praticamente chi ha fondato l'ulivo vota sì....chi lo ha affondato vota no....
foto del giorno
mercoledì 30 novembre 2016
lunedì 28 novembre 2016
Trump minaccia Cuba
Zucconi: "La nostalgia di guerra fredda del presidente"
Con un
tweet il neo presidente americano Donald Trump lancia minacce al governo
cubano: l'embargo resta se Cuba non rispetterà i diritti civili dei
cittadini. "Ora che non può farla con l'amico Putin - commenta Vittorio
Zucconi - Trump fa la guerra fredda a un'isola innocua. In realtà tutti
sanno che per il tycoon la politica estera è solo business"
amici e compagni dal palato fine...
Giorgio Tonini
28 novembre 2016
Alcuni amici e compagni del Pd, anche
in Trentino, stanno dicendo urbi et orbi che voteranno No al
referendum. È nel loro diritto farlo, perché il nostro è un
partito democratico, di nome e di fatto. Si tratta di amici e
compagni dal palato molto fine. Ad alcuni di loro non piace questo,
ad altri quell'aspetto della riforma. Si tratta di opinioni tutte
rispettabili. Purché si sia consapevoli, fino in fondo, delle
conseguenze delle proprie azioni. Se dovesse vincere il No, è vero,
non avremo le dieci piaghe d'Egitto, non saremo aggrediti dalle
cavallette, né l'acqua si tramuterà in sangue. Semplicemente, anche
questo tentativo di riforma fallirà, trascinando con sé, insieme ad
un altro pezzo di credibilità dell'Italia, la governabilità di
questa legislatura. Sarebbe meglio evitarlo, ma in fondo, dicono
loro, mancano pochi mesi alla scadenza naturale della legislatura. Il
problema vero, cari amici e compagni, è cosa si farà nella
prossima. Se vince il Sì, il famigerato "combinato disposto"
del potere di fiducia limitato alla sola Camera e l'elezione della
stessa con un sistema maggioritario (che sia l'Italicum o un altro si
vedrà, anche perché in proposito dovrà pronunciarsi la Corte
costituzionale), darà ad una delle principali forze politiche
(vedremo se sarà il Pd, o Cinquestelle, o il centrodestra) un chiaro
mandato a governare. Se invece vincerà il No, andremo a votare di
nuovo per Camera e Senato entrambe dotate del potere di fiducia e con
l'unico sistema elettorale possibile: un proporzionale più o meno
puro. A quel punto, a meno che una forza politica non conquisti da
sola la maggioranza assoluta dei voti in entrambe le Camere, si dovrà
far vita ad un governo di coalizione tra le forze disponibili.
Berlusconi si è schierato per il No, scommettendo sull'ipotesi che
l'unico governo possibile sarà un governo basato sull'alleanza tra
Pd e centrodestra, non è chiaro se con o senza la Lega di Salvini...
A quanto pare i bookmakers danno molto quotata la scommessa dell'ex
Cavaliere. Siete sicuri, cari amici e compagni dal palato fine, che è
questo che volete, per il Pd e per l'Italia? Non vi pare che sia
molto più saggio votare e far votare Sì, perché siano gli
elettori, tra pochi mesi, a dirci se dobbiamo essere noi a governare,
con i nostri uomini e le nostre donne, i nostri valori e i nostri
programmi, o invece altri, ma senza inciuci, governicchi e patti
diabolici tra partiti che poco o nulla hanno in comune tra loro?
Ascoltate il vostro palato fine è riflettete: è meglio, oltre
meglio mandar giù un aspetto della riforma che non vi piace,
piuttosto che quello che ci aspetta, come democratici e come
italiani, se vince il No.
martedì 22 novembre 2016
Pensierino della Sera.
Matteo Renzi
...Mi sono a lungo
chiesto come fanno i Cinque Stelle a votare contro una riforma che
porta in Costituzione le storiche battaglie che il loro movimento ha
sempre fatto. La riduzione del numero dei parlamentari? E loro votano
NO. L'obbligo di discutere le leggi popolari? E loro votano NO. Il
superamento del bicameralismo paritario? E loro votano NO.
L'abbassamento del quorum se si raggiungono 800mila firme
(attenzione: firme vere, purtroppo per loro, non copiate)? E loro
votano NO. L'abolizione del CNEL? E loro votano NO. È
impressionante. Ma la cosa che più mi colpisce è aver scoperto il
motivo per cui votano NO sul Senato. Non potevo crederci ma abbiamo
scoperto – grazie all'Espresso – che i fondi che vanno ai gruppi
del Senato (trenta milioni al PD in questa legislatura, circa la metà
a Cinque Stelle, tanti anche agli altri), fondi che saranno
cancellati se vince il Sì e che rimarranno con la vittoria del NO,
servono a Cinque Stelle per pagare l'affitto ai dipendenti
dell'ufficio comunicazione. Cinque Stelle può espellere parlamentari
e sindaci ma non può fare a meno dell'Ufficio Comunicazione. Persino
Rocco Casalino, capo della comunicazione Cinque Stelle, è passato
dalla Casa del Grande Fratello alla Casa del Grande Senato.
Un'affittopoli incredibile, di cui non parla nessuno. Ecco come usano
i fondi del Senato. Al netto del referendum: possibile che chi voleva
fare la rivoluzione dell'onestà e della trasparenza al momento buono
diventi il più conservatore della vecchia casta? Un pensiero agli
elettori del Movimento 5 Stelle: ma davvero volete difendere il
sistema delle firme false e degli affitti veri?
GIUSEPPE DOSSETTI E IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO
Pierluigi Castagnetti
Giuseppe Dossetti in uno dei suoi ultimi discorsi sui temi della Costituzione, tenuto presso l'Università
di Parma, il 26 aprile 1995, affrontò tra gli altri il tema del
superamento del bicameralismo paritario in questi termini:
"Un altro oggetto di riforme necessarie e possibili, è la revisione
dell'attuale bicameralismo perfetto, che ha sinora impedito una
legiferazione tempestiva ed efficace, e insieme ha concorso ad
ostacolare un corretto rapporto Parlamento-Governo.
Si sta creando un'opinione abbastanza comune che vorrebbe passare dalle attuali due camere, con funzione legislativa paritaria e con omogenea rappresentatività, a un sistema che preveda la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, o meglio delle autonomie locali e delle grandi formazioni sociali, riservando per contro alla Camera dei deputati la rappresentatività politica generale.
Proprio della Camera dei Deputati resterebbe il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo, e l'attività legislativa ordinaria.
Il concorso della Camera delle Regioni potrebbe essere richiesto normalmente per le leggi che incidano sui rapporti tra Stato e Regioni; invece per le altre leggi potrebbe essere solo eventuale e prevedere la prevalenza finale della Camera dei Deputati in caso di dissenso...".
Si sta creando un'opinione abbastanza comune che vorrebbe passare dalle attuali due camere, con funzione legislativa paritaria e con omogenea rappresentatività, a un sistema che preveda la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, o meglio delle autonomie locali e delle grandi formazioni sociali, riservando per contro alla Camera dei deputati la rappresentatività politica generale.
Proprio della Camera dei Deputati resterebbe il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo, e l'attività legislativa ordinaria.
