foto del giorno
sabato 27 gennaio 2018
lunedì 22 gennaio 2018
Quel matto di Matteo....
Giuseppe Turani | 20/01/2018
L'idea era, è, semplice: abbattere
l'Italia corporativa e consociativa. Ma si è rivelata un'impresa
titanica.
La campagna elettorale è appena cominciata, ma si è già capito
che, ancora una volta i giochi girano intorno a Matteo Renzi. Quello
che rischia di più in questa tornata elettorale è proprio lui. Un
successo lo renderebbe quasi invincibile anche per il futuro. Un
insuccesso aprirebbe comunque la strada a parecchi problemi.
Viene allora spontaneo ragionare su
questo protagonista della politica italiana e chiedersi: ma che cosa
ha fatto di importante Renzi, da essere così amato dai suoi e odiato
da tutti gli altri? Molti diranno il job act, i diritti civili, gli
80 euro.
La risposta in realtà è molto più
banale: Renzi ha dimostrato che si può fare. Si può fare che un
gruppo di giovani amministratori locali di provincia conquisti prima
il partito, facendone segretario il loro leader e poi addirittura il
presidente del Consiglio.
Matteo Renzi ha dimostrato che si può
fare un governo con gente quasi tutta giovane e alla prima esperienza
ministeriale senza sfigurare e, anzi, facendo un sacco di cose. Ha
dimostrato che si può fare un governo, e governare, senza stare a
raccogliere il parere preventivo di tutti i poteri grandi e piccoli
che girano per il paese.
Ha dimostrato, insomma, che il ricambio
generale e politico si può fare.
L’odio dei nemici nasce proprio da
questo “si può fare”. Secondo loro, infatti, non si doveva
“poter fare”. Tutto andava gestito in condivisione, con calma,
come si è sempre fatto. Senza strappi e, soprattutto, con gente
esperta e navigata, che conosce l’arte della mediazione fra i vari
poteri e che sa quali santuari non vanno disturbati.
Matteo ha rotto tutto questo e,
orrore, ha persino osato disegnare una riforma costituzionale
che avrebbe raso al suolo la Repubblica consociativa nella quale
siamo vissuti da dopo la guerra a oggi.
Allora, i poteri, tutti i poteri,
grandi e piccini hanno deciso che Matteo non va. Queste cose non si
debbono fare. Hanno capito che lui puntava, e punta, a una politica
forte che sceglie (anche con errori, a volte), ma è proprio questo
che non si vuole. E non sono tanto i poteri forti (inesistenti)
quanto i mille poteri che in questi decenni si sono spartiti il
paese. I farmacisti non sono la Spectre, e nemmeno i taxisti. E
neanche gli ambulanti. Eppure hanno potere di veto sulle cose di loro
pertinenza.
Ma tutta questa gente, che vive di
piccoli o grandi privilegi, non vuole uscire dalla repubblica
consociativa, dove hanno trovato un angolino per crescere e
prosperare.
I nemici di Renzi, quindi, non sono i
grandi imprenditori (quasi inesistenti, ormai) o i grandi banchieri
(pochissimi e pieni di guai). Sono i mille poteri diffusi, le mille
posizioni di rendita distribuite in questi anni.
Ma allora Renzi ha contro un intero
popolo? No. Però il 4 dicembre il 60 per cento gli ha votato
esplicitamente contro. E non tanto per via di D’Alema o di altri
figuri del genere, ma per il rifiuto a uscire da una società
consociativa, dove ci si mette d’accordo e alla fine si trova una
ricompensa (grande o piccola per tutti) al di fuori di qualsiasi
regola di mercato.
Ecco perché la battaglia di Renzi (fra
buone idee e errori clamorosi) non sarà facile. Più che una
politica, deve smontare qualcosa che è diventato sistema di vita,
patto fra le classi e i ceti, costituzione non scritta, costume
collettivo.
giovedì 18 gennaio 2018
domandone...
"Cari @bersani e @robersperanza , che ne pensate del governo del Presidente proposto da D'Alema?"
“Un abbraccio sincero a @PietroGrasso che di LEU immaginava di essere il capo e,invece, ci ha messo solo il nome”
schizofrenia e malafede
Simona Bonafé
18 gennaio 2018
Oggi la BEI certifica che il paese che ha più beneficiato di
finanziamenti per le imprese del “Piano Junker” è stata l’Italia.
Indovinate chi al parlamento europeo votava contro quel piano
d’investimenti voluto dal governo italiano nel semestre di presidenza
dell’Ue? Lega e M5S
Nannicini: un «conto formazione personale» per completare il Jobs Act
Il Sole 24 Ore 18 gennaio 2018
Le priorità indicate sul Sole 24 Ore
da Carlo Calenda e Marco Bentivogli, dalla centralità degli
investimenti in formazione e capitale umano al rafforzamento della
qualità dell’occupazione, «sono in perfetta sintonia con le
proposte del Pd per la prossima legislatura e sviluppano il cammino
di riforme che i governi Renzi e Gentiloni hanno portato avanti in
anni difficili». Per Nannicini, economista alla Bocconi di Milano e
braccio destro del segretario dem nell’elaborazione del programma
economico, vanno messi in campo «strumenti che rendano concreto e
credibile, non solo a parole, il diritto soggettivo di ogni
lavoratore a una formazione permanente, indipendentemente dal tipo di
contratto».
Lo strumento, ancora in fase di
approfondimento tecnico, potrà essere una sorta di «conto personale
formazione»: si partirebbe con una dote iniziale (si ragiona su 500
euro dal 18esimo anno di età della persona) da alimentare poi con
accumuli successivi. Si punterebbe su servizi personalizzati, che
potranno essere anche rafforzati per migliorare, ad esempio,
l’alternanza scuola-lavoro e il sostegno ai percettori del reddito
di inclusione, il primo intervento strutturale di contrasto alla
povertà introdotto in Italia. Il Pd punterebbe, così, a completare
il Jobs Sct, dopo che quest’anno è reso strutturale l’assegno di
ricollocazione per tutti i disoccupati (e cassintegrati nelle crisi
aziendali un po’ più delicate che rischiano di sfociare in
cospicui esuberi di personale), consolidando il ruolo dell’Agenzia
nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal).
Una possibile copertura dei costi
iniziali del «conto personale» (le primissime stime parlano di
circa 300 milioni di euro) potrebbe arrivare da un aggravio economico
sui contratti a termine.
Il punto è che «il diritto al lavoro»
sta evolvendo: fino a qualche tempo fa ci si preoccupava del semplice
inserimento in un singolo posto al termine degli studi e poi per
tutta la vita. Adesso, i pensieri (e le aspettative) sono differenti,
per giovani e non, con carriere lavorative spesso discontinue,
caratterizzate da un susseguirsi di periodi di interruzioni e di
ripartenze. Non solo. C’è poi la spinta della rivoluzione
tecnologica e le rinnovate esigenze della fabbrica 4.0: gli studi,
nazionali e internazionali, più accreditati evidenziano che le dieci
professioni oggi più richieste dal mercato non esistevano fino a
dieci anni fa, e il 65% degli studenti che hanno iniziato le scuole
primarie nel 2016 affronterà un lavoro di cui in questo momento non
si conoscono le caratteristiche. Ecco quindi, nel disegno di politica
economica dei dem, la necessità del «conto personale», che - da
quanto si apprende - dovrà servire anche a unificare gli strumenti
di orientamento, di garanzia del reddito e la formazione lungo tutta
la vita. «Su queste priorità - aggiunge Nannicini - spero arrivino
presto momenti di dialogo e confronto».
Oltre al diritto soggettivo alla
formazione di ciascun lavoratore, il partito democratico sta pensando
anche a due altre proposte, collegate: passare dagli incentivi
congiunturali agli investimenti a un sostegno strutturale per le
imprese che innovano e portano avanti un faticoso processo di
riconversione imposto da un’economia globale che corre; e il
decollo di una nuova filiera scolastica “professionalizzante”.
