giovedì 3 marzo 2016

La scapigliata grandezza di Achille


Fabrizio Rondolino
L'Unità 3 marzo 2016
La grandezza politica di Occhetto sta tutta in uno nodo essenziale della storia politica
Achille Occhetto che compie ottant’anni è come Ringo Starr che diventa nonno: ci sentiamo tutti un po’ più vecchi. Per la generazione che aveva vent’anni negli anni Ottanta, che oscillava fra la nostalgia di Berlinguer e la consapevolezza che quel Pci non sarebbe mai più ritornato, Occhetto rappresentò un’autentica novità, una ventata improvvisa d’aria fresca, nonché la prova che fosse possibile ricominciare.
Il Pci di cui Occhetto divenne segretario il 21 giugno 1988, grazie al colpo di mano dei quarantenni che, per la prima e forse unica volta, seppero mostarsi coraggiosi, ingaggiare una battaglia politica dura e pensionare l’ottimo quanto inadeguato Alessandro Natta, era un partito politicamente moribondo. O forse era già morto senza saperlo: aveva perso la guerra con Craxi, non aveva alleati né poteva ragionevolmente trovarne, il pentapartito appariva inespugnabile e i ritardi culturali accumulati dal ’68 in poi rischiavano di farlo implodere in uno scontro irreversibile fra “massimalisti” e riformisti. E’ in questo contesto che maturano le condizioni, e la follia, della “svolta”.
La prima svolta di Occhetto avviene in realtà nel marzo del 1989, al XVIII congresso, quando lancia il “nuovo Pci” e propone un restyling del vecchio partito con molte pennellate di verde. I critici ribattezzarono ironicamente quel congresso “il congresso dell’Amazzonia”, perché nella relazione introduttiva si alzava l’allarme sulla deforestazione, ma è indubbio che Occhetto seppe amalgamare le correnti ambientaliste, pacifiste e femministe, che rappresentavano peraltro una parte essenziale dell’eredità berlingueriana, per riproporle organicamente come un programma politico “per l’alternativa”.
Che non era più l’“alternativa democratica” di Berlinguer, sinonimo in realtà del suo contrario, cioè della rinuncia programmatica ad ogni alleanza in nome della “diversità”, ma era l’alternativa vera, quella che abbiamo poi sperimentato nella Seconda repubblica. La grandezza politica di Occhetto sta tutta qui, in questo snodo essenziale della storia politica. Il segretario del Pci – il partito del compromesso storico e dell’unità nazionale – finalmente rompeva drasticamente con il modello consociativo togliattiano per introdurre un cardine della modernità politica: l’alternanza di governo. E per dimostrare che faceva sul serio, nel marzo dell’89 varò sul modello inglese il primo “governo ombra” della nostra storia. La Seconda repubblica bussava alle porte, e al contrario di Craxi, Forlani e Andreotti, Occhetto l’aveva nettamente capito.
Nel Pci fu però aspramente combattuto per aver violato un tabù che oggi a noi pare un’assoluta banalità, e l’avversione nei suoi confronti da parte di tutta la vecchia guardia – Occhetto più tardi li chiamerà “oligarchi” – cominciò a radicarsi sempre più fermamente.
Intanto l’Amazzonia era entrata nelle cronache come il primo esempio dell’eccentricità del nuovo segretario rispetto all’universo comunista tradizionale, della sua inedita irriverenza (capace di volta in volta di suscitare simpatia o disgusto), dell’arruffata novità di cui sembrava essere portatore, di una curiosità persino ingenua (primo segretario del Pci a visitare gli Stati uniti, arrivato a New York commentò: “Sembra di stare in un film di Woody Allen”).
Poche settimane dopo il congresso, e alla vigilia delle elezioni europee, ci fu Tien An Men: la repressione comunista in diretta mondiale. Occhetto partecipò alle proteste davanti all’ambasciata cinese, dichiarò che il comunismo era morto, moltiplicò le prese di distanza: ma il nome del partito non era (ancora) in discussione. Finché, a novembre, cadde il Muro.
Si è discusso e si potrebbe ancora discutere a lungo sulla “svolta” avviata da Occhetto alla storica sezione della Bolognina, di fronte ad una platea di partigiani, la sera del 12 novembre 1989. Tutto fu improvvisato, e tutto fu calcolato (fu una platea di partigiani ad ascoltare il primo discorso di Gorbaciov sulla perestrojka), ma soprattutto fu subito chiaro che – per usare un’espressione ripetuta ossessivamente da Occhetto – “indietro non si torna”.
Senza la “svolta”, del Pci non sarebbe sopravvissuto politicamente nulla, e senza Occhetto la “svolta” non si sarebbe mai fatta. Se gli ex comunisti hanno dominato la sinistra italiana fino a Matteo Renzi, se uno di loro è andato a palazzo Chigi e un altro, addirittura per due volte, al Quirinale, è perché Occhetto, anziché convocare il Comitato centrale come le buona maniere gli avrebbero suggerito, ha bruciato ogni ponte alle spalle informando direttamente il partito e i media – e anche in questo c’è un tratto indubbio di modernità.
E tuttavia la “svolta” è stata anche un fallimento: non perché non abbia prodotto risultati, ma perché quei risultati si sono dimostrati politicamente sterili. La “svolta” infatti, come peraltro lo stesso Occhetto disse fin dai primi giorni, indicava e preparava un’“uscita da sinistra” dal comunismo, non un ritorno alla famiglia socialista lasciata nel lontanissimo 1921. Assediato da Craxi, anziché sfidarlo sull’orizzonte lungo della modernità e costruire le basi dell’alternativa, Occhetto preferì nei fatti una riedizione della “diversità” berlingueriana, non più morale ma politica: il Partito democratico della sinistra voleva essere la metà campo “a vocazione maggioritaria”, come diremmo oggi, alternativa al pentapartito, indicato (berlinguerianamente) come la nuova destra.
Insomma, anche il nuovo partito restava splendidamente isolato nello scenario politico. Se il Pci-Pds fosse invece riuscito a costruire un’alleanza con il Psi (certo non si può dire che Craxi facilitasse le cose), la storia d’Italia avrebbe preso una piega ben diversa, Tangentopoli non avrebbe avuto la forza devastante di un’esplosione nucleare e Berlusconi probabilmente sarebbe ancora ad Arcore.
“Vi mando tutti al governo e poi parto per il giro del mondo in barca”, disse una volta ai suoi collaboratori: Occhetto non ha mai vinto le elezioni, e non credo abbia mai fatto il giro del mondo in barca. I suoi compagni di partito, i salvati, non sono stati generosi con lui, né l’ex segretario ha saputo sottrarsi alle sirene del rancore. Oggi che tutto appare consumato, gli auguri a Occhetto siano anche un riconoscimento affettuoso della sua scapigliata grandezza.

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