome della
nuova formazione comparisse la parola “democratico”. Era, per me,
una tappa del processo che avrebbe dovuto portare alla costituzione
di quella unità dei riformisti che era la condizione di un
cambiamento profondo del paese.
Si poteva allora immaginare, tutto
questo, per la peculiarità feconda della storia di formazioni
politiche del Novecento in cui c’era stato il coraggio innovatore
di Gramsci e di Berlinguer, la intelligenza strategica di De Gasperi
e Moro, la lucida difesa del pensiero liberale e socialista dei
fratelli Rosselli, di Gobetti, di Nenni, Pertini, Parri, Giolitti.
Tutte queste storie, separate e imprigionate dalle ideologie e dai
blocchi, una volta liberate dalla caduta dei muri, avrebbero dovuto
rimuovere l’anomalia di aggregazioni spurie (nei partiti e nei
governi) e ritrovarsi, finalmente insieme.
Ma per me, e fu oggetto di discussioni
e di divisioni anche nella sinistra, la nuova formazione avrebbe
dovuto avere l’ambizione di essere di più, una formazione del
nuovo mondo, del nuovo millennio. Non solo la convergenza dei
democratici separati del novecento ma una identità forte e propria.
Al Lingotto, quasi dieci anni orsono, dissi “Per questo nasce il
Partito Democratico. Che si chiamerà così. A indicare un’identità
che si identifica con la più grande conquista del Novecento: la
coscienza che le comunità umane possono esistere e convivere solo
con la libertà individuale e collettiva, con la piena libertà delle
idee la libertà di intraprendere. Con la libertà intrecciata alla
giustizia sociale e all’irrinunciabile tensione all’uguaglianza
degli individui, che oggi vuol dire garanzia delle stesse opportunità
per ognuno”
Insomma non un partito “post”, con
lo sguardo rivolto al passato, ma un partito “ante”, capace di
immaginare i valori della sinistra democratica e riformista nel nuovo
millennio, nella società fluida e globalizzata, parcellizzata e
precarizzata. Qualcosa di grande, non un cambio di insegne e
cappello.
Per questo cercai allora di indicare
nella vocazione maggioritaria la strategia politica e l’ambizione
di un partito così. Una sinistra vecchia e senza ali poteva
pensare che l’unico suo destino fosse quello di allearsi con
chiunque pur di governare, perché dava per scontata il suo essere,
per definizione, minoritaria e dunque costretta a mettere insieme
tutto e il contrario di tutto, Mastella e Rifondazione comunista, per
governare , o cercare di farlo.
L’Ulivo, nato dalla intuizione di
Romano Prodi e dal dibattito della sinistra di quegli anni, si
sarebbe dovuto trasformare , dopo l’inaspettato, da molti, successo
alle elezioni del 1996, in un partito politico. Avrebbe dato basi
solide e forti allo straordinario riformismo del più forte governo
della storia repubblicana, con Ciampi all’economia e Napolitano
agli interni, e consentito di superare la precarietà della
condizione dell’appoggio esterno di Rifondazione. Si sono persi
dieci anni. E quando poi, dopo le tragiche elezioni provinciali del
2007 e i sondaggi che davano le forze del centrosinistra sotto il
venti per cento, si decise di dare finalmente vita al Pd, grazie
anche alla intelligenza politica di Fassino e Rutelli , questo non
poteva che avvenire in un contesto di innovazione, di radicale
innovazione. Per questo al Lingotto dicemmo con Olaf Palme, che la
sinistra “non è contro la ricchezza ma contro la povertà”,
proponemmo di superare vecchie posizioni conservatrici sul piano
istituzionale mettendo l’accento su un nuovo rapporto tra decisione
e controllo nell’esercizio delle funzioni esecutive e parlamentari,
di consolidare il bipolarismo con leggi elettorali che consentissero
un riavvicinamento degli eletti ai cittadini, nel contesto di una
politica più lieve che facesse della “questione morale” uno dei
suoi termini distintivi. Un partito europeo, convinto della necessità
degli Stato Uniti d’ Europa e impegnato, quante ironie sentimmo sul
tema, a costruire una unica organizzazione internazionale “dei
democratici e dei socialisti” che allargasse un campo che
altrimenti, come la storia si è incaricata di dimostrare, restando
fermo si sarebbe ridotto. L’Europa di oggi vede purtroppo una
presenza assai minoritaria delle sinistre al governo.