Qui, in particolare, si tratterebbe di rilanciare, a livello
secondario, l’istruzione tecnica e professionale (per far acquisire
ai ragazzi competenze pratiche e subito spendibili nel mondo del
lavoro); e, poi, a livello terziario, continuare la strada del
potenziamento degli Its, gli Istituti tecnici superiori, che hanno un
tasso di occupabilità superiore all’80%; e che, nel giro di
qualche anno, dovranno diventare il canale formativo “privilegiato”
per il settore industriale.
La grande coalizione è dove mi siedo io
Stefano Ceccanti
18 gennaio 2018
Dell'intervista
di D'Alema si capisce fondamentalmente una cosa, che un'eventuale
grande coalizione Pd-Fi non andrebbe bene perché non comprende lui.
Infatti i governi del Presidente non esistono, se non per un certo
attivismo del Capo dello Stato che supplisce le difficoltà di intesa tra
i partiti (quella che auspica Cassese, ma che non è affatto scontata).
Alla fine i Governi del Presidente hanno bisogno di una maggioranza
parlamentare, sono grandi coalizioni di cui ci si vergogna e quella a
cui pensa D'Alema è evidentemente una che arriva da Leu fino a
Berlusconi compreso. A nobilitarla c'è il fatto che ci sarebbe dentro
lui. Chissà che ne pensano i suoi potenziali elettori e Pietro Grasso.
trasparenza
Vittorio Zucconi
Cinque giorni per le pasticciarie Cinque Stelle.Circa il tempo
necessario per avere i risultati delle elezioni in Iraq e Afghanistan.
mercoledì 17 gennaio 2018
Contro l’uso politico della rabbia. Ripensando a don Sturzo
Pierluigi Castagnetti
Democratica 17 gennaio 2018
In questo novantanovesimo anniversario
dell’appello “Ai liberi e forti”, Matteo Renzi parteciperà,
come hanno fatto tutti i suoi predecessori a partire da Veltroni,
all’annuale convegno che il Partito democratico assieme
all’Associazione “I Popolari” organizza domani a Caltagirone,
la città di Luigi Sturzo.
È questa l’occasione per rendere
omaggio al grande studioso e uomo politico, fondatore della
tradizione del cattolicesimo politico, che ha preceduto quella che
siamo soliti definire del “cattolicesimo democratico”, che tanto
ruolo ha avuto nella storia del Novecento, come gli venne
riconosciuto da personalità di tradizione laica quali Piero Gobetti
e Antonio Gramsci.
Sturzo dette vita, infatti, al primo
partito aconfessionale seppur a ispirazione cristiana, nel 1919,
avendone gettato le basi ben quindici anni prima nel famoso “discorso
di Caltagirone”. Ha scritto oltre sessanta titoli, alcuni dei quali
sono ancora adottati in università statunitensi nella quali lui
stesso ha insegnato, e, anche per questo, possiamo dire che continua
ad esser una miniera di riflessioni e suggestioni, interessanti anche
per questo nostro tempo, pur consapevoli che i cambiamenti
intervenuti nella storia del mondo e l’adozione da parte della
politica di nuovi paradigmi impongono pensieri nuovi.
In questa sede non c’è lo spazio se
non per evocare un paio delle sue suggestioni che mostrano una certa
attualità: “C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si
apprende senza preparazione, si esercita senza competenza, si attua
con furberia. È anche opinione diffusa che alla politica non si
applichi la morale comune e si parla spesso di due morali, quella dei
rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale né
moralizzabile) della vita pubblica. La mia esperienza lunga e penosa
mi fa concepire la politica come satura di eticità, ispirata
all’amore del prossimo, resa nobile dalla finalità del bene
comune. Per entrare in tale convinzione, occorre essere educato al
senso di responsabilità, avere forte carattere pur con le più
gentili maniere, e non cedere mai alle pressioni indebite e alle
suadenti lusinghe di essere indotto ad operare contro coscienza“.
La sua straordinaria esperienza
internazionale, durante il periodo dell’esilio a Londra, Parigi, e
New York, lo ha poi aiutato a maturare una competenza notevole sul
piano delle politiche europeistiche e internazionali in genere, con
una visione molto interessante anche per l’oggi: “Ha un certo
peso il fatto del Mediterraneo come epicentro europeo e centro
internazionale di decisiva importanza. Guardando la storia si noterà
che questo mare è stato sempre decisivo nelle vicende umane anche
quando, dopo la scoperta dell’America, sembrò che per secoli
avesse perduto un suo antico ruolo. Chi avrebbe detto nel 1939 che la
guerra scatenata da Hitler sarebbe stata risolta nel Mediterraneo?
Ebbene, guerre e paci, sviluppo di civiltà e creazioni di ricchezze,
si concentrano qui, e noi sudeuropei ne siamo testimoni, attivi o
passivi, partecipi e anche vittime, secondo le grandi e piccole
vicende storiche“. Bastano questi due frammenti a narrare la sua
concezione della politica come attività che richiede disciplina,
rigore e competenza.
Quest’anno discuteremo di un
confronto fra due termini che hanno la stessa radice linguistica ma
che esprimono valori semplicemente opposti: popolarismo e populismo.
Il popolarismo infatti allude a una
tradizione culturale e politica che pone al centro il popolo come
soggetto originario – così come lo è la persona – legittimato
ad esprimere la rappresentanza e a gestire la responsabilità della
politica. Purtroppo questo concetto di popolo oggi non è presente
nel dibattito politico, perché siamo diventati più popolazione che
popolo, cioè un aggregato di individui che ragionano al singolare
avendo smarrito la dimensione plurale tipica di una comunità. Eppure
il popolo non solo ha una sua soggettività attiva, ma anche una
forza di contenimento, rappresenta insieme il controllo e il limite
del potere e, dunque, è soggetto irrinunciabile nella vita
democratica.
Il passaggio dalla nozione di popolo a
quella di popolazione illustra bene la differenza fra popolarismo e
populismo. Nella storia della nostra Repubblica c’è stato un altro
momento, nell’immediato secondo dopoguerra, in cui di fronte alle
inevitabili difficoltà soprattutto economiche qualcuno ha sfruttato
il malessere e la rabbia dei cittadini nel tentativo di costruirne un
fatto politico, con il movimento dell’ “Uomo Qualunque“, durato
l’espace d’un matin, cioè di un solo passaggio elettorale,
perché la politica in modo distinto e convergente ha subito reagito
recuperando lo spazio della sua responsabilità.
Oggi invece l’uso politico della
rabbia popolare, senza lo sforzo di approfondirne le cause per
poterle meglio aggredire, sta trasformando sia la modalità del fare
politica che quella del competere in politica. Non ci sono più le
“banche dell’ira” (così le ha chiamate Peter Sloterdijk), cioè
i grandi partiti popolari e le stesse chiese, che permettevano di
stoccare i sentimenti di rabbia, rancore e rivalsa, promettendone una
soddisfazione differita e, dunque, è diventato normale maneggiare
con disinvoltura questi sentimenti senza incanalarli nel solco della
responsabilità politica, e può portare a ferite profonde nella
convivenza civile proprio quando si dovrebbe avvertire un maggiore
senso responsabilità, verso se stessi e verso il proprio futuro.
