Fabrizio Rondolino
L'Unità 24 luglio 2016
L’ Assemblea nazionale del Pd che si
è svolta ieri a Roma era stata convocata all’indomani del
referendum britannico sull’uscita dall’Unione europea: “Una
chiara sconfitta politica” che, ha detto Matteo Renzi, non soltanto
non può essere negata, ma richiede di essere affrontata con
determinazione e coraggio – cioè spingendo più avanti, molto più
avanti di quanto sia stato fatto finora, il progetto europeista delle
origini.
Da qui l’annuncio di un nuovo vertice
a tre con Angela Merkel e François Hollande, dopo quello di Berlino
del giugno scorso, che si terrà simbolicamente a Ventotene alla fine
di agosto. Ma fra la convocazione dell’Assemblea e il suo
svolgimento – il passo della storia sembra accelerare ogni giorno,
e ogni giorno farsi più spietato e feroce – c’è stata la strage
di Dacca, la strage di Nizza, il mezzo golpe turco seguito dal
violento controgolpe di Erdogan, e infine la folle sparatoria di
Monaco.
Il senso di disorientamento delle
opinioni pubbliche occidentali è evidente, la debolezza delle
reazioni dei governi – tanto nella prevenzione e nella gestione
dell’emergenza terrorismo, quanto nella difesa concreta dei tanto
sbandierati diritti umani – è sconfortante, così come sempre più
fragile, alla vigilia delle nuove presidenziali austriache e del
referendum ungherese, appare la stessa impalcatura comunitaria. Come
in un fortino assediato da eserciti sconosciuti quanto determinati,
pericolosi quanto divisi e persino ignoti tra loro, i governi europei
devono affrontare simultaneamente la grande onda populista che, a
torto o a ragione, trova proprio nell’establishment di Bruxelles il
nemico pubblico numero uno, e la grande onda del terrore – e poco
importa se jihadista o xenofobo, se frutto di un meticoloso
addestramento o di una crisi di follia – che già sta modificando
il nostro stile di vita e la nostra percezione del futuro.
Sullo sfondo (ma neanche tanto) la più
lunga crisi economica di sempre che stenta a concludersi, soprattutto
nei paesi strutturalmente più deboli come l’Italia, e, più in
generale, un senso di frustrazione se non di depressione collettiva –
la spiacevolissima sensazione, cioè, che le cose non torneranno mai
più come erano prima. Non è semplice per la buona politica – che
vive di emozioni, ma ha bisogno di razionalità – approntare le
contromisure, preparare il contrattacco, o più semplicemente
arginare le armate nemiche. La propaganda populista, nazionalista,
xenofoba trova nella paura – quella innescata dalla recessione come
quella alimentata quotidianamente dagli attentati – il suo
combustibile più pregiato: il “derby fra paura e coraggio” –
co sì Renzi ha riassunto il significato delle prossime elezioni
americane – si gioca in realtà ovunque in Occidente, e
segnatamente in Europa e in Italia.
Renzi difende i risultati ottenuti, a
cominciare dalla flessibilità: “Se si fosse applicato il Fiscal
Compact così come è stato inopinatamente votato, noi oggi avremmo
avuto 30 miliardi di euro in più da pagare sull’altare
dell’austerità”. Non è l’unico riferimento polemico ai suoi
predecessori: “Non comprendiamo – ha aggiunto il
premier-segretario – le dinamiche di alcune politiche europee,
frutto di errori del passato quando abbiamo consentito alla
tecnocrazia di decidere tutto sulle banche, sulla finanza e sul
credito”.
Il principio è lo stesso, ed è una
costante del renzismo: il primato della politica non soltanto sulla
finanza ma anche, e soprattutto, sulle burocrazie statali e
sovrastatali come chiave per una rifondazione europea fondata sul
consenso dei cittadini. Il concetto è semplice, ma la sua attuazione
richiederà un impegno straordinario.
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