Fabrizio Rondolino
L'Unità 5 luglio 2016
C’è un pezzo di Pd che non riesce ad
accettare che la «Ditta» sia finita in mano ad un non
(post)comunista
Dario Franceschini, con il garbo
ironico che lo contraddistingue, ha concluso il suo intervento alla
Direzione del Pd di ieri raccontando un aneddoto che merita di essere
ripreso. Siamo nel 2009, è in corso la campagna elettorale per
le primarie e Franceschini è il segretario in carica. Pierluigi
Bersani lo sta sfidando per la leadership.
Al termine di un’iniziativa in
Emilia, un militante avvicina Franceschini per fargli i complimenti.
Ha fatto un ottimo lavoro, ha salvato il partito alle europee, gli
dice. Ma poi conclude: «Però io voterò Bersani». «E perché?»,
gli chiede Franceschini. «Perché non posso mettermi contro il
partito», risponde il militante. «Ma come? Il segretario del
partito sono io…». Il nodo della questione è tutto qui: e se
Franceschini, il primo segretario non (post)comunista del Pd, è
troppo elegante per trarre una conclusione esplicita dal suo
aneddoto, il significato resta chiaro, chiarissimo.
C’è un pezzo di Pd –nell’apparato
e nel ceto politico, molto meno nella sempre glorificata e
puntualmente ignorata «base» –che non riesce ad accettare che la
«Ditta» sia finita in mano ad un non (post)comunista. Nel 2009 con
Franceschini, oggi con Renzi. E ancora meno riesce ad accettare che
un segretario non (post)comunista sia riuscito a fare in un paio
d’anni ciò che i suoi predecessori, in vent’anni, hanno soltanto
saputo annunciare, discutere, rivedere, affossare. Alla fine della
sua lunga relazione dedicata in gran parte al quadro
internazionale e di governo –Renzi aveva mostrato una sequenza di
«Il mio amico Eric», il film di Ken Loach in cui il campione del
Manchester Cantona è una specie di angelo custode che insegna a
vivere allo sfortunato protagonista. «Devi fidarti dei tuoi compagni
–dice Cantona –, altrimenti è tutto finito». Il problema del Pd
–drammaticamente, tristemente evidenziato per l’ennesima volta
anche nella Direzione di ieri –è che la minoranza non si fida
della maggioranza né del segretario. Non interviene se non per
«bombardare il quartier generale».
Ignora le cose fatte, non valorizza i
risultati ottenuti dal governo, e anzi, al contrario, spesso «si
vergogna». «Se volete che lasci –dice Renzi –non avete che da
chiedere un congresso e vincerlo. Se volete dividere i due
incarichi, non avete che da chiedere una modifica statutaria e farla
approvare. Se volete che si cambi il modello organizzativo, fate
proposte. Ma prima mettiamoci d’accordo su dove andare». Già,
dove vuole andare la minoranza del Pd? Gianni Cuperlo ha accusato
Renzi di vivere in un talent show, Roberto Speranza ha proposto
libertà di voto al referendum di ottobre.
Ma su questa strada –la strada
dell’insulto personale e del boicottaggio politico –è difficile
che si possa costruire quel clima di fiducia reciproca che pure Renzi
continua ad invocare, rivendicando con forza i risultati – sempre
puntigliosamente definiti «di sinistra» –ottenuti in questi anni,
dal Jobs Act (che ha prodotto mezzo milione di posti di lavoro,
la più grande crescita del decennio) alle unioni civili, dagli
interventi a sostegno della povertà alla massiccia redistribuzione
del reddito a favore dei ceti medio-bassi compiuta con gli 80 euro.
Dipingere il renzismo come «un regime
di plastica» e «un sistema di potere» non è battaglia politica: è
sabotaggio. Soprattutto, non porta da nessuna parte. La sistematica
distruzione del leader –la «strategia del conte Ugolino», secondo
le parole divertite di Renzi –sembra essere l’ultima e unica
risorsa di un ceto politico ripiegato su se stesso, litigioso,
vendicativo e in definitiva sterile. Diversamente dal passato, però,
oggi il Pd ha un leader che risponde agli elettori e non ai
caminetti.
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