Mario Lavia
L'Unità 19 aprile 2016
Il giorno dopo da parte di chi ha
scambiato il referendum come occasione di sferrare un ko al governo
ci si aspetta qualche riflessione. E invece niente
Il giorno dopo, ti aspetteresti qualche
autocritica o – più dolcemente – qualche riflessione. Invece è
rimasto sulla scena solo Michele Emiliano, oltre ogni ragionevole
dubbio impavido a rivendicare una performance solo per lui
“straordinariamente positiva”, provando a fare un mesto gioco
delle tre carte (“Prima del voto avevamo già vinto 5 a 0”: ma
che vuol dire?).
Però a Emiliano in qualche modo va
dato atto di saper tenere alta la sua bandierina, anche se lacerata
dal vento delle astensioni, a differenza di tutti gli altri compagni
di cordata, uno dopo l’altro repentinamente spariti, chi con una
scusa chi con un’altra come alle feste piene di gente antipatica.
Una sfilza di io non c’ero e se c’ero dormivo, vero Salvini? Dove
l’hai messa la maglietta con “Io voto”? E lei, gentile
Brunetta, dov’è finito con i suoi amici o ex amici di Forza Italia
e di Fratelli d’Italia (eh già, dov’è Giorgia Meloni, sempre
combattiva tranne quando si perde). E soprattutto, dove è
Grillo e dove sono i grillini?
Quelli che avevano scambiato il
referendum per una specie di Ok Korral dove far sparire il governo.
Dove sono il Dibba e la Lombardi che sui social evocava il povero
Borsellino per motivare al voto? E dov’è il potenziale ma già
bocciato premier Di Maio? Ecco dov’era ieri mattina: a teorizzare
che il referendum in fondo non era roba loro ma un episodio della
“guerra per bande” interna al Pd, insomma chi se ne importa se
non siamo riusciti a convincere nemmeno i nostri cari e i nostri
elettori ad andare a votare, l’importante è gettare vangate di
contumelie sul Pd, sui suoi dirigenti, sui suoi militanti,
intossicando social e talk – e bisognerà che le persone serie si
adoperino per riportare un minimo di civiltà politica in ogni
ambito, compresi talk e social, perché questa isteria non fa bene a
nessuno, tantomeno al Paese.
E questi qui vorrebbero governare
l’Italia muovendo guerra (a parole o parolacce) contro tutti quelli
che non la pensano come loro? Politici che fuggono dinanzi alle
difficoltà, alle proprie sconfitte, ai propri errori, quanto è
affidabile? E purtroppo qui il discorso vira anche sulla sinistra più
a sinistra. Quella esterna al Pd e quella interna. C’è proprio da
usarla, l’espressione “purtroppo”.
Già: purtroppo a questa sinistra sta
clamorosamente venendo meno l’abc di una grande storia politica,
rifiutandosi di aprire una riflessione vera su quel che accade fuori
di sé, sulle ragioni per le quali non riescono a persuadere una
parte rilevante del popolo italiano, sul perché a fronte di tante
critiche e denunce all’indirizzo di Renzi non riescano a crescere
né politicamente né organizzativamente.
Ma è destino che tutto ciò che nasce
a sinistra debba sempre rifluire nel settarismo e
nell’autoreferenzialità? Che non ci sia mai un granello di
autocritica? Spiace ricordarlo, ma quando nel 1978 il Partito
comunista italiano perse le amministrative di Castellammare di Stabia
(non di Milano o Roma: di Castellammare di Stabia) tenne una riunione
della segreteria e poi della direzione per discuterne. Questi di oggi
stra-perdono un referendum e sono contenti, o al massimo danno la
colpa del proprio insuccesso agli altri.
E sulla sinistra Pd il problema resta
quello, mai risolto compiutamente, del senso di una battaglia
politica che ormai viene condotta in permanenza pur senza vincere
mai, senza allargare mai il proprio perimetro. Sia chiaro: il giorno
dopo un risultato così chiaro pensavamo di non polemizzare con
nessuno. La campagna elettorale è finita, i cittadini non hanno
seguito i referendari bensì l’indicazione di Renzi ad astenersi.
Stop alle discussioni, è un altro giorno. Poi, però, vedi la voglia
di rivincita, le bocche che schiumano rabbia, la tensione che non si
allenta, la caccia alla prossima imboscata. Lezioni da trarre per
loro dalla sonora sconfitta? Nessuna. Ecco, questa è cattiva
politica.
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