Tobia Zevi
Qual è la virtù specifica della mia generazione, quella diciamo
dei nati tra anni Settanta e Ottanta? Forse la flessibilità? O la
creatività? O la capacità di predire e interpretare la continua
innovazione tecnologica che trasforma le nostre vite?
Può darsi.
Il problema è che il Coronavirus
– senza negare l’importanza delle qualità di cui sopra – ci
sta sfidando su un terreno a noi completamente estraneo. La pazienza.
Molti infatti si sono esercitati a definire il tipo di prova che ci
viene riservata da questi giorni di isolamento. Unità, eroismo,
resistenza. Ma la verità è che non occorre essere eroi per starsene
dentro casa a leggere, guardare ogni sorta di pay-tv, chattare su
molteplici piattaforme, telefonare e surfare compulsivamente tra un
social media e l’altro, oscillando tra la strenua conta dei
contagiati e l’eterno imperdibile gossip.
Se questa è la prova della nostra generazione c’è poco da
essere fieri. Sembra una cosa minore al paragone dei nostri nonni che
salirono sui monti, o sopravvissero alla guerra, o anche sopportarono
le drammatiche restrizioni che l’economia di guerra comportò, e
che recentemente sono state descritte dallo scrittore americano
Jonathan
Safran Foer nel libro “Possiamo
salvare il mondo, prima di cena” (Guanda).
Ma la pazienza per noi è davvero un’esperienza inedita e
titanica. Siamo abituati a conoscerci con un clic, a fare l’amore
pochi clic dopo, ad aprire e chiudere relazioni in chat, a passare da
un locale all’altro nella stessa serata (pub crawling) e a
sostituire la cena con l’aperitivo, più rapido e meno impegnativo
(se mi annoio non devo neanche trovare la scusa per alzarmi). Non
abbiamo creato noi il modello di sviluppo onnivoro e suicida in cui
siamo immersi, ma non sappiamo per il momento farne a meno, e
dubitiamo di poterlo trasformare in un’alternativa ecologica,
sostenibile ed equa.
Siamo la generazione che scrive di più nella storia (sms, chat,
social media), e quella che probabilmente leggerà di meno, in cui
per la prima volta il concetto di analfabetismo divarica dalla sua
origine, ovvero dall’alfabeto (si parla infatti di “analfabetismo
cognitivo” e “analfabetismo di ritorno”).
Insomma, siamo la generazione che, non per meriti suoi, ha
compresso le dimensioni dello spazio e del tempo disimparando ad
apprezzarle nella loro estensione. Tutto questo negli ultimi giorni è
finito. Non possiamo muoverci e dobbiamo aspettare, leggere, parlare,
annoiarci. Probabilmente tutto ciò non costituisce una prova degna
di un racconto epico, di una generazione di eroi. Ma potrebbe
cambiarci in meglio. Insegnandoci ad amare e amarci meglio, a
rispettare, a meditare e ad attribuire valore a gesti che abbiamo
sempre dato per scontato.
Che gusto diverso avrà domani salutarsi con due baci sulla
guancia, abbracciare un amico, prendere al volo un treno che sta
partendo e bersi una birra seduti su un muretto quando fuori è
caldo? Che meraviglia ci sembrerà stare di nuovo insieme (da
innamorati, da sportivi, in comitiva, a fare shopping) dopo questo
stop forzato, mentre fino a ieri tutto sommato era più comodo
rimanersene a chattare sul divano se fuori faceva un po’ freddo,
anche se il freddo vero purtroppo non c’è più?
Quando questo maledetto virus sarà stato sconfitto ci aspettano
mesi e anni tremendi. Tanti stanno perdendo il lavoro, tanti lo
perderanno; settori economici sono già stati spazzati via e
moltissime famiglie sono ormai al secondo giro di cinghia dopo gli
anni bui che abbiamo alle spalle. Ma se saremo cambiati, ne verremo
fuori. Con pazienza. La pazienza che ci sta facendo capire che cosa è
davvero importante.
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