Fabrizio Rondolino
L'Unità 15 settembre 2016
La politica italiana è lieta di dare
finalmente il benvenuto alla Casaleggio Associati srl
Se vince il No al referendum, Renzi
deve fare un passo indietro: ma per me va benissimo andare al voto
anche nel 2018. Magari si può trovare un altro premier, un governo
di scopo e fare quindi la legge elettorale»: reduce dal giro estivo
in scooter e forte della benedizione pubblica di “Beppe” in
persona, Alessandro Di Battista torna in tv e si lancia nella grande
politica. Intervistato da Lilli Gruber, martedì sera, annuncia una
svolta epocale: i grillini scendono dalla montagna, e pur di mandare
via Renzi sono disposti a fare un governo – “di scopo”, secondo
la bizantina terminologia ereditata direttamente dalla Prima
Repubblica – che cambi la legge elettorale e accompagni la
legislatura alla sua scadenza naturale.
Il caso vuole che sulla stessa rete,
poco dopo, ci sia Pierluigi Bersani ospite di Giovanni Floris. L’ex
segretario del Pd, già umiliato in diretta streaming da Grillo tre
anni fa, conclude il suo intervento con una dichiarazione
sorprendente: «I 5 Stelle sono un partito di centro antiCasta. Io
vorrei che ci fosse un centrosinistra largo capace, in un sistema
tripartito, di cercare un dialogo col centro». Che non è il centro
di Alfano e Casini, né tantomeno di Moro e Martinazzoli, ma,
incredibilmente, quello di Dibba e Di Maio. Bersani non parla di
«governo di scopo», ma il cortocircuito è immediato e inevitabile:
a tre anni dal clamoroso fallimento del «governo di cambiamento»
che l’allora segretario del Pd, dopo l’inaspettata sconfitta
elettorale, avrebbe voluto guidare con l’appoggio del Movimento 5
stelle, eccoci tornati al punto di partenza.
Per salutare il lieto evento, il Fatto
di ieri esaltava il «cambio di linea e di visione» del M5s,
sottolineava con simpatia «la corte dell’ex segretario Pd» e già
pregustava una «maggioranza alternativa, impastata tra M5s,
bersaniani e chissà chi altro». «Chissà chi altro» è un
riuscito eufemismo per indicare Brunetta e Salvini, senza i quali non
esistono maggioranze alternative a Renzi in questo Parlamento. Ma
questo è un dettaglio, per statisti di quel livello. Il problema
però è che ieri mattina Luigi Di Maio ha smentito categoricamente:
«La linea del M5s non è cambiata, io e gli altri miei colleghi
pensiamo che se dovessero vincere i No e Renzi dovesse dimettersi,
allora il Presidente della Repubblica traccerà la strada. Ma abbiamo
dei punti fermi: andiamo al governo con i voti degli italiani». E
sul «governo di scopo» cala anzitempo il sipario. O no? Se
sgombriamo il campo dalle ingenuità, resta però in campo una
costante cui il M5s in questi anni non è mai venuto meno:
dichiararsi in prima battuta disponibile ad un qualche accordo – è
stato così sulle unioni civili, ma anche sull’Italicum – e poi,
quando l’interlocutore mostra di voler fare sul serio, sfilarsi con
il primo pretesto (o anche senza pretesto alcuno) per riprendere il
bombardamento a tappeto.
L’elementare giochino è utile a
consolidare la purezza rivoluzionaria del movimento senza mai
sporcarsi le mani né mettersi seriamente in gioco. Non più tardi di
dieci giorni fa, del resto, un informato retroscena del Corriere
della Sera raccontava di un Di Maio «disponibile» a rivedere in
Parlamento la legge elettorale; neppure un paio di giorni dopo,
lo stesso Di Maio – che ormai, da politico consumato, ha imparato a
dire tutto e il suo contrario con la medesima configurazione dei
muscoli facciali – ha definito Renzi «schizofrenico» per la sua
disponibilità a modificare l’Italicum. In ogni caso, la politica
italiana è lieta di dare finalmente il benvenuto alla Casaleggio
Associati srl. Non c’è soltanto il «governo di scopo»: ci sono
anche, alla bisogna, il «governo tecnico», il «governo
istituzionale», il «governo delle larghe intese», il «governo del
Presidente», il «governo-ponte», il «governo di tregua» e, se
tutto ciò non bastasse, il mitico «governo balneare» della nostra
adolescenza.
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