Noi ci siamo e pezzi di una politica di
governo “radicalmente innovativa” come postulava l’atto di
nascita del Pd si sono realizzati. Faccio due esempi, legittimamente
discussi: la legge sul jobs act e l’approvazione, finalmente, del
riconoscimento delle unioni civili. Dare una prospettiva di stabilità
ai giovani divorati, nella loro intera vita, dalla precarietà e
consentire a persone che si amano, quali che siano i loro
orientamenti sessuali, di condividere diritti civili sono o no due
“cose di sinistra”?
Fermiamoci su questa parola. Ho già
scritto, su questo giornale, che non può e deve essere considerata
una parolaccia, o un oggetto da antiquariato. La sinistra o è
innovazione o non è. Sinistra e conservazione sono un ossimoro. E il
Pd è, non lo si dimentichi mai, un partito forte della sua identità
democratica, cioè la sinistra riformista del duemila. Che
proprio per questo può puntare ad essere maggioritario, in una
democrazia dell’alternanza, una democrazia in cui il governo decide
e il Parlamento esercita la sua funzione di controllo.
Dunque la vocazione maggioritaria, che
declina politicamente e programmaticamente, l’identità del
riformismo italiano. Ma dire come si fa spesso con scolastica ovvietà
che la contraddizione del tempo non è tra destra e sinistra non può
preludere a soluzioni pasticciate come le idee vagheggiate, per
fortuna Renzi le ha definite inesistenti, di partiti senza identità.
Perché la divisione, è vero, non è quella del Novecento (più
tasse a sinistra , meno a destra ad esempio) ma la differenza tra
destra e sinistra esiste ancora, eccome. In forme nuove, ma esiste.
Come dimostrano drammaticamente temi come l’ emigrazione o i
diritti civili. Come dimostra la campagna elettorale americana. A chi
sostiene che non esiste più quella differenza suggerirei di
ascoltare i discorsi di Trump, prima che sia troppo tardi. E
attenzione che, se si continua a giocare, il nuovo bipolarismo sarà
giocato sul confine establishment-antiestablishment.
La sinistra è cambiamento, apertura,
giustizia sociale, diritti, libertà. Non può essere un polveroso
armadio di ricordi. Non sarebbe sinistra. E non può essere
annegamento nell’indistinto né cancellazione di una storia, fatta
di persone e idee belle davvero. Siamo padroni del nostro destino. Se
si sciupa il Pd, dopo vedo solo il baratro del dilagare di forme
inimmaginabili di populismo. Se si divide, con scissioni o minacce di
scissioni, si indebolisce un presidio fondamentale della stabilità,
della possibilità di riforme e di cambiamento, di ancoraggio
all’Europa.
Al tempo stesso il Pd deve essere se
stesso, non mutare pelle e identità. Deve essere un partito aperto,
democratico al suo interno, rispettoso di un pluralismo che sia fatto
di idee più che di correnti e correntine senza anima. Deve
recuperare, uno ad uno, elettori che possono essere delusi e tentati
dall’astensionismo. Ci sono, sarebbe sbagliato non vederlo.
Un’ultima cosa, sulle primarie. So
due cose: che se si partecipa ad esse bisogna poi accettarne l’esito.
E che bisogna presto regolarne lo svolgimento, come proposi con un
disegno di legge presentato nell’ultima legislatura alla quale ho
partecipato. Scandali e trucchi fanno del male allo strumento delle
primarie che sono state, fin dai tempi di Prodi, il modo attraverso
il quale si proponeva, in coerenza con l’idea di un
partito-società, di far scegliere ai cittadini, e non a ristretti
gruppi dirigenti, i candidati ai vertici istituzionali. Ma ai
cittadini, non agli organizzati delle correnti. Quelli che, se la
platea si restringe, rischiano di determinare il risultato e le
scelte.
Il Pd deve restare unito e credere in
se stesso. Se sarà indebolito sarà compromessa, chissà per quanto,
la stessa possibilità di un governo stabile, europeo e riformista
dell’Italia. Chi ha contribuito a fondarlo e lo ha guidato finché
ha potuto farlo in coerenza con l’impegno preso con milioni di
italiani si sente oggi di rivolgere, a tutti, questo appello alla
ragione.
Convinto, come dovremmo essere tutti,
che si debba, lo diceva Leonardo Da Vinci, fuggire “quello studio
la cui risultante opera more insieme coll’operante d’essa”.
Ricordiamoci, tutti, che si tratta non di noi stessi, ma del futuro
di una nazione.
Nessun commento:
Posta un commento