Il concorso della Camera delle Regioni potrebbe essere richiesto normalmente per le leggi che incidano sui rapporti tra Stato e Regioni; invece per le altre leggi potrebbe essere solo eventuale e prevedere la prevalenza finale della Camera dei Deputati in caso di dissenso...".
L’incredibile affluenza in Francia. E da noi qualcuno vuole abolirle…
Mario Lavia
L'Unità 21 novembre 2016
Le Monde: “La vittoria di Fillon è
lo scenario peggiore per Marine Le Pen”
Quasi 4 milioni di francesi hanno
partecipato al primo turno delle primarie del centrodestra francese.
Un record. Una notizia sbalorditiva, in epoca di crisi della
politica, di sfiducia nei partiti e dei loro leader. Ma la Francia si
è mossa. A chiamarla alla mobilitazione, si sarebbe detto una volta,
sono stati i conservatori, i Républicains, non la sinistra, i
socialisti – che da sempre sono i primi a rivolgersi “alle
masse”. In Francia – e in Germania – la “diga”
antipopulista è conservatrice.
Alcune considerazioni.
1. Le primarie sono così partecipate
proprio perché c’è un’enorme crisi della politica, perché
colmano un gap che c’è fra i partiti tradizionali e la società:
ed ecco che appena ne ha la possibilità la società riprende la
parola assumendosi in prima persona la responsabilità della scelta
politica.
2. C’è un aspetto specificamente
francese nell’altissima affluenza di ieri: e cioè che le primarie
dei conservatori sono state vissute come l’antipasto delle
elezioni presidenziali, nella convinzione che si trattasse di
scegliere il Presidente francese o quantomeno lo sfidante di Marine
Le Pen. Da questo punto di vista sarà interessante vedere se anche
le primarie dei socialisti registreranno lo stesso successo, visto
che il Ps è percepito ormai come un partito tagliato fuori dalla
corsa per l’Eliseo.
3. Tanto è vero che molti socialisti
sono andati a votare (per Fillon contro l’odiato Sarkozy) alla
primarie dei rivali gollisti. Spinti dall’esigenza di trovare il
miglior anti-Le Pen, e sapendo di non poterlo scovare nel Ps, molti
elettori socialisti hanno preferito donare 2 euro ai conservatori,
creando così un immaginario, ma non poi tanto immaginario,
superpartito antipopulista e antifascista.
4. Ha stravinto François Fillon (dato
favorito anche al secondo turno, fra una settimana, contro Juppé)
perché è apparso il più affidabile, contra il radicalismo di Sarko
e un certo appesantimento dell’anziano Juppé. Le Monde oggi scrive
che la vittoria di Fillon crea “lo scenario più difficile per
Marine Le Pen” la quale non si attendeva la vittoria del candidato
più moderato, almeno esteriormente, dei tre. E se la Francia ha
voglia di moderazione, Fillon ha delle buone carte.
5. Se la “diga” antipopulista è
“bianca” è evidente che per i socialisti si pone un enorme
problema di prospettiva. Resi ormai marginali o subalterni in molti
paesi europei, i socialisti rischiano di essere stritolati fra i
conservatori (in Francia, in Germania, in Spagna) o di essere
rosicchiati dalla sinistra più radicale (un po’ è successo in
Spagna, forse accadrà in Francia) o di slittare verso posizioni più
estreme (laburisti inglesi).
6. Le primarie in ogni caso si
confermano come un potentissimo fattore di mobilitazione popolare,
anzi: il più potente. Inventato a sinistra (dall’Ulivo italiano),
oggi è uno strumento usato anche da una destra pragmatica e popolare
come quella francese che ha colto la sua efficacia. Ed è davvero
singolare che proprio nella sinistra italiana quelli che ancora
pensano al primato dei partiti nei vecchi termini autoreferenziali
vogliano rimetterle in discussione o addirittura sopprimerle. Anche
questa è una lezione che viene dalla giornata francese di ieri.
lunedì 21 novembre 2016
sabato 19 novembre 2016
sorpresa!
Ma è meraviglioso.
Il Comitato del NO fa ricorso ad AGCom perché secondo loro il SI ha molto più tempo in tv.
Escono i dati ufficiali.
Sostanziale pareggio in RAI.
Dal 15 al 25 % in più di tempo al NO sui canali Mediaset e LaPeppe.
Il Comitato del NO fa ricorso ad AGCom perché secondo loro il SI ha molto più tempo in tv.
Escono i dati ufficiali.
Sostanziale pareggio in RAI.
Dal 15 al 25 % in più di tempo al NO sui canali Mediaset e LaPeppe.
tecnologia
E poi i ragazzi italiani a Berlino hanno anche spiegato a DiMail come funziona quella diavoleria della posta elettronica.
vittorio zucconi
giovedì 17 novembre 2016
mercoledì 16 novembre 2016
L’opposizione in 4 parole: “Non nel mio giardino”
Chicco Testa
L'Unità 16 novembre 2016
Da questi pregiudizi non si salva
praticamente nessuna categoria di opere
Ieri ho assistito al dibattito che si è
tenuto in occasione della presentazione del rapporto 2015/2016 del
Nimby Forum. Iniziativa che censisce ogni anno la quantità e la
tipologia di opposizioni territoriali alla realizzazione di opere
pubbliche e private in vari settori.
NIMBY è acronimo inglese, che tradotto
in italiano recita “non nel mio giardino”. Ossia “quell’opera
si potrebbe pure realizzare ma non vicino a casa mia”. Naturalmente
quel “vicino a casa mia” è inteso in senso molto lato. Nella mia
Provincia, nella mia Regione, in Italia. Risultato: un sacco di
investimenti, opere utili, occupazione aggiuntiva bloccati da
opposizioni di vario genere.
Il rapporto dà conto di come le
opposizioni di questo genere non diminuiscano, ma cambino via via
obiettivo. La categoria più contestata di opere è oggi, pensate un
po’, quella relativa alle fonti energetiche rinnovabili. Ho sempre
pensato che, al contrario di quanto si crede, questo tipo di
comportamento abbia le sue radici non in opinioni e interessi che si
formano autonomamente, ma nelle idee messe in giro in spregio di ogni
ragionevolezza da leader politici, religiosi, sindacali, da presunti
intellettuali e che “la gente” non faccia altro che prenderli per
buoni.
Da questi pregiudizi non si salva
praticamente nessuna categoria di opere. In compenso un’altra
associazione, che si poneva l’obiettivo di premiare le
amministrazioni capaci di realizzare opere e infrastrutture utili, ha
chiuso i battenti. Per una ragione molto semplice. Dopo qualche anno
di attività era finito l’elenco delle cose da premiare. Gran
brutto segno per il nostro Paese.
Onore a D’Alema, l’unico che confessa di volere un governicchio
Fabrizio Rondolino
L'Unità 16 novembre 2016
I Noisti ipocritamente dicono che Renzi
dovrebbe restare anche se vince il No
I Noisti che votano No con l’unico
obiettivo di abbattere Matteo Renzi – e sono la maggioranza: da
Salvini a Bersani, da Brunetta a Grillo – curiosamente (o
ipocritamente?) insistono su un punto: il 5 dicembre, se vince il No,
Renzi deve comunque restare a Palazzo Chigi. Bisogna votare contro le
riforme per colpire il presidente del Consiglio, sostengono in tv e
sui giornali, ma il presidente del Consiglio non si deve dimettere.
