di Sabino Cassese
Corriere della Sera 14 aprile 2016
Le vicende del
giacimento Tempa Rossa, venute agli onori della cronaca nazionale,
offrono uno spaccato del modo in cui si decide in Italia. Siamo in
Basilicata, una delle regioni più povere d’Italia («terra senza
conforto e dolcezza»: Carlo Levi) con la più vasta area di
estrazione di idrocarburi a terra di tutta l’Europa occidentale.
Una decina di compagnie petrolifere, molte straniere, iniziano negli
anni 80 le procedure per ottenere le concessioni. Queste passano
attraverso quattro ministeri nazionali e la Regione. L’«iter»
riguardante Tempa Rossa subisce un arresto di due anni, nel 2008, a
causa di un intervento della Procura locale. Solo nel 2014 il Comune
rilascia il permesso di costruire l’impianto. Si ferma nuovamente a
causa di un intervento del Tribunale amministrativo regionale. Dalla
domanda all’autorizzazione sono passati sette anni. Nel frattempo
sono intervenute negoziazioni complesse con le amministrazioni
territoriali, Regione e Comuni, che hanno portato nelle casse di
questi enti cifre cospicue. È stato calcolato che la Basilicata dal
1998 al 2014 abbia incassato dall’insieme delle concessionarie
petrolifere 1.350 milioni di euro; sono stati previsti sconti
carburanti per residenti, piani di promozione sociale ed economica,
persino redditi di cittadinanza, tutto a carico delle compagnie
petrolifere. Ma il petrolio non deve essere solo estratto, deve anche
essere trasportato e raffinato. Qui sorge un altro problema.
Bisogna costruire un oleodotto lungo 8
chilometri collegato a quello che conduce a Taranto, che è in una
regione confinante, la Puglia; questa lamenta che le royalties vadano
alla Basilicata, i rischi ambientali siano pagati dalla Puglia. I
conflitti locali rischiano di bloccare l’estrazione di idrocarburi.
Il governo decide di applicare alle opere strumentali (tra cui
l’oleodotto) la stessa procedura unificata e centralizzata che era
stata usata per l’impianto petrolifero, perché è irragionevole
procedere speditamente per l’infrastruttura per poi rimanere
bloccati per le opere strumentali. Interviene nuovamente il sistema
giudiziario: procura, giudici amministrativi; viene tirato in ballo
anche il giudice costituzionale. Il resto è noto.
Il costo dei soli ultimi eventi è
stato stimato in 10 miliardi, che non includono l’effetto annuncio
sugli investimenti stranieri in Italia e non valutano il costo e i
rischi ambientali derivanti dal maggiore ricorso all’importazione
di idrocarburi mediante trasporto navale. Ecco qualche lezione che si
può trarre da tutta questa vicenda. Innanzitutto, i tempi. È
possibile che in una nazione che ha bisogno di investimenti,
occupazione e fonti di energia, ci voglia più di un quarto di secolo
per portare a regime una attività produttiva?
In secondo luogo, gli «attori» di
questa vicenda. Troppi uffici, troppi enti, troppe «voci».
Decisioni prese al centro vengono messe in discussione in periferia.
Scelte fatte dopo attento esame dall’amministrazione vengono poste
in dubbio dai giudici. Ognuna di queste «voci» ha un suo diverso
interesse, alcune sono pronte a partecipare al banchetto. Si diceva
una volta che troppi cuochi facessero una pessima cucina.
Terzo punto debole: nessuna sequenza
predefinita, la possibilità per tutti, dal più piccolo Comune
all’associazione ambientalista, dal Ministero alla Regione, di
intervenire e re-intervenire, in ogni momento, mettendo sempre in
discussione le decisioni prese. Per un confronto, l’Autostrada del
Sole fu costruita in meno di dieci anni, le linee dell’Alta
velocità ferroviaria in circa quaranta anni. Dobbiamo pensare che i
tempi di realizzazione delle infrastrutture seguano in futuro una
progressione di tempi come questa? Da ultimo: gli effetti sistemici:
lunghezza delle procedure di decisione, perenne ridiscussione di
tutto, continuo ritornare sulle scelte fatte, costante riaffacciarsi
di impedimenti, continui contrasti tra amministrazione e giustizia,
conflitti tra Regioni e tra Comuni producono sfiducia nello Stato,
disaffezione, protesta, e finiscono per ricadere con costi enormi su
quegli stessi enti ed organismi che hanno suscitato queste reazioni.
I rimedi a questa impossibilità di decidere sono molti, ma sopra gli
altri ce n’è uno, quello di canalizzare la partecipazione degli
interessati (paradossalmente, anche quella delle procure, visto che
ormai sono entrate a pieno titolo nel percorso delle decisioni
collettive) prima che questa si trasformi in opposizione: sono parole
che si possono leggere in un eccellente studio condotto da un gruppo
di bravissimi ricercatori, guidati da Luisa Torchia, in un libro
appena uscito su I nodi della pubblica amministrazione (Editoriale
scientifica, Napoli, 2016).
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