Parlare di questi temi in un tempo
difficile come l’attuale, in un territorio segnato da gravi
questioni come la Sicilia, misura il senso di responsabilità che una
forza politica sente di avere soprattutto nei confronti delle nuove
generazioni a cui va parlato il linguaggio del coraggio e
dell’onestà.
martedì 16 gennaio 2018
Immigrati, sicurezza, lavoro. Gori spiega il riformismo di razza Pd
Maurizio Crippa
Il Foglio 16 gennaio 2018
Una Lombardia aperta che si deve
misurare con l’Europa, non con l’Italia che va male. La
“fotografia” di una squadra che c’è e che sa governare. Niente
paura delle larghe intese, “ma un premier di sinistra farebbe
meglio”
E il Pd di che razza è? Non
pizzicherete Giorgio Gori a polemizzare al ribasso sulle sguaiatezze
di giornata del suo rivale, Attilio Fontana. Lo liquida così: “Tutti
lo dipingono come un moderato, ma basta aver letto le sue
dichiarazioni passate su destra, unioni civili, immigrazione e altro
per capire che è un Salvini con la cravatta”. Ma Giorgio Gori è
noto per essere “uno preparato” (“l’ansia di non essere
pronto me la porto dalla scuola, mi documento sempre”) perciò
prende la domanda dalla parte seria: “Il Pd è il frutto di tante
storie, anche diverse, che insieme hanno prodotto un partito di massa
della sinistra riformista ed europea che non ha eguali. Da questo
punto di vista, anche la scissione di qualche mese fa in fondo è
servita a fare chiarezza”. E con questo abbiamo liquidato anche il
tema dei Liberi e uguali, che in Lombardia correranno da soli e
contro il Pd e il suo candidato. “Io continuerò fino al 4 marzo a
rivolgermi ai loro possibili elettori. Perché sono convinto che sono
più le cose che li avvicinano al programma della sinistra che
rappresento (compreso il listino del presidente, saranno sette le
liste che lo sosterranno nella corsa per la regione, ndr) che non le
divisioni del gioco politico. C’è molto tafazzismo. A parte che la
Lega le sembra unita?”
Ed
eccoci al cuore della sfida. Lei si è proposto con un claim, “Fare,
meglio”, di buon impatto, ma che allo stesso tempo sembra ammettere
che tutto male non va, in Lombardia. C’è il rischio (per voi) che
sia anche l’opinione media dell’elettore lombardo. E’ la
difficoltà che la sinistra ha sempre scontato al nord, e ultimamente
sta scontando a livello nazionale: non riuscire a comunicare di poter
fare davvero “meglio” degli altri. perciò, a parte la
“competenza” contro gli sfascisti, qual è l’idea forte che il
centrosinistra può mettere in campo, in Lombardia e in prospettiva
nazionale? Lei parla di “apertura”, di Lombardia come sistema
aperto contro la “chiusura” del forzaleghismo. Non è un
messaggio semplice da far passare: il “modello Lombardia” va di
moda. “Bisogna dire le cose come stanno, oltre che dirle bene. Io
ripeto sempre: se stiamo qui a misurarci con la Sicilia, o altre
regioni male amministrate, possiamo anche crogiolarci in una
classifica al ribasso. Ma se invece ci confrontiamo con le regioni
europee che sono i nostri riferimenti, o competitori, come l’area
di Stoccarda, la Baviera, scopriamo che primi in classifica non lo
siamo, anzi. Sull’innovazione, la dispersione scolastica, l’accesso
delle donne al lavoro (10 punti in meno), l’assistenza alle
fragilità, agli anziani”.
Incalza Gori: “Il centrodestra per
molti anni ha trascurato questi problemi. Ma noi dobbiamo correre da
regione europea, e c’è da correre. Il messaggio ‘“’fare,
meglio’, oltre a rispecchiare completamente la mia formazione, la
mia idea di riformismo che è diversa da quella della sinistra
tradizionale, è un messaggio concreto: si può e si deve fare meglio
rispetto al racconto che viene fatto da destra. Del resto basta
parlare con le aziende, i consorzi, le realtà territoriali per
sentirsi dire quel che non funziona della Regione di Maroni. Basta
guardare gli indicatori di efficienza dell’amministrazione che sono
peggiorati negli anni”. L’idea forte di questa sinistra, allora,
qual è? “Unire la crescita e l’integrazione. Sia per quanto
riguarda certe aree che, pur nella dinamica Lombardia, sono state
lasciate indietro, come il Sud agricolo. E poi l’integrazione delle
persone, dei diritti. Faccio solo l’esempio della difficoltà che
hanno ancora i figli della classi popolari ad accedere
all’università. Serve un’equità dei punti di partenza. Dobbiamo
essere la regione delle opportunità”.
lunedì 15 gennaio 2018
domenica 14 gennaio 2018
"BASTA DIRE CHE È RENZIANO PER NON SOSTENERLO?
Emanuele Macaluso
14 gennaio 2018
La decisione di “Liberi e Uguali”
di presentare in Lombardia una sua lista alle elezioni regionali e un
suo candidato a Presidente, non convergendo con il Pd e le altre
forze di centrosinistra, è una cartina di tornasole per capire cosa
vuole gran parte di questo movimento. L’argomento che, non solo io
vecchio militante della sinistra ma che tanti hanno esposto, al fine
di sostenere una coalizione unitaria e articolata non ha avuto
certamente ascolto. L’elenco delle persone che hanno detto che
bisognava far prevalere l’interesse non solo del centrosinistra ma
nazionale non è stato raccolto. Basta capire la portata politica che
si sta giocando con queste elezioni in Italia e in Europa. E la
Lombardia è per mille ragioni la Regione che più conta nel nostro
Paese ed è la più europea.
Riconsegnare il governo di questa
Regione alla destra pilotata da Salvini, senza combattere con una
coalizione unitaria e credibile, anche perchè articolata e non
identificabile con il Pd, significa non tenere conto degli interessi
generali. Ma una gran parte di “Liberi e Uguali” ha come nemico
solo il Pd, senza nemmeno capire perché anche in questo partito
qualcosa è cambiato e può cambiare rispetto ad una giusta critica
fatta sul renzismo. Bollare il sindaco di Bergamo, Gori, come
renziano basta giustificare la decisione di non sostenere la sua
candidatura? Non conosco Gori, ma un giudizio semmai va dato su quel
che ha fatto come sindaco di Bergamo con una giunta unitaria. Non ho
letto giudizi negativi su di lui, ne ho letto alcuni positivi come
quello di Susanna Camusso.
Voglio notare: nella situazione
lombarda, un candidato che può esprimere una cultura politica non
identificabile con quella della sinistra tradizionale, ma convergente
con essa, è un fatto negativo? Penso proprio di no. Il candidato di
“Liberi e Uguali” sarà ancora una volta consigliere regionale
con qualche suo compagno e potrà solo gridare contro la destra al
governo e anche quella che a suo dire c’è nel Pd. Cioè lui, lui
solo e qualche altro nel Consiglio regionale della Lombardia potranno
avere lo stemma della sinistra. È una storia che purtroppo
conosciamo ed è triste vederla ripetere."
sabato 13 gennaio 2018
Gori: Fare meglio
Giorgio Gori
13 gennaio 2018
Noi andiamo avanti. Con le nostre idee
che pongono al centro il lavoro. Che coniugano efficienza ed equità,
meriti e bisogni. Con la visione alta di una Lombardia prima in
Europa nell’economia delle conoscenze, dell’innovazione, del
valore aggiunto, e che tutto questo realizza attraverso politiche
aperte e inclusive, che cominciano dalla scuola, dall’eguaglianza
dei punti di partenza e dalle pari opportunità. Una Lombardia che
diventi meta ambita per le alte professionalità del presente e al
tempo stesso, come ha sempre fatto, sia la terra che dà speranza a
chi sogna un futuro migliore per i suoi figli. E che quella speranza
converta in una realtà di comune ricchezza.
Questo è il nostro riformismo
lombardo. Che si nutre di ideali ma rifugge dall’idea che ciò che
esiste oggi è sempre, per definizione sbagliato e da demolire. Che,
per fare un esempio, riconosce l’eccellenza della qualità dei
nostri ospedali, ma al tempo stesso individua modelli migliori per le
tante criticità del nostro sistema sanitario regionale.