E perché? Perché, spiegano, il
referendum non è sul governo. Però bisogna votare No, concludono,
perché questo governo è pessimo.
Un gran bel ragionamento, non c’è
che dire: onesto, trasparente, convincente. E rivelatore: nascondere
le conseguenze dei propri atti è un contrassegno della politica
politicante, del tatticismo elevato a sistema di vita, del desiderio
rabbioso di distruggere senza preoccuparsi di ciò che verrà dopo.
Onore dunque a Massimo D’Alema, che
l’altro giorno ha confessato finalmente la verità: “Se vince il
No, niente elezioni anticipate, bisognerà prima cambiare la legge
elettorale… il presidente Mattarella nel giro di poche ore
individuerà una personalità super partes per formare un nuovo
governo”.
A parte la battuta sulle “poche ore”
necessarie a risolvere una crisi di governo, che fa da pendant ai
“pochi mesi” sufficienti per D’Alema ad approvare una nuova
riforma istituzionale, per di più “condivisa”, lo scenario
prospettato dall’ex premier e mancato commissario europeo è
realistico: la vittoria del No spalanca le porta all’ennesimo
governo tecnico, o istituzionale, o di scopo, o come altrimenti sarà
etichettato il governicchio che si proverà a formare.
Proviamo ad approfondire la questione.
L’azionista di maggioranza di questo ipotetico governo sarebbe
comunque il Pd guidato da Renzi – almeno fino al congresso – e la
maggioranza ricalcherebbe più o meno quella attuale, con l’eventuale
aggiunta di Forza Italia (sempreché Berlusconi, dopo aver appena
licenziato Stefano Parisi, cambi di nuovo idea e ritorni “moderato”).
Ma nessuna delle forze politiche che
voteranno la fiducia al governo si sentirà più di tanto impegnata
nel sostenerlo, e anzi farà a gara per punzecchiarlo, prenderne le
distanze, metterlo in difficoltà: un po’ perché la vittoria del
No apre di fatto la campagna elettorale per le politiche, un po’
perché quel governo presumibilmente avrà ministri “tecnici”
slegati dai partiti, un po’ perché si sa in partenza che avrà
vita breve.
Davvero qualcuno crede che un tale
governicchio sia in grado di scrivere una nuova legge elettorale,
contrattare con l’Europa i necessari margini di flessibilità,
rassicurare i mercati finanziari, arginare l’ondata populista e
restituire dignità ed efficienza all’azione politica?
martedì 15 novembre 2016
informazione disparitaria
Franco Valenti
15 novembre 2015
15 novembre 2015
Giovane muratore romeno accusato di stupro di una ultraottantenne nel
bresciano. Subito si sono alzati i latrati dei segugi Lombardi . Dei
media cialtroni hanno dato fiato alle
trombe creando un nuovo mostro senza prima attendere la conferma di un
simile reato. Ora la medicina legale del Civile di Brescia certifica che
il dna trovato sugli indumenti della signora non è quello del
cittadino romeno. I segugi latranti stanno rientrando , coda tra le
gambe, nelle loro tane in attesa di una nuova occasione. I media in
piccolo e sottovoce riferiscono della immediata scarcerazione del
manovale romeno. Lo fanno sommessamente in modo che rimanga nella
mente del popolino lo sdegno per il supposto mostro. Ora suggerirei al
legale di questo cittadino di chiedere lauti indennizzi sia all'accusa
che a chi sopra la notizia ci ha marciato alla grande.
I noisti vogliono il proporzionale perché preferiscono l’inciucio
Fabrizio Rondolino
L'unità 15 novembre 2016
Il populismo si sconfigge con la buona
politica, cioè con l’alternanza di governo.
Alla variegata e variopinta armata che
sostiene il No al referendum di dicembre si rimprovera, fra le altre
cose, di non proporre alcuna alternativa praticabile – o, il che è
lo stesso, di proporne troppe e tutte diverse tra loro – e,
soprattutto, di avere in comune un unico obiettivo, che peraltro non
è oggetto di voto: fare la pelle a Renzi.
In realtà, c’è un altro elemento
fondamentale che unifica il fronte del No, e che è destinato a
pesare nel futuro politico del Paese persino in caso di vittoria del
Sì: il ritorno al proporzionale.
Proporzionale “alla spagnola” è la
proposta di riforma elettorale depositata dal Movimento 5 stelle;
proporzionali sono le proposte che vengono dalla minoranza del Pd e
dalla sinistra radicale; per il proporzionale si è schierato – a
sopresa ma non troppo – addirittura Silvio Berlusconi, il cui
merito storico, da tutti riconosciuto, è l’“invenzione” del
bipolarismo maggioritario.
Il nesso riforma-Italicum può dunque
considerarsi valido in entrambe le direzioni, ma in un significato
più profondo, più strategico: l’approvazione della riforma
istituzionale consolida un sistema politico fondato sull’alternanza,
cioè sulla possibilità di avere governi e maggioranze politiche
omogenee scelte direttamente dagli elettori (il che naturalmente non
significa che l’Italicum non possa essere cambiato).
Al contrario, la conservazione
dell’assetto esistente porta con sé la restaurazione di un sistema
politico in cui le scelte si spostano dagli elettori alle segreterie
dei partiti. O meglio: agli elettori è riservata la rappresentanza,
maggiore con un sistema proporzionale, ma soltanto ai partiti spetta
la governabilità.
Il vero argomento a favore del
proporzionale, come ha candidamente e sinceramente spiegato Eugenio
Scalfari domenica scorsa, è impedire che il M5s vinca le prossime
elezioni: poiché in Italia, come nel resto del mondo, ci sono i
barbari alle porte, gli altri che barbari non sono – tutti gli
altri – devono fare fronte comune.
E’ accaduto in Germania e, seppur
molto più faticosamente, in Spagna, e potrebbe accadere l’anno
prossimo in Francia: perché non anche in Italia?
Ma se davvero così stanno le cose, a
me pare che ci sia un motivo in più per votare Sì.
La rappresentanza proporzionale e il
governo di coalizione non sono in sé un male, ci mancherebbe: ma
rischiano di diventarlo quando vengono piegati alla necessità di
salvarsi dai barbari. L’antipolitica – qualunque cosa significhi
questo termine – non si sconfigge alzando un muro fortificato a
protezione dell’establishment di sinistra e di destra: si sconfigge
con la buona politica. E l’ossigeno della buona politica è
l’alternanza, cioè la possibilità di avere alla guide del Paese
un governo scelto dagli elettori, politicamente omogeneo,
responsabile delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Altro che “deriva autoritaria”:
l’alternativa è fra una democrazia che funziona e un sistema
politico bloccato; fra il potere degli elettori e quello dei partiti
o dei loro simulacri; fra l’apertura e la chiusura: in una parola,
fra la responsabilità e l’inciucio.
lunedì 14 novembre 2016
Sveglia, prima che sia troppo tardi
Walter Veltroni
L'Unità 13 novembre 2016
Insisto da tempo sulla dimensione (per
me sconvolgente) della crisi della democrazia in Occidente
Il titolo dell’ultimo editoriale,
quello di domenica scorsa, era Il mondo sospeso. Scrivevo, al termine
della più brutta campagna elettorale della storia americana, che non
mi fidavo dei sondaggi, che l’America non è quella delle aree
metropolitane, che il mondo era a un passo dalla svolta che avevamo
paventato, su queste colonne, da luglio dell’anno scorso.
