mercoledì 16 marzo 2016

Il Futuro del PD. Intervista a Giorgio Tonini

Pierluigi Mele
16 marzo 2016 dal Blog Confini
Il Partito Democratico sta vivendo un periodo di forte turbolenza. Non passa giorno che non si assista a polemiche personali e politiche tra i diversi leader del partito. Polemiche che investono anche il livello periferico del PD (vedi, da ultimo, il caso della Spezia con la vicenda delle dimissioni di tre assessori della giunta Federici).  Lunedì prossimo, a Roma, si svolgerà una Direzione Nazionale molto delicata per gli equilibri interni del partito. Insomma un partito lacerato. Quale futuro per il PD? Ne parliamo, in questa intervista, con il Senatore Giorgio Tonini, Presidente della 5ª Commissione Bilancio del Senato.
Senatore Tonini, la scorsa settimana il suo partito ha vissuto momenti drammatici (le primarie a Roma e Napoli, l’immancabile discussione sulle regolarità, a Napoli poi con episodi gravi di mercanteggiamento). Senza contare l’intervista di D’Alema al Corriere, le risposte stizzite di Orfini e Serrachiani. Insomma un partito per niente pacificato. Il PD ha la capacità di continuare a farsi del male. Insomma Renzi non può continuare a dare la colpa alla minoranza, se poi non fa nulla per pacificare il partito. Un poco di autocritica non guasterebbe…Qual è la sua opinione Senatore?
La mia opinione è che in molti nei giorni scorsi si siano lasciati prendere dal gusto della polemica e  siano andati molto al di sopra delle righe, avvicinandosi pericolosamente ad una soglia oltre la quale, come ha opportunamente rilevato Walter Veltroni, si rischia di mettere in discussione l’unica alternativa credibile al populismo dilagante in Italia e in Europa. Al netto di questi eccessi, ci sono state le primarie con le quali il Pd, unico partito in Italia, ha selezionato i suoi candidati sindaci. Le primarie sono un metodo democratico per definire le candidature, come tale assolutamente imperfetto, ma comunque di gran lunga migliore del metodo monarchico tanto caro ai nostri avversari, si tratti di Berlusconi o della premiata ditta Grillo, Casaleggio e associati. Quanto a Renzi, come ogni leader ha pregi e difetti. Renzi, come è noto, non è un pacificatore, né un mediatore. È uno che gioca sempre all’attacco e forse proprio a questo deve la sua popolarità. Non si può avere tutto dalla vita…
Veniamo ai problemi politici. Nell’intervista al Corriere Massimo D’Alema aveva affermato che il Partito della Nazione c’è già. Frutto delle scelte di Renzi, arrivando a sostenere che Renzi assomiglia più a Berlusconi che all’Ulivo. Insomma cosa è rimasto dell’Ulivo nel PD renziano?
Quella del cosiddetto Partito della Nazione è una vicenda surreale. L’espressione, di chiara derivazione togliattiana, fu coniata da Alfredo Reichlin, non da Renzi. E stava a indicare la vocazione del Pd a porsi come asse centrale del governo del Paese, più ancora: della sua stessa tenuta democratica. Ora è divenuta un’espressione negativa, il sinonimo di partito pigliatutto, senza valori e senza principi, tutto intento a sostituire la diaspora di consensi di sinistra con il reclutamento di spezzoni di centrodestra. Una caricatura priva di qualunque significativo riscontro nella realtà. La verità è che noi siamo costretti, dai rapporti di forza in Senato, a governare sulla base di un’alleanza innaturale con il centrodestra. Con il centrodestra intero, con Berlusconi alla guida, all’inizio della legislatura, quando si dovette dare vita al governo Letta-Alfano, il governo dei due vice. E poi, dopo i rovesciamenti di tavoli da parte di Berlusconi, con aree resesi autonome di quello che era stato il PdL: il nuovo centrodestra di Alfano dopo la rottura segnata dal voto sulla decadenza di Berlusconi da senatore, a cui si è aggiunto il sostegno esterno del gruppo di Verdini dopo la rottura del patto del Nazareno, a seguito dell’elezione di Mattarella. Da questo punto di vista Renzi sta seguendo la stessa linea seguita da Bersani: una linea tracciata da Napolitano con l’obiettivo di salvare la legislatura e anzi di utilizzarla come occasione per fare finalmente quelle riforme istituzionali da troppo tempo rinviate. Proprio le riforme sono tuttavia la prova che Renzi non intende fare dell’accordo parlamentare col centrodestra l’orizzonte strategico del Pd: se collaboriamo oggi è per porre le condizioni istituzionali per non essere più costretti a farlo domani. Il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, previsto dall’Italicum, sta lì a dimostrare che l’alleanza col centrodestra è una necessità del presente e non una scelta per il futuro.
Come risponde alle critiche, da parte di Fassina e Civati, che parlano di “mutazione genetica” del PD?