FareMeglio: crediamo che questo e
questo soltanto sia il giusto metodo per proporsi al governo di una
grande regione come la Lombardia. L’alternativa a noi, a queste
idee, è proseguire nella gestione leghista: tanto opaca e inadeguata
nella guida dei processi di cambiamento, quando arrogante nel
calpestare principi fondamentali di laicità delle istituzioni che
fanno di queste una casa comune. Fontana, da questo punto di vista, è
un Salvini senza la felpa, ma la cravatta non cambia i contenuti.
smemorato...
"Berlusconi accusa che non si è fatto niente per gestire l'introduzione
dell'euro. Ha pienamente ragione. Anni prima, ero in Francia e ricordo
bene come le vetrine di tutti i negozi indicassero il doppio prezzo,
quello del vecchio franco e quello del franco pesante. Ha ragione,
peccato che fosse lui al governo. Forse l'ha dimenticato!"
Gori, Zingaretti... un pò per uno...non fa male a nessuno...alla politica si!!!
Ileana Piazzoni
13 gennaio 2018
Vi chiedete perché LeU sia disponibile a sostenere Zingaretti e non Gori? La questione è piuttosto semplice.
Innanzitutto, LeU è un cartello elettorale (sì, è esattamente questo) composto da soggetti politici diversi che hanno obiettivi diversi. La parte di Sinistra Italiana si sente radicalmente alternativa al Pd (e più vicina al M5S, aggiungo io) e non vorrebbe mai fare accordi, in nessun livello di governo. La parte degli ex Pd ha come obiettivo quello di sconfiggere Renzi (ovviamente per farlo occorre passare dallo spiacevole "effetto secondario" di sconfiggere il Pd, ma tant'è) e riprendersi il Pd. Tenendo presente queste mission, è semplicissimo decodificare scelte e tattiche del neo cartello LeU, tenendo anche conto dei loro legami personali e politici.
Nello specifico, tuttavia, più che di una presunta differente valutazione sui candidati Gori e Zingaretti, si tratta banalmente di una soluzione di compromesso: per poter stare insieme alle politiche, si fa un po' per uno: da una parte si fa come vuole il pezzo che per semplificare chiamerò bersaniano, da un'altra si fa quello che vuole la parte di Fratoianni. E pazienza se la più grande regione italiana continuerà ad essere governata dalla Lega (che non è più la Lega di Bossi e Maroni - cosa che la rinuncia di quest'ultimo a ricandidarsi sta li a ricordare ogni giorno - ma è molto molto peggio). Per SI la questione non si pone: alla loro destra, c'è solo la destra, e tutti si equivalgono. Per gli altri, si tratta di un effetto collaterale sulla strategia di ripresa del potere. Cosa volete che sia?
Innanzitutto, LeU è un cartello elettorale (sì, è esattamente questo) composto da soggetti politici diversi che hanno obiettivi diversi. La parte di Sinistra Italiana si sente radicalmente alternativa al Pd (e più vicina al M5S, aggiungo io) e non vorrebbe mai fare accordi, in nessun livello di governo. La parte degli ex Pd ha come obiettivo quello di sconfiggere Renzi (ovviamente per farlo occorre passare dallo spiacevole "effetto secondario" di sconfiggere il Pd, ma tant'è) e riprendersi il Pd. Tenendo presente queste mission, è semplicissimo decodificare scelte e tattiche del neo cartello LeU, tenendo anche conto dei loro legami personali e politici.
Nello specifico, tuttavia, più che di una presunta differente valutazione sui candidati Gori e Zingaretti, si tratta banalmente di una soluzione di compromesso: per poter stare insieme alle politiche, si fa un po' per uno: da una parte si fa come vuole il pezzo che per semplificare chiamerò bersaniano, da un'altra si fa quello che vuole la parte di Fratoianni. E pazienza se la più grande regione italiana continuerà ad essere governata dalla Lega (che non è più la Lega di Bossi e Maroni - cosa che la rinuncia di quest'ultimo a ricandidarsi sta li a ricordare ogni giorno - ma è molto molto peggio). Per SI la questione non si pone: alla loro destra, c'è solo la destra, e tutti si equivalgono. Per gli altri, si tratta di un effetto collaterale sulla strategia di ripresa del potere. Cosa volete che sia?
Stefano Ceccanti
13 gennaio 2018
Con la groko (grosse koalition) basata anzititutto su un progetto
di riforma Ue in larga parte ripreso dal discorso di Macron alla Sorbona
la Germania è tornata e il bivio delle elezioni del 4 marzo è molto
semplice: aderire convintamente o autoescludersi per imboccare una
strada di declino.
La riforma della governance Ue dovrebbe essere il vero discrimine.
Il
centrosinistra dovrebbe puntare tutto su questo, anche perché non si
vede chi altro potrebbe farlo tra le derive giustizialiste-decliniste
del M5S (trattate troppo bonariamente dai media, con poche eccezioni,
soprattutto della Stampa) e le eterogeneità interne del centrodestra e
di Leu.
discontinuità?
Lia Quartapelle
13 gennaio 2018
Il candidato per la Regione Lombardia di LiberiEUguali Onorio Rosati,
scelto per segnare la discontinuità totale con il PD, è stato
consigliere regionale del PD fino al 17 maggio 2017. Totale
discontinuità da cosa, esattamente?
venerdì 12 gennaio 2018
“Gli elettori vogliono un PD coraggioso, solo così potrà vincere le elezioni”
Intervista a Giorgio
Tonini
Pierluigi Mele 12 gennaio
2018
Senatore Tonini, parliamo della campagna elettorale appena
cominciata: non trova deludente questa rincorsa populista alle
proposte irrealizzabili, o comunque costose oltre misura?
E purtroppo
anche il PD non è immune.... In condizioni politiche difficilissime,
senza una maggioranza al Senato, in questa legislatura il Pd ha
garantito al Paese un governo che è riuscito a rimettere in moto la
crescita e a riportare ai livelli pre-crisi l’occupazione, senza
violare le regole europee, dunque senza mettere a repentaglio la
credibilità presso i mercati della nostra finanza pubblica. Ciò è
stato possibile anche perché i nostri governi, e il governo Renzi in
particolare, non si sono limitati a gestire l’ordinaria
amministrazione, ma hanno messo in cantiere una batteria di riforme
impressionante per quantità e qualità. Naturalmente non tutte sono
andate in porto e non tutte sono riuscite nel modo migliore. Ma il
Paese si è rimesso in movimento. Capisco che i nostri avversari
abbiano pochi argomenti contro il nostro governo, che infatti gode
(il governo, purtroppo non il partito, ma questa è un’altra
questione...) di elevatissimi livelli di consenso. E dunque tentino
di buttarla in caciara, come si dice a Roma, sparando una raffica di
proposte demagogiche, che avrebbero come unico effetto, se portate
avanti, quello di minare la credibilità del Paese e di riportarci
nel pieno di una crisi economica dalla quale stiamo solo ora
faticosamente uscendo. Ma il Pd non ha alcun bisogno di inseguire
demagoghi e populisti sul loro terreno.
Continuamo il ragionamento
sulla campagna elettorale. Vi sono tre grosse proposte, Pd,
Centrodestra e MS5. Il disegno della destra è chiaro, più o meno,
quello dei 5stelle, è un disegno di sincretismo confuso, e quello
del PD?
Non basta il richiamo alla etica della responsabilità c'è
bisogno della visione. Qual è la visione del PD? Il renzismo è
superato.... Ma il Pd ce l’ha eccome una visione sul futuro
dell’Italia! Intanto siamo l’unico partito davvero europeista.
