Fabrizio Rondolino
L'Unità 7 luglio 2016
D’Alema, il ‘98 e la differenza tra
un convegnista e un leader
C’era volta un grande leader politico
che, giunto alla guida del più grande partito della sinistra
italiana, avviò un coraggioso processo di innovazione politica e
culturale, smontò e fece a pezzi il primo governo Berlusconi,
costruì un’alleanza di centrosinistra destinata a vincere le
elezioni e, al culmine del suo potere e delle sue ambizioni, aprì
proprio con Berlusconi un dialogo serrato sulla riforma della
Costituzione che sfociò nella presidenza di un’apposita
Commissione bicamerale. Quando quel generoso e coraggioso tentativo
fallì –era il 9 giugno del 1998 – la stagione delle riforme si
chiuse per un lungo periodo.
E sebbene siano stati numerosi i
tentativi di rianimarla, si riaprì soltanto sedici anni dopo, il 18
gennaio 2014, quando un altro leader, giunto alla guida del più
grande partito della sinistra italiana, avviò un coraggioso processo
di innovazione politica e culturale e aprì, di nuovo con Berlusconi,
un dialogo destinato a passare alla cronaca come il Patto del
Nazareno. Anche l’accordo stipulato da Renzi – come sedici anni
prima quello sottoscritto da D’Alema – non resse alla prova della
navigazione parlamentare e nel giro di qualche mese Berlusconi si
sfilò. Qual è la differenza fra i due grandi leader della sinistra
italiana in tema di riforme istituzionali? Che il primo, D’Alema,
non ebbe la forza né il coraggio né probabilmente i numeri per
proseguire sulla sua strada di riformatore e padre costituente, e
consegnare infine all’Italia le riforme per tanti anni richieste e
sempre discusse senza risultati. Mentre il secondo, Renzi, ha trovato
la forza, il coraggio e i numeri per compiere la missione che si era
prefissato e sulla quale aveva costruito la sua scommessa di governo.
Diversamente dal 1998, quando un anno di chiacchiere si concluse in
un nulla di fatto, oggi due anni di lavoro hanno prodotto una riforma
attesa da decenni. La differenza fra un raffinato convegnista e un
leader politico sta tutta qui.
Ora D’Alema torna a rivestire i panni
del convegnista, rilasciando alla “Stampa” un’intervista
surreale che pare scritta non oggi e neppure nel 1998, ma molti anni
prima: forse nel 1983, quando si insediò la Commissione Bozzi, la
prima ad occuparsi di riforme, e Renzi frequentava la seconda
elementare. Basterà votare No al referendum, spiega D’Alema, e «si
potrebbe fare una riforma condivisa, chiara e rapida», «approvabile
dai due terzi dei parlamentari, che si può fare in sei mesi».
Perbacco, questo sì che è parlar chiaro: e D’Alema – quello
stesso che diciannove anni fa venne eletto presidente della
Bicamerale – ci spiega sicuro come fare. «Penso a una riforma che
preveda tre articoli – scandisce –. Primo: è ridotto il numero
complessivo dei parlamentari. […] Articolo secondo: il rapporto
fiduciario del governo è solo con la Camera dei deputati. […]
Articolo terzo: nel caso in cui il Senato o la Camera apportino delle
modifiche ad un testo di legge, tali modifiche vengono esaminate
entro un tempo limitato da una apposita commissione (…) Fine della
navetta, del bicameralismo perfetto e delle perdite di tempo».
Ottimo. Possibile che nessuno ci abbia
mai pensato? E perché mai i «due terzi dei parlamentari»
dovrebbero approvare proprio questi tre articoli, dopo averne
affondati migliaia nel corso di trentatré anni? Naturalmente,
D’Alema sa benissimo che questa proposta è una colossale
fregnaccia, priva di ogni credibilità e di ogni fondamento. Se a
ottobre vince il No, di riforme ovviamente non si parlerà più per
un bel po’. Il cuore dell’intervista è infatti un altro: la
caduta di Renzi. «Dopo di lui non ci sarà il diluvio, semmai il
buonsenso», dice D’Alema. E nel caso questo buonsenso non sia
ancora di casa al Quirinale, D’Alema si rivolge direttamente a
Mattarella, prima citandone suadente «un bellissimo intervento che
contrappose lo spirito della Costituente alla pretesa arrogante,
allora di Berlusconi, di riforme a maggioranza», e poi tirandolo
rudemente per la giacca: «Il Parlamento non soltanto potrà non
essere sciolto – e da questo punto di vista confido nella saggezza
del Capo dello Stato – ma io credo che ci saranno anche un governo
e una nuova legge elettorale» senza «una impostazione
rischiosamente iper-maggioritaria». «Chiedo di votare No per una
vera svolta riformatrice», conclude D’Alema con perfida ironia (o
lucido cinismo, fate voi): perché la «vera svolta riformatrice»,
se le sue parole hanno un senso, significa cacciare Renzi, formare un
governo di larghe intese con Berlusconi, approvare una legge
elettorale proporzionale che non consenta a nessuno di vincere ma,
soprattutto, non costringa nessuno a perdere. Manca soltanto il
ritorno alla monarchia.
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