Pierluigi Castagnetti
Democratica 17 gennaio 2018
In questo novantanovesimo anniversario
dell’appello “Ai liberi e forti”, Matteo Renzi parteciperà,
come hanno fatto tutti i suoi predecessori a partire da Veltroni,
all’annuale convegno che il Partito democratico assieme
all’Associazione “I Popolari” organizza domani a Caltagirone,
la città di Luigi Sturzo.
È questa l’occasione per rendere
omaggio al grande studioso e uomo politico, fondatore della
tradizione del cattolicesimo politico, che ha preceduto quella che
siamo soliti definire del “cattolicesimo democratico”, che tanto
ruolo ha avuto nella storia del Novecento, come gli venne
riconosciuto da personalità di tradizione laica quali Piero Gobetti
e Antonio Gramsci.
Sturzo dette vita, infatti, al primo
partito aconfessionale seppur a ispirazione cristiana, nel 1919,
avendone gettato le basi ben quindici anni prima nel famoso “discorso
di Caltagirone”. Ha scritto oltre sessanta titoli, alcuni dei quali
sono ancora adottati in università statunitensi nella quali lui
stesso ha insegnato, e, anche per questo, possiamo dire che continua
ad esser una miniera di riflessioni e suggestioni, interessanti anche
per questo nostro tempo, pur consapevoli che i cambiamenti
intervenuti nella storia del mondo e l’adozione da parte della
politica di nuovi paradigmi impongono pensieri nuovi.
In questa sede non c’è lo spazio se
non per evocare un paio delle sue suggestioni che mostrano una certa
attualità: “C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si
apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua
con furberia. È anche opinione diffusa che alla politica non si
applichi la morale comune e si parla spesso di due morali, quella dei
rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale né
moralizzabile) della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa
mi fa concepire la politica come satura di eticità, ispirata
all’amore del prossimo, resa nobile dalla finalità del bene
comune. Per entrare in tale convinzione, occorre essere educato al
senso di responsabilità, avere forte carattere pur con le più
gentili maniere, e non cedere mai alle pressioni indebite e alle
suadenti lusinghe di essere indotto ad operare contro coscienza“.
La sua straordinaria esperienza
internazionale, durante il periodo dell’esilio a Londra, Parigi, e
New York, lo ha poi aiutato a maturare una competenza notevole sul
piano delle politiche europeistiche e internazionali in genere, con
una visione molto interessante anche per l’oggi: “Ha un certo
peso il fatto del Mediterraneo come epicentro europeo e centro
internazionale di decisiva importanza. Guardando la storia si noterà
che questo mare è stato sempre decisivo nelle vicende umane anche
quando, dopo la scoperta dell’America, sembrò che per secoli
avesse perduto un suo antico ruolo. Chi avrebbe detto nel 1939 che la
guerra scatenata da Hitler sarebbe stata risolta nel Mediterraneo?
Ebbene, guerre e paci, sviluppo di civiltà e creazioni di ricchezze,
si concentrano qui, e noi sudeuropei ne siamo testimoni, attivi o
passivi, partecipi e anche vittime, secondo le grandi e piccole
vicende storiche“. Bastano questi due frammenti a narrare la sua
concezione della politica come attività che richiede disciplina,
rigore e competenza.
Quest’anno discuteremo di un
confronto fra due termini che hanno la stessa radice linguistica ma
che esprimono valori semplicemente opposti: popolarismo e populismo.
Il popolarismo infatti allude a una
tradizione culturale e politica che pone al centro il popolo come
soggetto originario – così come lo è la persona – legittimato
ad esprimere la rappresentanza e a gestire la responsabilità della
politica. Purtroppo questo concetto di popolo oggi non è presente
nel dibattito politico, perché siamo diventati più popolazione che
popolo, cioè un aggregato di individui che ragionano al singolare
avendo smarrito la dimensione plurale tipica di una comunità. Eppure
il popolo non solo ha una sua soggettività attiva, ma anche una
forza di contenimento, rappresenta insieme il controllo e il limite
del potere e, dunque, è soggetto irrinunciabile nella vita
democratica.
Il passaggio dalla nozione di popolo a
quella di popolazione illustra bene la differenza fra popolarismo e
populismo. Nella storia della nostra Repubblica c’è stato un altro
momento, nell’immediato secondo dopoguerra, in cui di fronte alle
inevitabili difficoltà soprattutto economiche qualcuno ha sfruttato
il malessere e la rabbia dei cittadini nel tentativo di costruirne un
fatto politico, con il movimento dell’ “Uomo Qualunque“, durato
l’espace d’un matin, cioè di un solo passaggio elettorale,
perché la politica in modo distinto e convergente ha subito reagito
recuperando lo spazio della sua responsabilità.
Oggi invece l’uso politico della
rabbia popolare, senza lo sforzo di approfondirne le cause per
poterle meglio aggredire, sta trasformando sia la modalità del fare
politica che quella del competere in politica. Non ci sono più le
“banche dell’ira” (così le ha chiamate Peter Sloterdijk), cioè
i grandi partiti popolari e le stesse chiese, che permettevano di
stoccare i sentimenti di rabbia, rancore e rivalsa, promettendone una
soddisfazione differita e, dunque, è diventato normale maneggiare
con disinvoltura questi sentimenti senza incanalarli nel solco della
responsabilità politica, e può portare a ferite profonde nella
convivenza civile proprio quando si dovrebbe avvertire un maggiore
senso responsabilità, verso se stessi e verso il proprio futuro.
Parlare di questi temi in un tempo
difficile come l’attuale, in un territorio segnato da gravi
questioni come la Sicilia, misura il senso di responsabilità che una
forza politica sente di avere soprattutto nei confronti delle nuove
generazioni a cui va parlato il linguaggio del coraggio e
dell’onestà.
Nessun commento:
Posta un commento