Non sono un indovino, non faccio il
bastian contrario di giornali, di pagatissimi uomini dei polls, dei
bookmakers. No, semplicemente osservo, come la mia posizione di oggi,
lontana, per scelta, dalla ruvidità del centro del ciclone, mi
consente di fare. E, chi legge queste colonne lo sa, insisto da tempo
sulla dimensione, per me sconvolgente, della crisi della democrazia
in Occidente. Lo dissi al Lingotto, quando tutto sembrava correre
veloce verso il sole. Non sono pessimista, a chi vuole cambiare il
mondo non è consentito. Uso la ragione, come mi è stato insegnato
tempo fa.
Proviamo a mettere in ordine le cose
che sono cambiate, nel breve tempo della storia che abbiamo vissuto.
La storia non si calcola a giorni o a mesi, come facciamo con le
nostre vite. La storia è fatta di fasi, quelle con cui, chi la
guarda all’indietro, ordina e fornisce coerenza alle cose accadute.
La giusta datazione dell’inizio del tempo storico che viviamo, di
questo grande rivolgimento, è il 1989. Quando cadde, sotto la spinta
di un processo di liberazione dato dalla crescita economica, il Muro
di Berlino e, con esso, l’equilibrio politico, strategico, militare
che aveva retto il mondo per quarant’anni. La storia è finita, la
democrazia ha trionfato annunciarono molti analisti. Sembrava che la
forza della libertà e l’irrinunciabilità dei diritti individuali
e collettivi fossero inarrestabili.
Il mondo, che aveva visto cadere i
regimi fascisti del sud dell’Europa e del Sud America, ora
registrava l’arrivo di milioni di esseri umani a bordo della nave
inaffondabile della democrazia. Ci fu un ciclo di espansione
economica e di speranza diffusa di equità sociale che espresse i
governi riformisti in Usa, Italia, Francia, Germania, Inghilterra.
La sinistra cresce in tempi di speranza
economica e sociale, la destra in quelli di paura diffusa. D’altra
parte, non dimentichiamolo mai, una si chiama progressista e l’altra
conservatrice. Così è stato, in quel tempo. Poi è arrivato quel
giorno di settembre del 2001 e tutto è cambiato. Il più grande
attacco straniero sul suolo americano da Pearl Harbor non poteva non
mutare i paradigmi di un mondo in cerca di un equilibrio. Siamo
precipitati, inseguendo inesistenti “armi di distruzione di massa”,
in un conflitto che non ha sconfitto il terrorismo ma ha finito col
produrre effetti non calcolati. I muscoli americani hanno prevalso
sul cervello americano e quell’area ha cominciato a destabilizzarsi
senza che fosse prevista una strategia analoga a quella che orientò
il secondo dopoguerra del novecento.
Nel 2008 la crisi devastante
dell’economia mondiale ha aperto un ciclo recessivo in tutto
l’Occidente, un ciclo che, salvo gli Usa, non sembra destinato a
finire, dopo quasi dieci anni. Si sono perduti posti di lavoro,
patrimoni, certezze. Le saracinesche sono scese come una mannaia su
imprese e negozi, per milioni di persone il lavoro è diventato
l’incubo di perderlo. Dieci anni così. Tutto è diventato
precario, nella vita delle persone. In primo luogo il rapporto con il
lavoro. Il proprio, che si vive come provvisorio e quello dei figli
che si vedono destinati ad una retrocessione di ruolo sociale
rispetto all’inarrestabile ascensione che ha caratterizzato la vita
delle famiglie occidentali dal dopoguerra ad oggi.
Nelle frettolose analisi delle elezioni
americane è passata solo una parte della verità: la conquista di
consenso repubblicano nelle roccaforti operaie squassate da chiusure
di aziende prodotte dalla concorrenza internazionale. Tutto vero,
come vera è l’immagine di un pensiero democratico lontano da
questo dolore sociale. Ma la realtà, come sempre è più complessa.
Si guardino le analisi differenziate. Trump ha avuto il massimo del
consenso nelle fasce di età dai 45 in su e la Clinton ha invece
prevalso tra i più giovani. Ma la candidata democratica ha ottenuto
il massimo dei voti nei ceti più poveri della popolazione mentre ha
perso brutalmente nelle fasce di reddito medio.
È la grande crisi di quella enorme
zona mobile della piramide sociale che determina oggi la fase che
viviamo. Il dolore degli ultimi e la paura degli intermedi. È a
loro, vittime principali della crisi, che la sinistra moderna
dovrebbe guardare. E poi il fattore più sottovalutato: la portata
antropologica e sociale della rivoluzione tecnologica. Schematizzo e
mi scuso: le tecnologie hanno ridotto il lavoro senza produrre
ricchezza redistribuita e hanno alterato, il tempo ci dirà se in
bene o in male, tutte le nostre relazioni più importanti, quelle del
sapere e del comunicare, quelle dell’amare e del socializzare.
L’uomo moderno è solo, sempre di più, ed è immerso in un sistema
vorticoso di contatti e di conoscenze che sono frammentate,
rapsodiche, voraci, semplificate. Ha completamente modificato il suo
rapporto con il tempo e agisce in un universo cognitivo scritto sulle
sabbie molli: un delirio di false notizie, di allarmi separati dalla
ragione, di costante riduzione della complessità. Sono in crisi
tutti gli agenti unificanti, a partire da quelli della comunicazione.
Si può dire che sia il tempo in cui è tramontato il concetto del
Novecento di opinione pubblica. Ed è venuto il momento di dirsi
chiaramente che la cecità politica ha determinato una grave
conseguenza: sono spariti o ridimensionati tutti gli agenti
unificanti della società: partiti, sindacati. L’idea di coltivare
la disintermediazione ha reso la relazione della democrazia un gioco
a due tra un vertice lontano e una platea infinita e indistinta che
fatica a razionalizzare e può essere preda di ogni pulsione emotiva.
E oggi è la paura il cemento favorito
per attivare processi di unificazione elettorale. Paura che si vende
facilmente, al mercato della comunicazione esplosa. Paura che porta
al paradosso, nel tempo globalizzato, di una società chiusa, di un
riflesso identitario come reazione al mistero dell’altro. Da qui si
generano le pulsioni protezionistiche ben presenti nei programmi del
populismo mondiale. E l’Europa, ferita a morte dalla Brexit e dalla
sua incapacità di corrispondere ad un bisogno di crescita ed equità,
rischia di essere la vittima eccellente di questa nuova fase. E così
nasce la voglia del vaff, del calcio al tavolino, della rabbia
nichilista. Quella che sta attraversando, come un’onda grigia,
tutto l’Occidente.