Gli altri, o sono esplicitamente contro l’Europa, o sono quanto
meno ambigui e confusi. Prendiamo il centrodestra: Forza Italia si
considera un partner politico della Cdu tedesca, ma poi si allea con
la Lega di Salvini e coi Fratelli d’Italia della Meloni che la
pensano esattamente al contrario e al parlamento europeo vanno a
braccetto con le peggiori forze nazionaliste. Lo stesso Berlusconi ha
ripetuto per mesi di essere contrario all’uscita dell’Italia
dall’Euro, ma ha poi proposto la doppia moneta sul modello delle
Am-Lire, quelle stampate dal governo provvisorio durante
l’occupazione angloamericana... Una prospettiva da incubo. E non
parliamo dello stato confusionale in cui versa, dal punto di vista
programmatico, il M5S... Il Pd è invece il partito che ha saputo
imporre una applicazione del Fiscal compact con la necessaria
flessibilità e ora si pone l’obiettivo di fare dell’Italia un
partner di Francia e Germania nella costruzione di una nuova
governance europea. Il vertice a Roma di Gentiloni con Macron, non in
chiave antitedesca, ma di partnership paritaria e complementare, è
la migliore espressione di questa “visione”. L’Europa è la
prima coordinata della visione del Pd, insieme al primato del lavoro,
soprattutto per i giovani, a quello della famiglia nelle politiche
sociali, al rinnovamento della democrazia e delle sue istituzioni.
I
sondaggi sono crudeli per il PD. Non passa giorno in cui il PD fa
segnare una perdita. Resta difficile un cambio di tendenza. Non mi
dica che si perde consenso perché siete stati al governo (lo ha
detto Renzi).. Il partito in alcune realtà è ai minimi termini.
Senza radicamento si perde... È tardi Senatore Tonini.... Non le
pare?
Shimon Peres diceva che i sondaggi sono come i profumi, vanno
annusati e non bevuti. Oggi i sondaggi ci dicono che c’è un ampio
e diffuso, anche se non acritico, consenso alla nostra azione di
governo, che non si traduce in orientamento di voto al nostro
partito. Penso che se sapremo usare la campagna elettorale per
ricomporre questo scarto, possiamo ancora vincerle queste elezioni.
Mi pare che Renzi abbia da tempo deciso di attestarsi su questa
linea, come dimostra il fatto che stiamo confezionando le liste
attorno alla candidatura dei principali esponenti del governo. Il
paradosso del consenso al governo ma non al partito si spiega in gran
parte con lo stato di sofferenza nel quale il partito versa. Questo è
stato forse il vero errore di Renzi e di tutti noi con lui: aver
trascurato il partito, che ha finito per ridursi, in molti, troppi
territori, ad una confederazione di correntine, cordatine e
conventicole. Non si trattava e non si tratta di tornare a vecchi
modelli di organizzazione politica ormai esauriti, ma di
sperimentarne di nuovi, come hanno saputo fare negli anni scorsi con
Obama i democratici americani. Questo resta comunque il compito dei
prossimi anni.
Il rapporto con liberi e uguali. Qualcuno ha suggerito
una sorta di non belligeranza tra voi. Una proposta ragionevole....
Ma noi non siamo in guerra con Liberi e Uguali. E non abbiamo ancora
perso la speranza che questi nostri amici e compagni ascoltino gli
appelli che anche in questi ultimi giorni hanno rivolto loro Prodi,
Veltroni e la stessa Susanna Camusso, perché ci si possa presentare
alleati alle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, se non anche
nei collegi delle politiche. Del resto si fatica a comprendere il
senso di questa loro fuga solitaria dalla realtà. È ovviamente
legittimo contestare e contrastare la linea politico-culturale, nella
quale anch’io da sempre mi riconosco e che si è affermata nel Pd,
in questi anni, grazie alla leadership di Matteo Renzi. Ma c’è un
tempo per ogni cosa, dice la Bibbia. C’è un tempo per il confronto
interno e una sede nella quale organizzarlo, che si chiama congresso.
E c’è un tempo per il confronto con gli avversari veri, che stanno
a destra e dalle parti nebulose del M5S, il tempo delle elezioni.
Confondere le elezioni col congresso rischia di portare questi nostri
amici e compagni in una condizione nella quale, nella migliore delle
ipotesi, dal punto di vista del loro consenso, si riveleranno
dannosi, perché spianeranno la strada alla vittoria dei nostri
comuni avversari; nella peggiore si riveleranno inutili, cioè
irrilevanti.
Ho letto che non si candida. Una notizia che ha molto
colpito. Al di là della questione delle deroghe, mi è parso di
cogliere un velo di delusione nei confronti della politica... Si
rimprovera qualcosa?
Nel Pd, dieci anni fa, ci siamo dati una regola,
voluta per favorire il ricambio della classe politico-parlamentare:
dopo 15 anni non ci si può più ricandidare, salvo poche, motivate
eccezioni. Io ho alle spalle quattro legislature, per complessivi 17
anni di Senato. Dunque non posso più essere candidato, né intendo
chiedere una deroga. Perché non voglio diventare un problema per il
mio partito, che di problemi ne ha già tanti e di molto più seri.
Naturalmente la mia non è né una fuga né una diserzione e non ho
nessuna delusione da smaltire. Se la segreteria del Pd mi chiedesse
di ricandidarmi, magari in un collegio ad alto rischio, mi sentirei
seriamente chiamato in causa.
Potrebbe essere questa la carta
vincente per il PD?
Sì, potrebbe essere una mossa vincente. Invece
di rappresentarci, come talvolta rischiamo di fare, come un gruppo
dirigente spaventato, che si affolla attorno alle poche posizioni
garantite, sarebbe bello se ci facessimo vedere, soprattutto noi
della vecchia guardia, motivati a combattere nei collegi più a
rischio, quelli che davvero possono fare la differenza. Gli elettori
ci chiedono una prova di coraggio e di generosità.
giovedì 11 gennaio 2018
giornalismo?
Stefano Ceccanti
11 gennaio 2018
Parte della stampa prosegue, nonostante i bilanci dei governi della
legislatura e a iniziative nuove e validissime come l'accordo bilaterale
con la Francia, a dare addosso in modo frontale al centrosinistra e a
parlare anche di un possibile insider trading per un decreto la cui
emanazione era nota (tant'è che la procura di Roma chiede
l'archiviazione).
E' quella parte dei media che omette invece di
segnalare i legami di M5s e Lega con Putin, denunciati per fortuna da La
Stampa e che almeno, per coerenza, la Lega ostenta in modo trasparente
(si veda l'intervista di Salvini al Corsera), mentre il M5S dissimula.
Qua e là compaiono sì articoli come quello di Messina su Repubblica
contro le proposte stravaganti di Di Maio, ma è incredibile come
rispetto a un'incapacità di governo e a un'inconsistenza così palese,
che da Spelacchio all'Atac alla politica europea e internazionale, ci
sia ancora così tanta tolleranza complice.
mercoledì 10 gennaio 2018
dimaiopensiero2
Marco Taradash
10 gennaio 2018
"Spenderemo 110 miliardi per
attuare il nostro programma. Come faremo? Semplice si ripagano da
soli (come non averci pensato prima?). Dobbiamo superare i 3% di
deficit e così riparte l’economia #keynesperdummies"
dimaiopensiero
Umberto Minopoli
10 gennaio 2018
"Europa. Oggi e’ stato il Di
Maio day: la fiera della stupidita’ e dell’ignoranza. Ha detto: “
non e’ piu’ il momento di uscire dall’Euro”. Ci sono
arrivati. Finalmente. Un giorno questo cosmico analfabeta ci
spiegherà’ quando mai e’ stato il “momento di uscire
dall’Euro”. Avremmo fatto la fine della Grecia o del Venezuela
tardocomunista costretto a farsi una moneta finta per vivere di
elemosina. Ha detto pure il Di Maio: “ non usciamo piu’ dall’Euro
perche’ “sta saltando” l’asse franco tedesco. E perciò’
avremo piu’ spazio in Europa”. Costui non legge neppure i
giornali. Il 22 di gennaio Francia e Germania hanno annunciato un
manifesto di impegno per una politica comune di riforme e rilancio
dell’Europa comune. Un fatto storico. Altro che crisi dell’asse
franco tedesco. A Marzo voteremo per decidere se l’Italia sara’
governata da governanti, competenti, credibili, affidabili per gli
europei, in grado di sedersi al tavolo Franco-tedesco (e di capire di
cosa si parla a quel tavolo) oppure da cocomeri di nome Di Maio."
ex vincitori annunciati?
