Mario Lavia
L'Unità 9 novembre 2016
Bruttisimo momento per i progressisti
di ogni latitudine
Si solleva l’onda trumpista su tutto
il mondo (i vari Erdogan, Putin, Farage, Le Pen) e qualche spruzzo
lambisce l’Italia galvanizzando i Salvini, i Brunetta, i Grillo.
In una fase già caldissima di suo –
a poco più di 20 giorni dal voto referendario – l’inatteso
trionfo di Donald Trump alimenta le pulsioni, come si dice adesso,
anti-establishment, vellica la pancia, aizza il risentimento: e il
governo Renzi, e personalmente il premier, vengono messi nel mirino
con rinnovata forza polemica.
Nel voto americano non è difficile
scorgere molte cose che riguardano lo stato di salute delle
democrazie occidentali e della politica in quanto tale: ed è come se
la politica, intesa come regolazione della passioni, venisse
fulminata nelle urne, lasciando le passioni (comprese le peggiori)
andare per proprio conto a briglia sciolta.
Brutto affare, per chi crede nella
politica come mediazione fra i bisogni e il governo reale.
Bruttissimo affare soprattutto per i riformisti di ogni latitudine.
E così, dopo la sbornia di stanotte,
un Brunetta molto su di giri reclama le dimissioni del presidente del
consiglio: “Rimetta il mandato nelle mani di Mattarella”. E
perché? Perché – dice il capogruppo forzista – “ha schierato
l’Italia con la Clinton”:il che è chiaramente una
sciocchezza, ma può suonare bene.
Ben venga un voto che in qualche modo
sfascia certezze consolidate – progressisti contro conservatori
affidabili: è Beppe Grillo che a momenti si intesta la vittoria di
The Donald, che in fondo, ha lanciato un “vaffa” pesantissimo e
vincente proprio come hanno fatto i Cinquestelle. C’è un po’ di
delirio di onnipotenza in questo ma sotto sotto un po’ è vero:
Grillo e Trump non sono forse due newcomers apparsi sulla scena
chissà da dove e impostisi in un baleno contro tutte le previsioni?
E poi c’è Salvini, il primo
“trumpista” italico, colui che andò a stringere la mano ad un
Trump che probabilmente nemmeno sapeva chi era quel ragazzone
italiano. Oggi, il Matteo di Milano, è entusiasta. Quando dice che
«il popolo batte i poteri forti 3 a 0», Salvini cavalca un’antica
contrapposizione (popolo contro potere) tipica del pensiero
reazionario fra le due guerre mondiali ma soprattutto coglie e
esaspera la propensione di un pezzo di società a fare a meno della
politica, esalta il nichilismo proprio di questa stranissima fase
storica nella quale muoiono le tradizionali forme della politica
(Hillary è risultata “troppo” tradizionale anche per i
democratici americani) ma non si vedono alternative serie
all’orizzonte.
Per Matteo Renzi è un nuova grande
nuvola sulla testa. Al di là delle strumentalizzazioni del voto
americano – per cui è un gioco un po’ così proiettarlo sul
referendum del 4 dicembre – non è chiaro se siamo dentro un
inarrestabile ciclone reazionario e populista. Ma di certo il clima è
cambiato.
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