Non ci stancheremo di ripetere che la
democrazia è stata, lo ha ricordato recentemente Michele Ainis, una
piccola parentesi nella storia della vicenda umana. Il dominio, per
secoli, lo hanno avuto varie forme autoritarie. E la storia ci
insegna che il bisogno di semplificazione autoritaria nasce proprio
dalla combustione di diversi elementi: la recessione e l’iniqua
distribuzione della ricchezza, la crisi della capacità di decidere
della democrazia, la difficoltà di partiti e soggetti collettivi. Il
cittadino restato solo, spaventato dalla paura di precipitare
socialmente, diffidente verso gli altri, finisce con l’invocare un
uomo forte, che lo liberi dalla paura, dia ascolto e risposta alle
sue ansie, metta ordine nel caos. Per farlo sceglie non importa chi.
Purché arrivi da un presunto nulla, come un cavaliere ricco e
spietato. A lui non si chiederà nessuna delle virtù che si
pretendono da un politico: Trump, riporta La Stampa, ha detto:
«Potrei andare sulla Fifth Avenue, mettermi a sparare e non perderei
un voto».
E ha ragione. Non so quanto durerà,
perché la divisione establishment-anti establishment che oggi rende
“immune” chi sostiene la seconda causa ha, dentro di sé, il
trabocchetto autodistruttivo che trasforma in breve tempo in uomo del
potere chi assume il potere in nome del populismo. E, a conferma, il
nemico della grande finanza, il candidato che bollava Hillary Clinton
come l’espressione delle banche ha annunciato, tra le prime misure,
la cancellazione di alcune norme della legge Dodd-Frank voluta da
Obama che introduceva limiti alle speculazioni finanziarie.
Il mondo sta virando e non sappiamo
dove andrà. Il vento è di burrasca. La cosa peggiore è non capire
da dove viene. Nell’asilo Mariuccia, che è diventato il discorso
pubblico del nostro paese, tutto questo non esiste. Ci si chiede
semmai come lucrare a breve qualche voto dalla vittoria di Trump,
roba assurda. E, siccome in Italia è sempre l’8 settembre, ora
spuntano come funghi i sostenitori della prima ora del nuovo
presidente americano.
L’ufficio della Casa Bianca è il più
difficile del mondo. Ora lo abita un uomo che non ha alcuna
esperienza politica o militare, che ha sinceramente affermato di non
conoscere il mondo. Dobbiamo sperare che il suo mandato assomigli al
discorso della prima notte piuttosto che a quelli con i quali ha
preso i voti. Altrimenti il vento diventerà burrasca. Verrebbe da
dire, specie a sinistra, di stare molto attenti.
Di fronte a questa fase inedita la
sinistra può compiere i suoi due errori tradizionali. Mettersi a
rincorrere il populismo o l’antieuropeismo o non capire la
necessità di un discorso di redistribuzione che assuma il tema della
caduta di ruolo sociale come centrale per la sua azione.
Ma il paradosso contrario sarebbe anche
grottesco. Sarebbe ridicolo se la sinistra, in questo mondo sconvolto
da un muramento gigantesco che investe tutta la sfera della vita
degli umani pensasse, come fa tradizionalmente quando è smarrita dal
nuovo, che la soluzione è tornare al Novecento, a quelle ricette, a
quelle opzioni. Che il tempo inedito si affronti con lo sguardo al
passato. O la si smette di litigare, si torna a cercare di capire la
società, di interpretare il dolore e le ansie del popolo, si
rafforza il riformismo sociale e la capacità di innovare o tutto
finirà male. Davvero male. La sinistra debole e divisa, vecchia o
elitaria è un fattore di questa crisi. Fu così, in altri momenti
tragici della storia. Sveglia, prima che sia troppo tardi.
domenica 13 novembre 2016
Senatore Corsini...ma quale libertà di coscienza?
Riccardo Imberti
Mi
chiedo come ci si possa appellare alla libertà di coscienza di
fronte ad un voto che, il 4 dicembre, non riguarderà i principi
fondamentali della Costituzione, ma semplicemente il rapporto tra
Stato e Regioni, o le modalità più efficienti ed efficaci per fare
le leggi. Il sen. Paolo Corsini lo sa bene, tant’è vero che “tende
a precisare” a Beppe Pezzotti, nella lettera del 4 novembre a
questo Giornale, che lui “propenderebbe” soltanto per il No alla
riforma costituzionale, ma non vorrebbe prefigurare schieramenti
politici con i compagni di viaggio No-global e No-euro. Eppure è
recente il manifesto che presenta il sen. Corsini tra due importante
relatori della Lega Nord, impegnati in un dibattito a favore del No
in quel di Chiavenna.
Immagine che farebbe accigliare il sen. Mino Martinazzoli che nel
1994 aveva preso proprio dalle mani di Corsini il testimone della
candidatura a sindaco di Brescia per impedire il governo della città
alla rampante Lega Nord per l’indipendenza della padania. Tirato
per i capelli da Massimo D’alema, il senatore Corsini non si
ritiene vincolato dal voto ricevuto dagli elettori bresciani, né
dalla disciplina di partito. Non pensa che il No alla riforma
costituzionale mantiene
l’attuale assetto e quindi il ritorno al sistema elettorale
proporzionale e quindi ad una prospettiva di governi di “larghe
intese”, con drammatici dubbi sulla conseguente politica economica,
sociale, europea, mediterranea e atlantica. La disciplina di partito
non è più una virtù. Questa è la riforma della Costituzione che
il Pd ha discusso, condiviso, modificato, plasmato e poi votato in
Parlamento. Anche da parte del sen. Corsini, credo. Questo
referendum,
tra l’altro, deve essere collocato in un contesto complessivo di
riforme volute dal governo sui temi del lavoro, della scuola, della
pubblica amministrazione. Il
partito democratico
è
giovane, ma è un partito, composto da cittadini semplici, militanti
di base, intellettuali, impegnati a traghettare il centrosinistra
italiano verso la modernità. Non avrebbe bisogno di essere diviso e
lacerato.
sabato 12 novembre 2016
Bauman: 'L'imbroglione Trump è un veleno, venduto come antidoto ai mali di oggi'
Espresso 11 novembre 2016
Giuliano Battiston
Per Zygmunt Bauman, decano dei
sociologi europei, tra i più autorevoli pensatori contemporanei, la
vittoria elettorale di Donald Trump è un sintomo allarmante:
riflette il divorzio ormai avvenuto tra potere e politica, da cui
deriva un vuoto, un divario colmato da chi promette soluzioni facili
e immediate a problemi complessi e sistemici, attingendo al ricco
serbatoio della retorica populista.
Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari».
Trump – spiega Bauman a l'Espresso – ha saputo giocare abilmente la carta dell'outsider e dell'uomo forte, combinando una politica identitaria discriminatoria e l'enfasi sulle ansie economiche dei cittadini americani, figlie del passaggio da un modello economico inclusivo a un modello che esclude, marginalizza e crea veri e propri esiliati. Trump si è presentato come l'antidoto alle incertezze del nostro tempo, ma è un veleno, sostiene Zygmunt Bauman, per il quale la vittoria dell'imprenditore statunitense lascia presagire il rischio che i tradizionali meccanismi di tutela democratica vengano sostituiti «dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino autoritari».
Negli Stati Uniti e in Europa la
reazione prevalente alla vittoria di Trump, perlomeno negli ambienti
progressisti, è stata di stupore e paura. C'è chi ha parlato di «un
grande pericolo», chi di «una sfida al modello democratico
occidentale», chi di «una tragedia per la repubblica americana e
per la Costituzione». Questi toni a tratti apocalittici le sembrano
appropriati?