Stefano Ceccanti
10 gennaio 2018
La coalizione di centrodestra si è
incartata sulla Regione Lombardia. I rapporti di forza non sono più
univoci come un tempo e quindi deve accettare il leghista Fontana,
che non è un candidato imbattibile, con possibili riflessi anche sul
voto politico nella Regione che assegna il maggior numero di seggi.
Come se non bastasse il 17 la Camera
voterà sul Niger e con tutta probabilità la coalizione dimostrerà
di non esisstere sulla politica estera, con Fi a favore e Lega
contro.
Ci sono quindi tutte le condizioni per
cui il centrodestra invece che salire sopra il 40 possa scendere
anche sotto il 35. Il che significa che, finita la finzione di una
coalizione pre-elettorale, essa si possa ridividere esprimendo solo
il terzo e il quarto gruppo parlamentare, entrambi con meno del 20
per cento dei seggi, che si presenteranno alle consultazioni per la
formazione del Governo.
Il primo e il secondo posto se lo
disputano solo Pd e M5S con un dettaglio che pochi conoscono: sul
proporzionale i voti delle liste alleate che ottengono tra l'1 e il 3
per cento si riversano a favore delle liste alleate che superano lo
sbarramento. Per questo, anche a sondaggi invariati, il Pd poco sotto
il 25 grazie agli alleati (per ora piccoli nei sondaggi) è già ora
in grado di scavalcare il M5S.
Ovviamente le ultime settimane di
campagna possono cambiare tutto in tutte le direzioni, specie
considerando che i sondaggi sono fatti senza candidati.
Per questo, dopo tanti giorni di false
certezze, sui quotidiani l'impasse sulla Lombardia sembra aver fatto
riflettere molti, persino su quelli di centrodestra. I vincitori
annunciati troppo presto non esistono. Citofonare alla signora May.
martedì 9 gennaio 2018
uguali a chi?
Marco Bentivogli
Le #tasseuniversitarie sono già gratis per meno abbienti ed evasori. Tuttavia, cancellarle è un regalo alle famiglie con redditi medio alti. #Grasso ha già tradito la promessa di non fare populismo e se vuole premiare i ricchi cambiasse simbolo. #LiberieUguali ?
scuola materna
Pierluigi Castagnetti
Se ho ben capito il presidente della regione Abruzzo sostiene con
qualche ragione che la sindaca Raggi non lo cerca. La sindaca Raggi lo
fa cercare al telefono da un funzionario Ama. Cioè, la sindaca non vuole
essere lei a chiedere il favore. Che altro dire...
lunedì 8 gennaio 2018
parlare chiaro
Paolo Gentiloni,
è riuscito a spiegare con chiarezza ed efficacia, tra le altre, la
politica della migrazione del ns governo, dimostrando con chiarezza ed
efficacia che - per ciò e altro -vale la pena essere orgogliosi di
essere italiani, anche oggi.
Grasso ... l'uguaglianza è un'altra cosa
Stefano Ceccanti
8 gennaio 2018
Nel giro di 48 ore un bravo magistrato come Grasso (nonostante le
critiche sbagliate di alcuni settori più radicali della magistratura su
quel suo lavoro) si rivela una volta di più un leader politico poco
adeguato. Purtroppo non c'è nessun automatismo tra la capacità nella
propria professione, anche quando si tratti di una professione molto
importante e qualificante, e la competenza in politica che non si
improvvisa. Solo in Italia e in questa legislatura un leader politico ha
pensato di eleggere alle Presidenze delle Camere due persone che mai vi
avevano messo piede come parlamentari.
Dai primi anni '80
Ermanno Gorrieri, il massimo esperto di politiche efficaci per
l'eguaglianza, sosteneva che una politica di basse tasse universitarie
fosse deresponsabilizzante e iniqua, trasformandosi in una specie di
Robin Hood alla rovescia in cui i ceti medio bassi finanziavano
l'Università ai figli di ceti medio-alti che peraltro non avevano così
incentivo a finire presto gli studi.. Mi ricordo varie conversazioni con
lui di metà anni '80 quando ero Presidente della Fuci e più tardi
quando mi capitò di coordinare una ricerca del Censis dal titolo "Quando
assistere non basta più". Gorrieri insisteva per fare prima una
battaglia culturale e poi politica per tasse più vicine al costo
effettivo, i cui introiti avrebbero dovuto essere dirottati
prioritariamente ad una politica per i capaci e meritevoli privi di
mezzi (articolo 34 della Costituzione). Prima culturale che politica,
sosteneva Gorrieri, perché i media erano dominati da commentatori di
fasce medio alte che erano beneficiarie di quella politica sbagliata.
Erano riflessioni che precorrevano di dieci anni quella che è ritenuta una delle riforme migliori del Governo Blair.
Alcune
cose per fortuna si sono mosse in quella direzione in Italia anche
grazie all'Isee e al lavoro instancabile di Gorrieri, ma purtroppo lì
torna Grasso ignorando decenni di riflessione in merito, nella
presunzione di ripartire da zero.
Ancora più stupefacente,
però, per almeno due profili, la lettera inviata oggi da Grasso a "La
Repubblica". Anzitutto si firma a doppio titolo come Presidente del
Senato e leader di LeU, ma sostiene nel contempo che il Presidente del
Senato non può finanziare un partito. Ora se si vogliono distinguere
nettamente i due profili con tutta evidenza non si può fare il leader di
un partito; è insostenibile ritenere ciò più compatibile che non un
finanziamento. Sia quello al Pd sia quello a LeU, dato che non credo che
il Presidente Grasso sarà esentato dal contribuire alla campagna
elettorale del suo partito. Ci mancherebbe che dovessero pagare solo gli
altri candidati e non lui che ne è il leader. In secondo luogo quando
ci si iscrive a un gruppo, che è nei casi migliori la proiezione di un
partito, ci sono oneri e onori, tra cui il contributo da versare. Delle
due l'una: o si ritiene che un Presidente di Assemblea nel momento in
cui è eletto si debba iscrivere al Gruppo Misto per rimarcare
l'indipendenza (ed è una tesi ben sostenibile) e in quel caso ovviamente
sarebbe esente dal contributo, oppure, se invece resta iscritto al
gruppo di origine, come ha scelto di fare Grasso fino a pochi giorni fa,
non può che comportarsi come tutti gli iscritti a quel gruppo.
sabato 6 gennaio 2018
la Lega e il centrodestra per la famiglia
L'AMACA
Michele Serra
Il rispetto che si deve all’età di Umberto Bossi, alla sua
malattia e al suo declino, non può impedire di sottolineare la
gravità delle sue colpe (vedi le motivazioni della sentenza per
appropriazione indebita). Il leader politico che per primo — con
quei toni e quei modi — inaugurò la stagione dell’odio per lo
Stato, per la politica romana, per i partiti mangioni, è stato
condannato per avere
mantenuto se stesso e la sua famiglia con soldi pubblici, piccole e grandi spese a carico dei cittadini. Come il moralista colto a fornicare, l’artefice del repulisti sorpreso a sporcare. In termini etici e financo logici, è uno scandalo molto grave che colpisce alle radici l’epopea leghista del “popolo buono”, che sovverte la casta cattiva, salvo approfittare alla prima occasione, una volta occupato il palazzo, dei suoi comfort legali e illegali. Ma non risulta che questo scandalo, così smaccato, e di così facile interpretazione, sia oggetto di sofferenza e di discussione nel disinvolto, leggero mondo della destra italiana, leghista e no. A sinistra ci si bastona la coscienza per molto di meno, con lacerazioni e polemiche, pianti e maledizioni.