Che il PD non sta subendo nessuna mutazione genetica, ma è in perfetta continuità con l’Ulivo, che nelle parole del suo fondatore, Romano Prodi, era la casa comune dei riformisti italiani. Semmai fu proprio l’Ulivo a chiedere una mutazione genetica alla sinistra italiana, che rendesse possibile il suo scioglimento in un progetto nuovo e più grande, prima la coalizione e poi il partito dell’Ulivo, il Partito democratico. Un partito che doveva e deve essere capace di ristrutturare i rapporti di forza nel Paese, conquistando al riformismo una parte significativa dei consensi che dopo la crisi dei partiti della Prima Repubblica erano andati a destra. A cominciare da quelli degli operai: alle elezioni politiche del 2013, il Pd di Bersani si piazzò terzo nelle preferenze delle tute blu, dopo Grillo e Berlusconi. Alle europee, con Renzi, è tornato al primo posto. Mi piacerebbe mantenerlo questo primato… Semmai, in contraddizione con l’Ulivo sono quelli che pensano e agiscono in nome di un progetto autonomo della sinistra.
La minoranza PD non vuole la scissione e questo è sicuramente un gesto di buona volontà, se vuole anche di realismo politico. Perché non farsi carico di alcune proposte ragionevoli che vengono da quella parte. Invece è un continuo “dialogare tra sordi”. Esempio concreto: per la minoranza PD occorre puntare sulla ricostruzione del Centrosinistra. Non c’è il rischio che alle amministrative corra un partito sempre più centrista. Come pensate di vincerle se “terremotate” l’area di riferimento? Non vede questo rischio?
Non è stato il Pd a “terremotare” il centrosinistra di governo in regioni e città. Abbiamo confermato il sostegno ai sindaci di sinistra con cui abbiamo governato in questi anni: basti pensare a Zedda a Cagliari, o alle pressioni di Renzi su Pisapia perché si ricandidasse a Milano. Non è avvenuto il contrario: basti pensare alla candidatura di Airaudo contro Fassino a Torino, o alla fuga solitaria di Fassina a Roma. Tutte mosse disperate, che possono solo far perdere il centrosinistra.
Tra le critiche che vengono mosse a Renzi c’è quella di aver  lasciato il PD in stato di abbandono. In effetti la vita interna al PD langue, il tesseramento ha avuto un forte calo, e tanto altro. Il doppio incarico si è rivelato un fallimento. Un segretario di partito dovrebbe avere a cuore il destino della sua comunità politica. Lei è ancora convinto del doppio incarico?
Si, il doppio incarico, ossia il principio secondo il quale il premier è il leader del primo partito del Paese è una regola base della moderna democrazia parlamentare. Del resto è così in tutta Europa. E in tutte le grandi democrazie europee, il leader che vince le elezioni concentra tutte le energie sue personali e del partito che guida nello sforzo di governare il Paese. E trascura un po’ il partito… Il Pd ha problemi, ma non è un partito in crisi. Il tesseramento è in declino da molti anni, perché è una modalità di partecipazione sempre meno avvertita come attuale dai cittadini. Non a caso il Pd ha importato ìn Italia le primarie, una modalità anch’essa non priva di rischi e problemi, ma che rappresenta un grande elemento di vitalità democratica del Pd. E poi il 2 per mille: mezzo milione di cittadini-contribuenti hanno firmato per dare una piccola quota delle loro tasse al nostro partito… Il principale problema del Pd è il ricambio generazionale, nei territori più ancora che a livello nazionale. La generazione che, tra luci e ombre, vittorie e sconfitte, ha guidato il centrosinistra nella lunga transizione italiana dal 1989 ad oggi, la generazione alla quale io stesso appartengo, ha in gran parte fatto il suo tempo, a Roma come in tutto il Paese. Ma non sempre è facile rimpiazzarla. Non tutti sono fuoriclasse come Matteo Renzi o Maria Elena Boschi. E formare una nuova classe dirigente non è un lavoro che si improvvisa. Ma il Pd lo sta facendo. Come dice Renzi, il Pd è la somma delle primarie e della formazione. Nessun altro partito in Italia può dire altrettanto.
Una parola, infine, sul governo. La battaglia contro le politiche di austerità a livello europeo è certamente un punto di vanto per Matteo Renzi. Quali saranno le prossime sfide per il governo?
Sono le sfide che ha dinanzi l’Italia. Diventare più moderna, più forte, più competitiva e più giusta: a cominciare dai suoi apparati pubblici, dal Parlamento al più piccolo dei comuni. E farlo nel pieno di tre grandi crisi internazionali: la guerra civile che sta dilaniando il mondo arabo-islamico, dal cuore dell’Asia fino a quello dell’Africa, passando per il Mediterraneo; la nuova crisi fredda tra Occidente e Russia; fino alla crisi dell’Europa, incapace di uscire dalla trappola delle 28 sovranità nazionali.

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