Michele Salvati
19 settembre 2016
La deresponsabilizzazione delle élite
Ormai mi capita di rado di ritagliare e
conservare fisicamente un articolo di giornale: di solito tengo
quelli più interessanti in un archivio del computer. Ma non ho
resistito a quella vecchia abitudine per un articolo di Sergio
Fabbrini sul «Il Sole - 24 Ore» dell’11 settembre scorso: Le
élite del No e il futuro dell’Italia. Il ragionamento di Fabbrini
non fa una grinza. Parte ricordando ciò che dovrebbe essere ovvio,
ma non lo è: che un referendum su questioni politiche complesse
(come l’adesione all’Unione Europea o la riforma costituzionale)
«non è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso
come un’entità unitaria, distinta dalle élite politiche. Al
contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento
per avviare un regolamento dei conti all’interno delle élite
stesse». Dopo aver addotto numerosi esempi a sostegno di quanto ha
affermato – tutti tratti dalla recente esperienza europea – ne fa
seguire la recisa conclusione: «la politica è sempre uno scontro
tra élite, mai tra élite e popolo». Questo vale sia per le élite
dei partiti tradizionali, sia per quelle di recente formazione, per
imprenditori politici che percepiscono un distacco tra élite
tradizionali e opinione pubblica e lo dirigono verso soluzioni
radicali e quasi sempre illusorie: i movimenti cui è attribuita
l’etichetta elusiva di «populisti». E Fabbrini, da questo
incipit, fa seguire diverse conclusioni, di cui vorrei qui segnalare
la principale.
«Il referendum, proprio per la sua
natura binaria relativa a una determinata proposta (Sì o No)
consente alle élite negative un vantaggio posizionale rispetto a
quelle positive. È molto più facile fare una campagna contro che
una a favore. Tant’è vero che quando le élite negative
vincono, e quasi sempre vincono nelle arene referendarie, il
risultato è lo stallo se non la confusione». E qui seguono altri
esempi. Donde il giudizio conclusivo: «il referendum
deresponsabilizza gli oppositori, che possono mobilitarsi per far
votare contro la proposta in discussione senza essere obbligati a
precisare con che cosa la sostituirebbero».
In un articolo dell’aprile scorso, e
sempre con riferimento al referendum costituzionale, mi riferivo
anch’io allo stesso fenomeno di deresponsabilizzazione, notando che
il legame principale che unisce le opposizioni al referendum è
l’obiettivo di far cadere o azzoppare il governo. «L’unico
legame, perché poi, su qualsiasi linea politica, i loro dissensi
sarebbero insormontabili: ve lo immaginate un governo sostenuto da
una maggioranza in cui ci siano esponenti della sinistra radicale e
Forza Italia, Lega e 5 Stelle, tutti strenui oppositori del
referendum? Una maggioranza “contro” non è impensabile; è una
maggioranza “per”, diversa da quella che sostiene il governo in
carica, che non si riesce a intravvedere».
Facciamo un passo oltre e veniamo a un
problema che presenta alcune somiglianze, ma anche evidenti
differenze, con quello del referendum: il ballottaggio tra le due
liste più votate, previsto dalla legge elettorale approvata dalla
Camera, il cosiddetto Italicum, nel caso che nessuna superi il 40%
dei consensi (ciò che è assai probabile). Questo è il cuore della
legge, ancor più del ballottaggio di lista invece che di coalizione:
è infatti quello che esprime il vecchio sogno veltroniano del
partito «a vocazione maggioritaria», il sogno di un governo con una
maggioranza coerente (idealmente di un solo partito), disposta a
seguire il premier nel suo disegno di riforma del Paese. Anche questa
decisione, da ultimo, si presenta come un giudizio secco: Lista A o
Lista B, invece di Sì o No.
Nel contesto italiano le obiezioni
politiche al ballottaggio non mancano, tre su tutte: a)
l’appartenenza a un lista o anche allo stesso partito non significa
la leale adesione al programma del premier (si pensi ai feroci
conflitti interni al Partito democratico); b) gli elettori di liste o
partiti sconfitti nel primo turno difficilmente sono in grado di
valutare autonomamente la minor distanza tra i programmi di A e B
rispetto a quelli del partito che avevano votato al primo turno e
l’influenza di élite politiche negative, come le chiama Fabbrini,
di pure «maggioranze contro», è molto forte, come si è visto
nelle recenti elezioni comunali; c) resta comunque il fatto che un
partito potrebbe ottenere la maggioranza dei seggi avendo
ottenuto, al primo turno, un consenso molto inferiore a quello che
gli consentirebbe di vantare una convincente rappresentanza dei
votanti. In astratto, e valutando il problema sotto il solo profilo
della teoria democratica, D’Alimonte e altri sostengono che la
somma delle prime e delle seconde preferenze è una risposta
accettabile al problema del contemperamento tra rappresentatività e
governabilità. Ma quelle del secondo turno sono preferenze deboli, e
questo potrebbe creare seri problemi a un governo che deve prendere
decisioni difficili e impopolari.
Gran parte del ceto politico e
intellettuale tradizionale è terrorizzato dalla possibile vittoria
del Movimento 5 Stelle al ballottaggio (e una parte anche dalla
vittoria di Renzi, dell’ «uomo solo al comando», come si va
ripetendo sulla base di una critica alla riforma costituzionale
difficilmente condivisibile): le pressioni esercitate sulla Corte
affinché decida secondo le convenienze politiche di chi le esercita
immagino siano fortissime. Probabilmente il 4 ottobre la Corte
rinvierà il problema, in attesa del risultato del referendum, e
questa mi sembrerebbe una decisione saggia, che concede ai giudici
delle leggi tempi di riflessione e valutazione più distesi. La Corte
non è un organo politico e la sua neutralità e il suo carattere
super partes sono aspetti centrali del suo ruolo in uno Stato di
diritto: soggetta a obblighi e pressioni contrastanti la decisione
sarà comunque difficilissima ed esporrà in ogni caso la Corte a
forti critiche.
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