Non so dire se sia solo esecrabile, oppure anche invidiabile, la lieta indifferenza con la quale si tratta, a destra, quella faticosa materia che è l’etica pubblica. La coalizione che rischia di vincere le prossime elezioni ha come soci di maggioranza un partito fondato da un condannato per faccende di mafia (Dell’Utri) e guidato da un pregiudicato a vario titolo (Berlusconi) e un altro inventato da un
signore che, con la politica, ci manteneva la famiglia. Non sembra essere, questo, un impiccio per i nostri concittadini che li voteranno senza neanche la fatica — a noi ben nota — di turarsi il naso.
mantenuto se stesso e la sua famiglia con soldi pubblici, piccole e grandi spese a carico dei cittadini. Come il moralista colto a fornicare, l’artefice del repulisti sorpreso a sporcare. In termini etici e financo logici, è uno scandalo molto grave che colpisce alle radici l’epopea leghista del “popolo buono”, che sovverte la casta cattiva, salvo approfittare alla prima occasione, una volta occupato il palazzo, dei suoi comfort legali e illegali. Ma non risulta che questo scandalo, così smaccato, e di così facile interpretazione, sia oggetto di sofferenza e di discussione nel disinvolto, leggero mondo della destra italiana, leghista e no. A sinistra ci si bastona la coscienza per molto di meno, con lacerazioni e polemiche, pianti e maledizioni.
Non so dire se sia solo esecrabile, oppure anche invidiabile, la lieta indifferenza con la quale si tratta, a destra, quella faticosa materia che è l’etica pubblica. La coalizione che rischia di vincere le prossime elezioni ha come soci di maggioranza un partito fondato da un condannato per faccende di mafia (Dell’Utri) e guidato da un pregiudicato a vario titolo (Berlusconi) e un altro inventato da un
signore che, con la politica, ci manteneva la famiglia. Non sembra essere, questo, un impiccio per i nostri concittadini che li voteranno senza neanche la fatica — a noi ben nota — di turarsi il naso.
Ai vertici della Lega condanne fino a 3 anni.
Mario Corbino
6 gennaio 2018
Il Tribunale di Milano, con sentenza del Giudice Balzarotti, ha condannato i vertici della Lega, compresi alcuni membri della famiglia Bossi, fino a 3 anni di carcere, per ripetuta “appropriazione indebita” dai soldi versati ai partiti dai contribuenti, con prelievi autorizzati espressamente da Umberto Bossi. Era il periodp in cui i leghisti denunciavano “Roma Ladrona”. Come al solito il furbo Salvini sulla vicenda ancora oggi tace, nonostante in molti lo invitano a restituire la cifra di 49 milioni di euro, prelevati o meglio rubati in più riprese. Oggi, a quanto sembra, la Lega festeggia, oltre che l’Epifania, anche i venti anni di gestione della Regione Lombardia. Chissà se un giorno scopriremo qualcosa d’altro, su questo lungo periodo, grazie a qualche PM ficcanaso. Comunque con l’odierna sentenza siamo autorizzati a restituire alla Lega l’aggettivo “Ladrona”, che in passato i leghisti usavano per offendere a destra e a manca, mentre oggi restano in religioso silenzio leghista. Fra le spese è conteggiata anche la “laurea” in Albania di Renzo, figlio di Bossi, il quale ha dichiarato di non sapere di essersi laureato. In politica, oltre alle case con vista Colosseo, comprate a “insaputa” troviamo perfino un corso di una laurea che dura quattro anni, conclusa brillantemente con un dottorato “ad insaputam”. Mi piacerebbe sapere, dopo queste gravi condanne per le “spese folli” di famiglia e soci, il 4 marzo quanti avranno il coraggio di regalare il voto a Salvini e alla sua Lega Ladrona.
Il Tribunale di Milano, con sentenza del Giudice Balzarotti, ha condannato i vertici della Lega, compresi alcuni membri della famiglia Bossi, fino a 3 anni di carcere, per ripetuta “appropriazione indebita” dai soldi versati ai partiti dai contribuenti, con prelievi autorizzati espressamente da Umberto Bossi. Era il periodp in cui i leghisti denunciavano “Roma Ladrona”. Come al solito il furbo Salvini sulla vicenda ancora oggi tace, nonostante in molti lo invitano a restituire la cifra di 49 milioni di euro, prelevati o meglio rubati in più riprese. Oggi, a quanto sembra, la Lega festeggia, oltre che l’Epifania, anche i venti anni di gestione della Regione Lombardia. Chissà se un giorno scopriremo qualcosa d’altro, su questo lungo periodo, grazie a qualche PM ficcanaso. Comunque con l’odierna sentenza siamo autorizzati a restituire alla Lega l’aggettivo “Ladrona”, che in passato i leghisti usavano per offendere a destra e a manca, mentre oggi restano in religioso silenzio leghista. Fra le spese è conteggiata anche la “laurea” in Albania di Renzo, figlio di Bossi, il quale ha dichiarato di non sapere di essersi laureato. In politica, oltre alle case con vista Colosseo, comprate a “insaputa” troviamo perfino un corso di una laurea che dura quattro anni, conclusa brillantemente con un dottorato “ad insaputam”. Mi piacerebbe sapere, dopo queste gravi condanne per le “spese folli” di famiglia e soci, il 4 marzo quanti avranno il coraggio di regalare il voto a Salvini e alla sua Lega Ladrona.
Giorgio Tonini saluta la sua quarta (e ultima) legislatura. ''Spero che gli italiani non si lascino accalappiare da facili slogan''
Donatello Baldo
Il Dolomiti 04 gennaio 2018
TRENTO. Ha 59 anni, di professione
giornalista e laureato in filosofia. E' stato eletto in Parlamento
per quattro volte nel 2001, nel 2006, nel 2008 e nel 2013. Con i Ds
ai tempi di Veltroni, nel Pd dalla sua fondazione. Giorgio Tonini è
presidente della Commissione Bilancio del Senato. Quest'ultima è la
sua quarta legislatura.
"In questi cinque anni è stato
fatto tanto, si è riusciti a percorrere il 'sentiero stretto' senza
cadere nel burrone della recessione o in quello dell'esplosione del
debito pubblico"
Senatore, finisce la legislatura ma
questo è stato anche il suo ultimo anno in Parlamento?
Direi proprio di sì. Ho fatto tre
legislature più quella breve dal 2006 al 2008. Sulla base delle
regole del Partito Democratico non posso più ricandidare.
Ma ci sono delle deroghe.
Ma non penso che sarà il mio caso.
Beh, saranno felici deputati e senatori
trentini alla caccia del posto in un collegio.
Tranquilli che il problema di
sistemare Tonini non ci sarà, ce ne sono ben altri di problemi.
Questo lo togliamo subito di mezzo.
Di esperienza se n'è fatta in questi
anni, come è cambiata secondo lei la politica?
Il cambiamento macroscopico è stato il
passaggio dal bipolarismo a tripolarismo, con la presenza dei 5
Stelle. La rottura di questo schema porta con sé una caratteristica:
diventa altamente probabile che nessuno vinca le elezioni.
Come in effetti è successo.
Infatti si è dovuto costruire un
governo attraverso forme di compromesso. Con Letta assieme al Pd
c'era tutto il centrodestra, tranne la Lega. Con Renzi, a causa della
frantumazione del centrodestra stesso, si è formato un governo a
netta guida PD, che però doveva fare i conti con queste componenti.
