Walter Veltroni
L'Unità 13 novembre 2016
Insisto da tempo sulla dimensione (per
me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente
Il titolo dell’ultimo editoriale,
quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine
della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non
mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree
metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo
paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso.
Non sono un indovino, non faccio il
bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei
bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi,
lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi
consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo
sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia
in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre
veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il
mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato
tempo fa.
Proviamo a mettere in ordine le cose
che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto.
La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le
nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la
guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute.
La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di
questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta
di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro
di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare
che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la
democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la
forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali
e collettivi fossero inarrestabili.
Il mondo, che aveva visto cadere i
regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora
registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave
inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione
economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i
governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra.
La sinistra cresce in tempi di speranza
economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra
parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra
conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel
giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande
attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non
mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo
precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”,
in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col
produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso
sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi
senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò
il secondo dopoguerra del novecento.
Nel 2008 la crisi devastante
dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto
l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a
finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro,
patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su
imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato
l’incubo di perderlo. Dieci anni così. Tutto è diventato
precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il
lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli
che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale
rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita
delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi.
Nelle frettolose analisi delle elezioni
americane è passata solo una parte della verità: la conquista di
consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure
di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero,
come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da
questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa.
Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del
consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece
prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto
il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha
perso brutalmente nelle fasce di reddito medio.
È la grande crisi di quella enorme
zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che
viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a
loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna
dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata
antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e
mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre
ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in
bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del
sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare.
L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema
vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate,
rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo
rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle
sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla
ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi
tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione.
Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del
Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi
chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave
conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti
unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare
la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco
a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che
fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva.
E oggi è la paura il cemento favorito
per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende
facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta
al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un
riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si
generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del
populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexit e dalla
sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita ed equità,
rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così
nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia
nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia,
tutto l’Occidente.
Non ci stancheremo di ripetere che la
democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una
piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per
secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci
insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio
dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua
distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere
della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il
cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare
socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un
uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle
sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi.
Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e
spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si
pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto:
«Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei
un voto».
E ha ragione. Non so quanto durerà,
perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende
“immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il
trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del
potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il
nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton
come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure,
la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da
Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie.
Il mondo sta virando e non sappiamo
dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire
da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso
pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede
semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump,
roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora
spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo
presidente americano.
L’ufficio della Casa Bianca è il più
difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna
esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non
conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al
discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha
preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da
dire, specie a sinistra, di stare molto attenti.
Di fronte a questa fase inedita la
sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a
rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la
necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della
caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione.
Ma il paradosso contrario sarebbe anche
grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto
da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita
degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal
nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a
quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al
passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la
società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si
rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto
finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o
elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti
tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi.
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