David Grossman
«Quando l'epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi
non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà
un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi
deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al
partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare
coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà
di credere in lui». Per David Grossman, non è detto che l'emergenza
coronavirus non possa insegnarci a essere più umani. Il celebre
scrittore israeliano ha affidato la sua riflessione a una lettera
tradotta da Alessandra Shomroni e pubblicata sull'edizione odierna de
La Repubblica.
Pur non minimizzando la situazione e definendo l'epidemia da
Covid-19 «più forte di qualsiasi nemico in carne e ossa che abbiamo
affrontato o di qualsiasi supereroe che abbiamo mai immaginato o
visto nei film», Grossman non crede che il mondo uscirà sconfitto
da questa pandemia. «Siamo - scrive l'autore di Che tu sia per
me il coltello - sofisticati, computerizzati, equipaggiati con
uno stuolo di armi, vaccinati, protetti dagli antibiotici».
Che il coronavirus sia stato sottovalutato, però, è innegabile.
Prosegue Grossman: «Di brutto sogno in brutto sogno sono gli uomini
a passare... pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il
che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare
affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero
potuto pensare alla peste che sopprime il futuro?» Tra dati e paura
di non sopravvivere alla pandemia, nelle nostre vite oggi va in scena
un dramma che Grossman definisce quasi biblico. «Una certa
percentuale della popolazione - dice lo scrittore - morirà. Negli
Stati Uniti si parla di un milione di probabili decessi. La morte è
tangibile». E ancora: «Sulle prime hanno proclamato "cancelliamo
i voli". Poi hanno chiuso i bar, i teatri, gli asili, le scuole,
le università. L'umanità spegne i suoi lampioni l'uno dopo
l'altro».
Secondo Grossman, però, quando l'emergenza sarà finita,
l'umanità ne uscirà migliore perché consapevole della sua
fragilità e della caducità della vita. Uomini e donne fisseranno
nuove priorità e impareranno a distinguere meglio tra ciò che è
importante e ciò che è futile. «Ci sarà - spiega - chi, per la
prima volta si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui
compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non
ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano
l'esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà forse
chi si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a
lottare a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una
guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo». E conclude: «Ci
sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del
benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua
consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta
altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio
non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i
mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella
nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato
nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima
dell'epidemia».
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