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.
Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse
Le visioni apocalittiche spuntano fuori ogni volta che la gente entra nel “grande territorio sconosciuto”: quando si è certi che nulla, o molto poco continuerà a essere così come è stato, e non si ha alcun indizio su ciò che è destinato ad accadere o su ciò che probabilmente sostituirà quel che ci lasciamo alle spalle. Le reazioni alla vittoria di Trump hanno proliferato velocemente. La cosa sorprendente è che siano tutte consensuali: così come è successo nel caso del voto per la Brexit, si interpreta il voto per Trump come una protesta popolare contro l'establishment e l'elite politica del Paese nel suo complesso, nei confronti dei quali una larga parte della popolazione ha maturato una crescente frustrazione per aver disatteso le aspettative e non aver mantenuto le promesse fatte. Non sorprende che tali interpretazioni siano particolarmente diffuse tra coloro che hanno forti interessi acquisiti nel mantenimento dell'attuale establishment politico.
Mentre Trump ha giocato proprio la carta dell'outsider...
Non essendo parte di tale elite, non avendo ricoperto alcun incarico elettivo, provenendo “dal di fuori dell'establishment politico” ed essendo ai ferri corti perfino con il partito di cui era formalmente membro, Trump ha offerto un'occasione unica per una condanna, senza appelli, contro l'intero sistema politico. Lo stesso è successo nel caso del referendum britannico, quando tutti i principali partiti politici (dai conservatori al Labour e ai Liberals) si sono uniti nella richiesta di restare nell'Unione europea, così che ogni cittadino ha potuto usare il proprio voto per esprimere il disgusto per il sistema politico nella sua interezza. Un altro fattore, complementare, è stato la notevole brama della popolazione affinché l'infinita litigiosità parlamentare, inefficace e impotente, venisse
E poi muri da erigere, dittatori da
esaltare, immigrati da deportare, bufale da cavalcare. È giunto il
momento di analizzare la credibilità di questo candidato attraverso
le sue stesse parole. Perché sì, Donald Trump può diventare il
nuovo presidente degli Stati Uniti d'America sostituita dalla volontà indomita e
inoppugnabile di “un uomo forte” (o di una donna forte), capace
con la sua determinazione e con le sue doti personali di imporre in
modo immediato, senza tentennamenti e temporeggiamenti, soluzioni
veloci, scorciatoie, decisioni vere. Trump ha costruito abilmente la
propria immagine pubblica come una persona ricca di quelle qualità
che l'elettorato sognava. Quelli appena citati non sono gli unici
fattori che hanno contribuito al trionfo di Trump, ma sono senz'altro
cruciali. Al contrario, la trentennale appartenenza di Hillary
Clinton all'establishment e la sua agenda politica frammentata e
compromissoria hanno giocato contro la popolarità della sua
candidatura.
Concorda con quanti si spingono a leggere la
vittoria di Trump come una manifestazione della crisi del modello
democratico occidentale?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.
Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?
Credo che stiamo assistendo all'accurato svisceramento dei principi della “democrazia”, che si presumeva fossero intoccabili. Non credo che il termine in sé verrà abbandonato, almeno come termine con cui descrivere un ideale politico, anche perché quel “significante”, come lo avrebbe definito Claude Levi-Strauss, ha assorbito ed è ancora capace di generare molti e differenti “significati”. C'è però una chiara possibilità che i tradizionali meccanismi di salvaguardia (come la divisione di Montesquieu del potere in tre ambiti autonomi, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, o il sistema britannico di checks and balances) escano in qualche modo dal favore pubblico e vengano privati di significato, sostituiti in modo esplicito o di fatto dall'agglutinamento del potere in modelli autoritari o perfino dittatoriali. Le citazioni che lei ha riportato come reazioni alla vittoria di Trump indicano tutte una preoccupazione comune, sono sintomatiche di una tendenza crescente, che esiste: la tendenza a riportare – per così dire – il potere dalle nebulose vette elitarie dove è stato collocato o dove è stato trascinato verso “casa”. La tendenza dunque a riportare il potere all'interno di una comunicazione diretta tra l'uomo forte al vertice da una parte e dall'altra l'aggregazione dei suoi sostenitori e soggetti di potere, equipaggiati con i social network come strumenti di indottrinamento e di sondaggio delle opinioni.
Nel corso della campagna elettorale, Trump ha molto insistito sulle questioni razziali e sul nazionalismo più insulare e discriminatorio, ma non ha fatto appello solo a questi temi. Al di là degli attacchi sistematici verso i “diversi”, ha giocato la carta dell'incertezza economica di tutti quei cittadini americani che hanno la percezione di essere stati defraudati dai processi di globalizzazione. I due aspetti – l'ansia economica e l'ansia verso gli “altri” – sono legati? E come?
Trionfa il mito del cowboy bianco,
l'America non urbana, i tea party. Escono sconfitte le donne, le
minoranze, le lotte per i diritti. Resoconto di una battaglia
elettorale giunta al termine
Il trucco è stato proprio quello di
connettere i due aspetti, di renderli inseparabilmente legati e di
rafforzarli vicendevolmente. È ciò che è riuscito a fare Trump, un
supremo imbroglione (anche se non è il solo nel panorama politico
mondiale). Sono incline ad andare perfino oltre nell'analisi dell'uso
che Trump ha fatto del matrimonio tra politica identitaria e ansia
economica, perché credo che sia riuscito a condensare tutti gli
aspetti e i settori dell'incertezza esistenziale che perseguita ciò
che è rimasto della classe lavoratrice e della classe media,
indottrinando coloro che soffrono con l'idea che l'espulsione degli
stranieri, di quanti sono etnicamente diversi, degli stranieri appena
arrivati rappresenti la tanto agognata “soluzione veloce” che li
potrebbe ripagare in un colpo solo di tutta la loro ansia e
incertezza.
Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica.
In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.
Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?
Tra quanti hanno votato Trump, alcuni fanno parte della categoria degli “espulsi”: quei cittadini che facevano parte di un “contratto sociale” ma che ne sono stati espulsi forzatamente, insieme a quelli, giovani ma non solo, che non ne sono stati parte e non lo saranno mai in futuro. La vittoria di Trump rappresenta la fine del modello economico inclusivo, keynesiano, del dopoguerra, sostituito da un modello di segno opposto, che esclude?
Il passaggio da una visione del mondo, da una mentalità e da una politica economica che include a una che esclude non è affatto nuovo. È stato un passaggio strettamente sincronizzato con un altro salto qualitativo, quello da una società di produttori a una società di consumatori, che non sarebbe stato possibile senza la marginalizzazione, ovvero la creazione di una “sottoclasse” che non soltanto è degradata rispetto alla società delle classi, ma ne è stata del tutto esiliata, una categoria di “consumatori fallati” talmente esclusa da non poter essere riammessa. L'attuale tendenza verso la “securitizzazione” dei problemi sociali aggiunge acqua allo stesso mulino: rende le reti dell'esclusione ancora più ampie, mentre trasferisce coloro che finiscono in queste reti da una categoria che, per quanto inferiore, rimaneva di segno “positivo”, a una divisione che, per quanto morbida, rimane micidiale, sinistra e tossica.
