Mario Lavia
L'Unità 21 settembre 2016
Allo stato dei fatti, il Pd, con tutti
i suoi limiti, continua esattamente a non avere alternative, il che è
la sua carta vincente ma in un certo senso anche la sua condanna
A tennis, di solito, quando un
giocatore comincia a giocare bene l’avversario peggiora, si
disunisce, sbaglia. Accade anche in politica. Fateci caso: quando un
governo va in difficoltà di norma l’opposizione si rinsalda, si
prende la scena, si fa sentire, detta l’agenda, cattura interesse e
suscita attese.
Invece l’analisi fredda della
situazione attuale porta a dire che malgrado le oggettive spine di
Renzi, le due opposizioni – che come vedremo sono tre – non solo
non ne approfittano ma per molti versi sono entrate in una nuova fase
di crisi. Lo vediamo anche nella storia infinita dell’Italicum:
tutti sbraitano contro ma non se ne trovano due che propongano la
stessa ricetta, così che oggi alla Camera le opposizioni parleranno
cento lingue, compresa quella dei grillini favorevoli al
proporzionale puro – premessa per una bella serie di governi
balneari – come a voler rivestire di nuovo populismo il vecchio
abito della Prima repubblica.
In questo weekend la destra italiana si
è sdoppiata in maniera plastica, divisa fra il linguaggio
tecnocratico ammantato di una patina di liberalismo di Stefano Parisi
e quello rozzo e antimoderno di Matteo Salvini (al netto della
vomitevole frase sul compianto presidente Ciampi che però gli è
valsa una comparsata in tv dopo tanto tempo), l’uno sotto le mille
luci del MegaWatt milanese, l’altro sul pratone un po’
spelacchiato di Pontida. Andiamo un po’ a tentoni, perché la
piattaforma di Parisi ha ancora troppe zone informi ma, ascoltandoli,
non c’è nulla in comune fra queste due destre.
Nemmeno fra la Le Pen e Sarkozy c’è
questo abisso, neppure fra la Le Pen e il più moderato Juppè e non
parliamo poi della distanza fra Farage e la May. Sommare i voti di
una Forza Italia targata Parisi a quelli dei lepenisti Salvini e
Meloni, costretta a stingere il suo retaggio reazionario nel verde
padano, è un esercizio che va bene per gli stanchi sondaggi del
lunedì sera ma non ha senso politico. Anche perché questa volta c’è
un dettaglio di non poco conto: in campo non c’è più
l’incredibile capacità “federativa”di Silvio Berlusconi, uno
che riuscì a mettere insieme postfascisti e leghisti, Giuliano
Urbani e Mauro Borghezio, Follini e Alemanno.
La sua stessa creatura, Forza Italia,
pare oggi un amalgama non riuscito. E sono passati vent’anni, mica
uno, con l’ex Cavaliere che non sembra più guidare le danze e con
Salvini che non ha certo la destrezza politica di Bossi. Oggi a
destra chi è in grado di saldare progetti, linguaggi, stili
completamenti diversi? Nessuno. Maurizio Belpietro, conscio di questa
impasse, suggerisce con una piroetta intellettuale che a decidere sia
«il popolo».
Ma il problema è che di popoli ce ne
sono almeno due. Per questo non potranno fare primarie, perché il
giorno dopo il popolo perdente non riconoscerà mai quello vincente,
non essendoci alcun terreno comune. E a meno di non voler fare una
guerra tipo “Gangs of New York”, una soluzione semplicemente non
e siste. La terza opposizione sta messa meglio delle prime due ma si
è ingarbugliata da sola.
Parliamo ovviamente del M5S, una forza
che ha colto un certo spirito del tempo, bellicoso e arruffato, e che
continua a veleggiare lungo le coste del “noismo” – no a tutto
– ma che sta palesemente implodendo davanti alla prima seria prova
di governo: non è che non sanno governare Roma (che pure non è
esattamente un buon viatico per il governo nazionale), è che la
vicenda di Roma sta facendo saltare tutti i (deboli) meccanismi
interni. Nessuno dirige, nessuno decide, nessuno fa politica. Il
gruppo dirigente si è autoaffondato, i big diffidano l’uno
dell’altro e ormai si guerreggia persino su chi far salire sul
palco della prossima kermesse di Palermo, mentre si meditano colpi
bassi contro la sindaca di Roma (le toglieranno il simbolo?) in un
inquietante vuoto di potere che ricorda le fasi più buie della
stagnazione moscovita.
Almeno il “vaffa” mobilitava. Il
Pinochet venezuelano di Di Maio molto meno. A poche settimane ormai
da un referendum che non vede protagonisti questi partiti
d’opposizione – e infatti i leader del No sono D’Alema,
giuristi e personaggi televisivi – questo non è un quadro che
possa far felici quanti desiderano un Paese nel quale la lotta
politica sia produttiva di proposte di governo alternative da
sottoporre al popolo sovrano. E tuttavia, allo stato dei fatti, il
Pd, con tutti i suoi limiti, continua esattamente a non avere
alternative, il che è la sua carta vincente ma in un certo senso
anche la sua condanna.
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