18 Marzo 2020
Il 24 marzo 1980 veniva ucciso a San Salvador mons. Oscar
Romero. Riportiamo il suo ricordo di Paolo Giuntella pubblicato nel
primo numero della rivista “Il Margine” (n.1 /1981).
di Paolo Giuntella
Oscar Arnulfo Romero: un nome, è asprissimo doverlo ammettere,
già dimenticato, inciso indelebilmente in poche carni. Il suo paese
e i suoi contadini gli sopravvivono devastati, fra i cadaveri
calpestati dai militari, dai miliziani. Eppure è stato un vescovo
ucciso in chiesa al momento dell’elevazione: ma i primi a
dimenticarlo sono già i cattolici, la sua Chiesa cui fu sempre
serenamente fedele, fino al martirio.
Conobbi Romero a Roma, in una disadorna
saletta di pensionato cattolico, nella quale l’intervistai. Un uomo
vivace, che portava qualche segno indio nel volto, e che ricordava La
Pira nei gesti espressivi e rapidi, in quelle mani mai ferme che
accompagnavano, quasi a volerle illustrare, le parole. Non
dimenticherò mai i suoi occhi, così neri e intensi. Un piccolo uomo
energico, così diverso dalla fragilità profetica di Helder Camara.
Raccontava con naturalezza, con il sorriso che può nascere solo dopo
la contemplazione «attiva» della croce, la scelta della sua Chiesa,
la scelta dei poveri come scelta pastorale anzitutto. Ed anche la sua
testimonianza nonviolenta, aveva qualcosa di diverso dalla cultura
gandhiana di Luther King, Danilo Dolci e dello stesso Esquivel. La
sua era una scelta nonviolenta «pastorale», cioè popolare, senza
fronzoli eccessivi e memorie, sia pure nobilissime, di esperienze
diverse. Una sorta di nonviolenza meno «spiritualista», più
latina.
La Chiesa per Romero non poteva che scegliere in una
direzione.
Per essere la Chiesa del popolo, per stare con il popolo. Questa,
certo, diventava anche una scelta politica, un giudizio sul regime,
una scelta di campo. Ma nasceva da una lettura pastorale dei segni
dei tempi. Questa forse la diversità. Insomma Romero non voleva
assolutamente essere un pastore politico. Ma un pastore. E perciò,
perché pastore, nella crudeltà dello sfruttamento del suo popolo,
la sua azione diveniva «politica».
Soffrire, morire con il popolo
Mi pare, ripensando a lui, che egli abbia messo in pratica con
coerenza le parole di Maritain: «Prima di fargli del bene, prima di
lavorare per il suo bene, prima di assecondare o meno la politica di
questi o quegli altri che ne esaltano il nome e gli interessi, prima
di giudicare in coscienza il bene e il male delle dottrine e delle
forze storielle che lo sollecitano o di farne una scelta — o forse
anche di rifiutarla in certi casi eccezionali — o necessario
scegliere di esistere con il popolo, di soffrire con lui, assumendone
sofferenza e sorte». Romero, scegliendo con la sua Chiesa di
esistere con, di soffrire con il suo popolo, ne ha assunto appunto, a
livello fisico e simbolico, la sofferenza e In sorte. Il suo popolo è
calpestato e crocifisso, ed egli ha gridato questa verità fino a
quando anche lui è stato crocifìsso con i chiodi dei mitra.
Eppure lo stiamo dimenticando. Pensate a quanta diversa sorte
hanno avuto, attraverso le macchine dei mass media (che hanno questa
terribile libertà di selezionare, rinchiudere e gonfiare le notizie)
i «miti» di Martin Luther King, «Che» Guevara o Albert
Schweitzer.
Romero è già inghiottito, con la complicità, per dirla con le
parole di un altro grande dimenticato — il premio nobel per la pace
1980, il cattolico Alfonso Perez Esquivel, già «occultato», prima
ancora della consegna ufficiale e mondana del riconoscimento — con
la complicità, sì diceva del «silenzio dei buoni», del silenzio
dei fratelli nella fede.
O forse o il destino dei «santi» dei poveri. Come il nobel della
pace sudafricano Albert Luthuli, perso nell’oblio della storia, o
il nobel della pace irlandese, ex militante dell’ Ira convertito
alla nonviolenza, Sean Mc Bride, o come l’«oscuro» indiano
Vinoba. C’è insomma anche una discriminazione dei buoni, dei
martiri, che l’industria della retorica, l’Imperialismo della
commozione dei ricchi, amministrano insieme al disordine costituito
della fame, delle libertà e dei sogni repressi, delle utopie
frantumate dei campesinos condannati dalle multinazionali e dallo
spìrito di Yalta.
Un giuramento di fedeltà
E no. Noi ci dobbiamo ribellare. Anche alla saggezza dei nostri
padri e maestri. Anche allo scetticismo verso il terzomondismo nei
nostri maestri riformisti, sanamente realisti, cautamente
progressisti.
Ci dobbiamo ribellare all’oblio. Diventare ostinati
annunciatori, ostinati ripetitori di nomi, sin quasi alla nausea ed
alla rabbia.
L’ho giurato nelle mani dì Romero. Lo giuro ancora quando
ritrovo tra le mie carte il suo piccolo biglietto da visita: Oscar
Arnulfo Romero, Arcibisbo. Arcibisbobado de San Salvador. «La mia
porta è sempre aperta per te, vieni». Giuriamolo insieme. Fino alla
noia.
Perché non si stenda su lui, su loro, il velo fradicio
dell’oblìo. L’effetto Reagan già comincia sentirsi sulle carni
dei suoi campesinos.
E i nostri ragazzi già dicono «Romero, chi era costui ?» perché
tanti nomi non ci dicono più nulla.
Nel suo ultimo scritto, prima di morire, trent’anni fa, Emmanuel
Mounier vergava il suo testamento: «fidelité». Fedeltà. E’ il
giuramento che noi dobbiamo stabilire alla fine di questo maledetto e
splendido, e maledetto ancora, decennio per il nostro avvenire.
Fedeltà. Fedeltà, padre vescovo Romero, volto futuro della
Chiesa di Dio. Fedeltà padre vescovo Romero, «segno» del militante
cristiano.
«Fonderanno i loro bazooka in trattori, i loro mitra
in motozappe. Un popolo non alzerà più cannoni contro un altro
popolo. Miliziani, squadrones de la muerte, militari non si
eserciteranno più nell’arte della guerra».
Que viva Romero.
Nessun commento:
Posta un commento