In alcuni suoi libri, per esempio ne La solitudine del cittadino globale, lei analizza ciò che definisce come «la trinità malvagia», l'incertezza, l'insicurezza e la vulnerabilità, sentimenti prevalenti in un mondo in cui è avvenuto il divorzio tra potere e politica. È inevitabile che tale divorzio conduca all'uomo forte o al populismo?
Sì, tendo a credere che sia inevitabile. Il divorzio a cui fa riferimento lascia dietro di sé un divario – un divario che si sta spaventosamente allargando – dal quale emana la combinazione avvelenata della disperazione e della sfortuna. Gli strumenti ortodossi, che credevamo familiari e disponibili, per combattere e respingere efficacemente i problemi e le ansie che ci attanagliano sono ormai spuntati. Soprattutto, non si crede più che possano mantenere quanto promettono. Per una società nella quale sempre meno persone ricordano, di prima mano, cosa significasse vivere sotto un regime totalitario o dittatoriale, l'uomo forte – non ancora sperimentato - non sembra un veleno, ma un antidoto: per le sue presunte capacità di saper fare le cose, per le soluzioni veloci e istantanee, per gli effetti immediati che promette di portare come corredo alla sua nomina.
Beppe Grillo, il leader italiano del Movimento Cinque Stelle, ha sottolineato le similitudini tra le vittorie elettorali del suo partito e quella di Trump scrivendo che «sono quelli che osano, gli ostinati, i barbari, che porteranno avanti il mondo. E noi siamo i barbari!». È tempo che l'establishment faccia veramente i conti con i nuovi barbari?
«Donald ha fatto un VDay pazzesco»
dice Grillo, incurante delle accuse di chi gli dice di guardare a
destra e saltare sul carro del vincitore. Il senatore M5S Nicola
Morra spiega perché l'imprenditore in effetti fa simpatia e cos'ha
in comune coi pentastellati
In Europa, i vari Grillo sono molto
numerosi. Per coloro per i quali la civiltà ha fallito, i barbari
sono i salvatori. In alcuni casi è ciò che loro si sforzano in
tutti i modi di far credere per convincere i creduloni che sia
proprio così. In altri casi è ciò che desiderano ardentemente
credere coloro che sono stati abbandonati e dimenticati nella
distribuzione dei grandi doni della civiltà. Alcuni membri
dell'establishment potrebbero essere impazienti di approfittare
dell'occasione, dal momento che coloro che credono nella vita postuma
a volte sono disposti a suicidarsi.
venerdì 11 novembre 2016
giovedì 10 novembre 2016
Se l’impossibile diventa realtà
Alfredo Bazoli
E così eccoci qui, ancora una volta, a
valutare l’esito di una consultazione elettorale sorprendente, che
ribalta ogni pronostico e mostra che l’impossibile diventa realtà.
Era già accaduto con la Brexit, ora di
nuovo con la vittoria di Trump alle presidenziali americane.
Un uomo per molti versi impresentabile,
politicamente scorretto, che ha attaccato duramente, ai limiti
dell’insulto, minoranze, paesi stranieri, avversari politici,
volgare e sessista, senza alcuna esperienza di governo e di politica,
profondamente odiato dai democratici e avversato anche dal partito
repubblicano, insomma un uomo del tutto inadatto e che in un’altra
epoca non avrebbe passato le prime selezioni, un uomo così, a
dispetto di tutti i pronostici e le aspettative, di tutti i nemici e
gli avversari, ha sbaragliato la concorrenza, ha annichilito ogni
aspettativa, ed è diventato presidente degli Stati Uniti.
Come è potuto succedere? E che
significa?
C’è, nelle spiegazioni che sento e
leggo diffusamente, qualcosa che non torna.
Si dice che è la crisi economica, che
è la classe bianca che ha sperimentato quella crisi a reagire
rabbiosamente.
Eppure negli ultimi otto anni di
presidenza Obama, l’America ha vissuto una crescita economia
poderosa, la disoccupazione è calata dai livelli drammatici del 2008
a limiti fisiologici, la borsa ha continuato a correre.
Insomma, gli USA la crisi economica se
la sono lasciati alle spalle da un bel po’, al contrario di quello
che sta capitando a gran parte dell’Europa.
Dunque c’è qualcosa di più che non
la spiegazione economica, a motivare questa rabbia, questa voglia di
rovesciare il tavolo che si è espressa in modo così sorprendente in
queste elezioni, seguendo un’onda partita dalla brexit, e che
dunque riguarda tutte le democrazie occidentali.
Io me la spiego così.
È l’onda di una paura, di una
angoscia che sta mettendo le radici dentro le società occidentali,
figlia di un disordine mondiale che sentiamo minaccioso, che ci
spaventa attraverso il terrorismo che si fa stato, feroce e
nichilista, che ci destabilizza e preoccupa con le ondate migratorie
pressanti e apparentemente ingestibili, che ci rende insicuri con le
incertezze di una economia instabile, che non da sicurezze e
prospettive.
Questa paura sta dilagando nel ceto
medio, o in quel che ne resta, sta corrodendo piano piano ma
inesorabilmente la fiducia nel futuro, nella provvidenza della
storia.
Da alcuni anni la sensazione diffusa è
che il futuro dei nostri figli sarà peggiore del nostro.
E allora la risposta sta nel desiderio
di rompere questa deriva minacciosa, di lacerare questo meccanismo,
di rovesciare questo piano inclinato affidandosi a chi meglio di
altri può portare alla rottura totale del sistema.
Con tutte le incognite, i rischi e le
ulteriori incertezze che ciò comporta.
Ma se così stanno le cose, è chiaro
che alla politica che cerca le soluzioni, che non si limita a urlare,
che si sforza di unire, spetta di raccogliere questo sfogo, questa
rabbia, di farsene carico, di trasformarla in progetto per il futuro.
Il campanello d’allarme per le
democrazie occidentali è ora.
Se non saremo capaci di una svolta
seria e credibile, a partire dall’Europa, finiremo per essere
travolti tutti, e rischieremo di trovarci, alla fine, e a dispetto
delle illusioni date da risposte semplici, più poveri e insicuri di
prima.
mercoledì 9 novembre 2016
E i trumpisti de noantri vanno all’assalto di Renzi
Mario Lavia
L'Unità 9 novembre 2016
Bruttisimo momento per i progressisti
di ogni latitudine
Si solleva l’onda trumpista su tutto
il mondo (i vari Erdogan, Putin, Farage, Le Pen) e qualche spruzzo
lambisce l’Italia galvanizzando i Salvini, i Brunetta, i Grillo.
In una fase già caldissima di suo –
a poco più di 20 giorni dal voto referendario – l’inatteso
trionfo di Donald Trump alimenta le pulsioni, come si dice adesso,
anti-establishment, vellica la pancia, aizza il risentimento: e il
governo Renzi, e personalmente il premier, vengono messi nel mirino
con rinnovata forza polemica.
Nel voto americano non è difficile
scorgere molte cose che riguardano lo stato di salute delle
democrazie occidentali e della politica in quanto tale: ed è come se
la politica, intesa come regolazione della passioni, venisse
fulminata nelle urne, lasciando le passioni (comprese le peggiori)
andare per proprio conto a briglia sciolta.