Il rischio paralisi c'è anche per la
prossima legislatura.
Il rischio è che si riproduca la
stessa difficoltà a trovare una maggioranza omogenea. Le riforme che
avevamo proposto avevano come obiettivo quello di garantire un
vincitore attraverso il ballottaggio e attraverso il superamento del
bicameralismo.
Però la riforma è stata bocciata.
E andremo a votare con un sistema
elettorale che non riuscirà a garantire, su due Camere, la
maggioranza a uno dei tre poli. E' quindi possibile che si debba
costruire un altro governo di coalizione.
Se al referendum costituzionale
avesse vinto il sì... Le viene mai da dire 'Io l'avevo detto?'
Ma non serve a niente, in democrazia se
il popolo ti dà torto ti dà torto. Io penso che sia
stata un'occasione persa per il Paese ma se abbiamo perso
significa che non siamo stati capaci di convincere la maggioranza
degli italiani.
Ed è stupido prendersela con gli
elettori.
Non ha proprio senso prendersela con
loro, gli elettori hanno sempre ragione anche quando hanno torto. In
democrazia funziona così, se non riesci a convincere la maggioranza
degli elettori, perdi.
Molti danno la colpa a Renzi per la
sconfitta, dovuta anche a come ha condotto la campagna referendaria,
anche al suo carattere.
E' vero. Il carattere di Renzi - il suo
coraggio, la sua determinazione, anche in qualche modo la decisione
di portare avanti le sue idee a tutti i costi - è
stato determinante per concludere l'iter parlamentare della
riforma. Ma questa dote si è trasformata nel suo limite.
Si spieghi.
Quell'energia - anche giovanile,
possiamo dire - che Renzi ha messo nella cavalcata che ha
portato alla vittoria in Parlamento della riforma, nella
campagna elettorale è stata il difetto che ci ha tradito.
Ci siamo trovati soli. Un 40%, che non è poco, contro il 60. Le doti
di Renzi si sono rivelate anche il suo limite.
Non gli ha giovato nemmeno identificare
il referendum con se stesso.
E' vero anche questo.
Aver identificato in maniera eccessiva la vittoria al referendum
con il governo, con la stessa figura di Renzi, ha trasformato
quel voto in una valutazione sul governo stesso. Così alla fine si
sono coagulate tutte le forze contrarie a Renzi e si è perso.
Senatore, qual è stato il punto più
alto e nobile del su lavoro da parlamentare?
Credo che la cosa più importante
sia stata quella di essere riusciti a percorrere quello che
il ministro Padoan chiama 'il sentiero stretto', quello che ha
consentito di rimare dentro le regole europee, di tenere sotto
controllo i nostri conti e ridurre ogni anno il deficit, aumentando
allo stesso tempo la crescita.
In effetti sembrava impossibile
coniugare crescita e riduzione del debito. Un sentiero con il baratro
su entrambi i lati.
Questi ultimi tre governi - Letta,
Renzi, Gentiloni - hanno dimostrato che è possibile. Il lascito
di questa legislatura, dal punto di vista economico, è
positivo. Il percorso seguito dal pd è un percorso da continuare, è
la cosa più importante per il futuro del Paese.
Dal punto di vista parlamentare? Quali
obiettivi sono stati raggiunti in questi cinque anni?
Mai come in questa legislatura c'è
stato un avanzamento così profondo su questioni che riguardano la
vita delle persone. Mi riferisco alla partita sui diritti civili, il
divorzio breve, il testamento biologico, il dopo di noi e soprattutto
le unioni civili.
Obiettivi impossibili da raggiungere
fino a qualche anno fa. Tutto merito di Renzi?
In effetti la contrapposizione Guelfi e
Ghibellini che era emersa in altre stagioni della politica questa
volta non è avvenuta. Lo si deve ad un orientamento diverso della
Chiesa: quella di papa Francesco non è la stessa del cardinale
Ruini, per intenderci. Ma lo si deve anche al Pd.
Che questa volta è riuscito a fare
sintesi tra laici e cattolici.
Io ho sempre creduto nel Pd e non nei
partitini mono-culturali proprio perché il Pd si fonda
sull'incontro tra le culture e sul superamento degli steccati. A
questo non si dà mai grande evidenza, ma perla prima volta in
Italia si è riusciti a costruire un partito fondato sul
superamento di quelli che si chiamavano gli storici steccati tra
laici e cattolici. C'è un partito in cui convivono e
collaborano e alla fine si mescolano credenti e non credenti nella
ricerca di soluzioni per i cittadini fondati sulla libertà e sul
rispetto delle identità e delle coscienza.
Sullo ius soli, invece, non si è
trovata nessun punto d'incontro. Possiamo dire che questo sia uno dei
punti più bassi della legislatura?
Non sono del tutto d'accordo. In questo
caso non c'è stato verso di trovare una maggioranza. C'è
stato l'errore di alcuni miei colleghi, in gran parte in buona
fede, di gettare la spugna attraverso l'assenza dall'Aula. Ma
onestamente, anche se fossero stati tutti presenti, non c'erano i
numeri per votare lo ius soli.
Se ne riparlerà? E' un tema
importante.
Lo ius soli rimane la grande incompiuta
di questa legislatura. Un impegno da dover portare a casa nella
prossima. Ma di insuccessi ce ne sono stati anche altri in questi
cinque anni, uno ancor più macroscopico.
Dica pure.
Mi riferisco alla riforma sulla scuola.
Abbiamo messo in campo tante risorse, 3 miliardi e mezzo sulla Buona
Scuola, però non si è capito il senso dell'intervento fatto, e
ci siamo ritrovati con gran parte del mondo della scuola più
ostile. Una riforma uscita male. In un contesto complessivo in cui il
Paese ha fatto grandi passi avanti, è onestamente un
insuccesso. Come sempre quando si fanno tante cose,
non tutte le ciambelle riescono col buco.
Senta senatore, ora inizia la campagna
elettorale, si iniziano già a sentire le urla dei comizi. Lei però
non è un politico che arringa le folle. Lei che politico è?
Per me la politica è ragionamento,
riflessione, mediazione. cercare assieme agli altri la via d'uscita.
Don Milani diceva che sortirne tutti assieme è politica, sortirne da
soli è egoismo. La politica è quindi solidarietà e dialogo,
mettersi introno a un tavolo e trovare soluzioni.
La propaganda non le piace, vero?
No, non mi piace. Poi è ovvio che la
politica è anche conflitto, competizione, uno vince l'altro perde,
la propaganda c'è, ma guai se la politica si limita alla propaganda.
Giancarlo Pajetta, grande dirigente del Pci che di propaganda se ne
intendeva eccome, spiegava ai suoi giovani dirigenti che ciò che
rende diverso un politico da un cretino è che il cretino crede alla
propria propaganda.
Chissà se Berlusconi e i 5 Stelle
credono alla loro. Stanno promettendo di diminuire le tasse
incredibilmente, di proporre un reddito di cittadinanza. Ma con che
soldi?
Io spero che la maggioranza dei
cittadini non si lascia accalappiare da facili slogan e da facili
promesse. Il Paese altrimenti è nei guai. Ritorniamo alla metafora
del sentiero stretto: se si cammina è un conto, se uno inizia a
correre è facile che cada e scivoli nel burrone.
Senatore Tonini, cosa farà
adesso, dopo la sua esperienza parlamentare? Si è parlato di lei
come possibile presidente della Provincia.
Ora darò una mano in campagna
elettorale, io ci sarò, non lascio la politica. Tutti devono dare il
proprio contributo, ci sono fasi della vita in cui lo dai in un modo
e altri in cui lo dai in un altro. PEr il resto, vedremo in che mondo
saremo da marzo in avanti.
Iscriviti a:
Post (Atom)