Guido Formigoni
Finalmente il ministro degli Esteri
Gentiloni è intervenuto a chiarire quello che stava diventando un
vero e proprio mistero politico: quello dell’intervento militare
italiano in Libia. Le sue parole sono state apparentemente
rassicuranti: sull’attesa di una «eventuale richiesta di sicurezza
del governo libico», sulla necessità quindi di un interlocutore
locale unitario e credibile, sulla volontà di coinvolgere il
parlamento su ogni decisione e sul rispetto della costituzione
italiana. Certo che una settimana di voci e indiscrezioni delle più
autorevoli testate informative europee e internazionali difficilmente
possono essere derubricate a gossip giornalistici di una stampa
scorretta che abbia qualcosa contro il manovratore. L’ipotesi che
nelle cancellerie internazionali i discorsi preparatori e la
progettazione molto più specifica in tema militare siano comunque
molto avanzati non è affatto da escludere, anche dopo questa
precisazione, che allenta almeno la preoccupazione immediata e la
nebbia informativa.
La vicenda libica è una delle più
controverse e pasticciate degli ultimi anni. L’intervento militare
internazionale del 2011 fortemente voluto dai francesi (e accettato
da Obama, che ora mostra resipiscenza) ha scoperchiato un vaso di
Pandora di violenze, divisioni, milizie, tribù, che il pugno di
ferro e la visione politica di Gheddafi aveva tenuto insieme per
quarant’anni. La disinvolta teoria neocon, per cui bastasse far
cadere un dittatore e convocare elezioni per avviare i paesi
mediorientali sulla via della pace e della democrazia si è rivelata
del tutto infondata: non bisognava essere dei Machiavelli per poterlo
capire già prima, ma in quel caso ne abbiamo avuto ulteriore prova
provata. Il disastro umanitario della disseminazione di decine di
migliaia di lavoratori stranieri in Libia, preda delle bande degli
scafisti e riversatisi in Europa è sotto gli occhi di tutti. Il caso
dei tecnici italiani rapiti con le vicende oscure e le conseguenze
tragiche per due di loro è solo la conferma di una situazione
totalmente fuori controllo.
Ora la preoccupazione occidentale si è
impennata, perché qualche signore della guerra locale si è messo
sotto le insegne di quel nuovo brand del terrorismo globale in
franchising che risponde al nome di Islamic State (Is). Siccome
mediaticamente questa vicenda fa molto effetto, perché la loro
strategia comunicativa a base di video e di sgozzamenti colpisce
molto l’immaginario occidentale, si è innalzata la soglia
dell’attenzione e sembra si siano pianificati – da quello che
appunto è trapelato – nuovi interventi militari. Indiscrezioni
della stampa internazionale e relazioni di esperti dicono che sul
campo ci sono già le forze speciali francesi nel sud del Fezzan,
quelle britanniche e i corpi d’élite statunitensi. Che il governo
italiano sia stato solo a guardare è improbabile, anche per una
sorta di volontà di presenza che sul caso libico può forse anche
essere giustificata, ma che – più in generale – fa parte di una
politica molto attenta all’immagine e alla relativa risposta nei
borsini dei sondaggi.
Il problema resta quello di
identificare una strategia complessiva credibile, che come al solito
non può essere vincolata esclusivamente all’emergenza e non può
essere solo militare. Come se bastasse spazzar via qualche banda
estremista (peraltro ben armata) per risolvere il problema.
Occorrerebbe invece un attento monitoraggio della situazione interna
dal punto di vista politico e sociale. Occorrerebbe conoscenza,
capacità di dialogo, costruzione di interlocuzioni continue e
prudenti con i veri punti di riferimento sul terreno che siano
interessati a un dialogo e a una convergenza politica stabile. Sono
le tribù di cui storicamente Gheddafi si è avvalso nel proprio
gioco di federatore autoritario? Sono nuove autorità locali? Sono
capi religiosi che siano anche autorità sociali (più difficile, nel
mondo sunnita, ma non impossibile)? Questo tipo di impegno è
ovviamente più complesso del mitragliamento compiuto da qualche
drone o della pianificazione di interventi dei navy seals. Implica
l’aiuto a processi di stabilizzazione politica molto lenti e
complessi, soprattutto dopo che è subentrato il primato della
guerra, con tutte le sue conseguenze. Comprende una dimensione
economica cruciale, spesso invece banalizzata: come creare
convenienze comuni, innescare processi di sviluppo sostenibile in
cambio di garanzie sulle esportazioni energetiche, predisporre affari
condivisi (e non solo tutelare gli interessi di alcuni grandi
investitori europei e italiani)? Come avviare percorsi di
miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni, tali da
condurle a sostenere la nuova politica democratica? Queste sono le
prime domande cui un governo serio dei problemi dovrebbe almeno
tentare di rispondere. Prima di qualsiasi «armiamoci e partite».
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