Brutto affare, per chi crede nella
politica come mediazione fra i bisogni e il governo reale.
Bruttissimo affare soprattutto per i riformisti di ogni latitudine.
E così, dopo la sbornia di stanotte,
un Brunetta molto su di giri reclama le dimissioni del presidente del
consiglio: “Rimetta il mandato nelle mani di Mattarella”. E
perché? Perché – dice il capogruppo forzista – “ha schierato
l’Italia con la Clinton”:il che è chiaramente una
sciocchezza, ma può suonare bene.
Ben venga un voto che in qualche modo
sfascia certezze consolidate – progressisti contro conservatori
affidabili: è Beppe Grillo che a momenti si intesta la vittoria di
The Donald, che in fondo, ha lanciato un “vaffa” pesantissimo e
vincente proprio come hanno fatto i Cinquestelle. C’è un po’ di
delirio di onnipotenza in questo ma sotto sotto un po’ è vero:
Grillo e Trump non sono forse due newcomers apparsi sulla scena
chissà da dove e impostisi in un baleno contro tutte le previsioni?
E poi c’è Salvini, il primo
“trumpista” italico, colui che andò a stringere la mano ad un
Trump che probabilmente nemmeno sapeva chi era quel ragazzone
italiano. Oggi, il Matteo di Milano, è entusiasta. Quando dice che
«il popolo batte i poteri forti 3 a 0», Salvini cavalca un’antica
contrapposizione (popolo contro potere) tipica del pensiero
reazionario fra le due guerre mondiali ma soprattutto coglie e
esaspera la propensione di un pezzo di società a fare a meno della
politica, esalta il nichilismo proprio di questa stranissima fase
storica nella quale muoiono le tradizionali forme della politica
(Hillary è risultata “troppo” tradizionale anche per i
democratici americani) ma non si vedono alternative serie
all’orizzonte.
Per Matteo Renzi è un nuova grande
nuvola sulla testa. Al di là delle strumentalizzazioni del voto
americano – per cui è un gioco un po’ così proiettarlo sul
referendum del 4 dicembre – non è chiaro se siamo dentro un
inarrestabile ciclone reazionario e populista. Ma di certo il clima è
cambiato.
La vittoria dell’inquietudine e della rabbia
Stefano Cagelli
L'Unità 9 novembre 2016
Trump è stato in grado, solo contro
tutti e contraddicendo la sua biografia, di interpretare i sentimenti
dell’America profonda. Ora si apre un’epoca nuova per il mondo,
piena di incognite
Ciò che in pochi, pochissimi, si erano
immaginati, è diventato una cruda realtà: Donald Trump,
l’impresentabile, l’irriverente, il maleducato, il razzista, il
sessista è il 45esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Ha
vinto la battaglia della vita contro Hillary Clinton, data per
favorita da tutti i sondaggi, sostenuta in maniera unanime dalla
stampa nazionale, appoggiata dalla quasi totalità delle cancellerie
occidentali e dal presidente uscente Barack Obama, all’apice della
sua popolarità, che si è speso per lei in gran parte degli stati
chiave per la vittoria finale.
La vittoria di Trump è il compimento
della campagna elettorale peggiore della storia degli Stati Uniti.
Una campagna in cui il magnate è stato in grado, solo contro tutti,
di incarnare e interpretare il sentimento anti-establishment
serpeggiante nella società americana. A dispetto del sostegno a dir
poco tiepido da parte del partito repubblicano, è stato capace di
intercettare e addirittura incrementare i voti nelle roccaforti
storiche del Gop e di andare a “rubare” voti tradizionalmente
democratici.
Solo venti giorni fa, addirittura il
candidato vicepresidente Mike Pence aveva (quasi) voltato le spalle a
Trump, dopo lo scandalo legato al video sessista di qualche anno
prima. E’ stato il momento in cui sembrava che la partita per la
presidenza fosse chiusa. E’ stata, evidentemente, una valutazione
sbagliata, non solo da parte di tutti gli osservatori ma anche dai
sondaggisti. Da quel momento in poi, infatti, è cominciata una
rincorsa apparentemente disperata, il cui esito ci dice molto di
quello che sta succedendo nella società americana, che poi non è
tanto diverso da quanto accade in Europa.
Trump si è scusato ma contestualmente
ha inasprito ancor di più, se possibile, il tono dello scontro, non
solo contro Hillary Clinton e il suo passato ma contro il sistema in
tutta la sua complessità. Contro i media, contro i politici che
hanno impoverito l’America, contro gli immigrati che hanno invaso
il Paese, contro i trattati internazionali. E questa escalation
politica e verbale ha evidentemente pagato, nonostante la biografia
di Trump rappresenti tutto fuorché il profilo di un paladino dei
diritti dei più deboli.
Ha detto le cose che la gente voleva
sentirsi dire. Ci sarà modo di analizzare nel dettaglio i motivi e
le dinamiche di questa incredibile vittoria, ma alla base di tutto
c’è esattamente quello che si riassume con una parola e una sola:
populismo. La gente chiede questo? Io gli do questo. Il popolo è
arrabbiato per quest’altro motivo? Io punto il dito contro la causa
di questa rabbia. Tutto questo si è tradotto in una notte elettorale
da incubo che ha visto via via crescere le speranze di vittoria di
Trump, fino a farle diventare prima probabilità e poi certezza.
Ora dovrà governare il Paese più
importante del mondo, più spaccato che mai. Ora, per dirla alla
Obama, “avrà in mano i codici nucleari”, il destino del mondo è
anche e soprattutto sulle sue spalle. Da cittadini del mondo non
possiamo che augurarci che lui stesso, chi gli sta vicino, il partito
che lo appoggia (e che avrà la maggioranza al congresso) capiscano
la portata e le conseguenze che avranno le loro determinazioni.
Dall’altra parte Hillary Clinton esce
di scena nella maniera più brutta e più triste possibile. L’ultimo
capitolo della sua vita politica sarà questo, non ce ne saranno
altri. Il sogno di diventare presidente svanisce contro l’uomo che
ha usato nei suoi confronti le parole più brutte mai pronunciate
prima. Anche in questo caso ci sarà il tempo e lo spazio per
analizzare i motivi della sconfitta, l’opportunità di una
candidatura così legata a quel sistema che Trump ha individuato come
l’obiettivo da colpire e che, evidentemente, l’America profonda
ha voluto punire, le conseguenze delle indagini dell’Fbi
sull’emailgate. Quel che è certo è che la sua base elettorale
l’ha abbandonata nel momento più importante. I giovani, gli
immigrati, i più deboli avrebbero dovuto portarla alla Casa Bianca.
Così non è stato e su questo tutto il partito democratico dovrà
interrogarsi a fondo.
Quella che si apre da domani è una
fase nuova, inedita, piena di incognite, per l’America e per il
mondo. Si è chiusa un’epoca e se ne apre un’altra che investirà
tutto, dall’economia agli equilibri internazionali. Nel 2008, con
la prima elezione di Barack Obama, parlammo di un evento storico.
Ebbene, anche oggi dobbiamo parlare di un evento storico. Otto anni
fa il sentimento-simbolo che coinvolse tutto il mondo era quello
della speranza, oggi è quello dell’inquietudine. Solo il futuro ci
dirà come andrà a finire.
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