Walter Veltroni
L'Unità 11 settembre 2016
Forse proprio quel giorno il rapporto
tra i cittadini e il potere si è incrinato
È passato senza celebrazioni storiche
e senza neppure ricordi doverosi l’anniversario dell’otto
settembre. Non c’è nulla da festeggiare, in quella data. Diciamoci
la verità: sarebbe un giorno da nascondere sul calendario della
storia se non fosse per la prova di eroismo fornita a Porta San Paolo
da militari e antifascisti che resistettero, molti pagando con la
vita, all’occupazione tedesca.
Il re che fugge e lascia la capitale in
mano alle SS, il governo Badoglio che farfuglia e tiene il piede in
mille staffe, l’abbandono della nostra flotta costretta a vagare
per il Mediterraneo senza ordini certi, l’umiliazione dei
bombardamenti che gli alleati fecero per costringere gli italiani a
mantenere la parola data il 3 settembre a Cassibile con la firma
dell’armistizio.
Non tutti conoscono o ricordano
l’umiliante messaggio ultimativo che il comandante alleato
Eisenhower fu costretto a inviare al governo italiano che, dopo aver
siglato l’accordo, traccheggiava e chiedeva dilazioni : “Ho
intenzione di diffondere l’esistenza dell’armistizio all’ora
programmata originariamente. Se voi o qualunque parte delle vostre
forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato,
renderò di pubblico dominio in tutto il mondo una documentazione
completa relativa a questo affare… La mancanza da parte vostra
nell’adempiere pienamente agli obblighi verso l’accordo firmato
avrà le più serie conseguenze per il vostro paese”.
Ricevuto il secco testo alleato
improvvisamente , come in un film di Alberto Sordi, la casa reale e
Badoglio convocano il Consiglio della corona e, contemporaneamente,
preparano le valige. Restano così soli i soldati sbandati, i marinai
alla deriva, i prigionieri, i resistenti, il popolo. Si usciva
da una dittatura e da una guerra, guerra che non finiva. I primi
balbettanti passi del post fascismo furono all’insegna della
codardia e della doppiezza.
“Tutti a casa” si intitola il film
più celebre su quei giorni folli e così comincia il post fascismo,
in un paese che è uscito dalla dittatura senza chiedersi
compiutamente come c’era entrato.
Otto settembre italiano forse non si è
mai concluso, quei mali non hanno smesso di allignare tra le fila di
un paese che con la Resistenza, la Costituzione, le lotte sindacali e
civili, il contrasto del terrorismo ha mostrato di sapere essere
migliore dei disvalori che nel dna nazionale la ferita nel rapporto
tra potere e popolo di quell’otto settembre ha sedimentato. Un
Paese fragile perché abituato o costretto ad arrangiarsi, uno Stato
non credibile perché, in persone e norme, sempre uguale a se stesso,
anche prima e dopo il fascismo. E poi il trasformismo, il correre in
soccorso dei vincitori, il non accettare mai che una cosa sia come
sembra, il complottismo per cercare giustificazioni. Dobbiamo
liberarci da questa zavorra. Non mancano le energie che possono
scuotere queste tare ereditarie.
Bobbio disse che durante gli anni del
consenso al regime non serviva neanche il bastone, era sufficiente
l’aggrottare le ciglia da parte dei gerarchi per garantirsi
entusiastici e diffusi sostegni. Siamo un Paese esposto
all’emotività, alla paura, alla rabbia, alle facili promesse.
Molte delle nostre scelte, nel secolo scorso, sono state
drammaticamente segnate da questi atteggiamenti. Persino il
terrorismo è stato impregnato di quell’odio e di quell’ambi –
guità, i “compagni che sbagliano”, che è un dato permanente del
nostro essere nella storia.
I social oggi stanno amplificando
questa tendenza, tutto esasperando e semplificando e, ancor di più,
facendo del dialogo un ferrovecchio sostituito dall’insulto o dalla
demonizzazione del pensiero dell’altro. Se non la pensi come me sei
un nemico, sei altro da me e quindi un nemico. L’altro – pensiero
o etnia, religione o comportamento sessuale – è qualcosa di
inaccettabile, di negativo. Invece è proprio nel rapporto con l’a
l t ro pensiero, con l’altra esperienza, che si riesce a cambiare
come la vita richiede, si cerca il giusto oltre i confini delle
proprie convinzioni, si alimenta il più essenziale dei preparati
umani: il dubbio. Sviluppare, modificandole, le idee è possibile,
talvolta giusto, necessario per portare i propri valori nei contesti
storici mutati. Ma riemerge il trasformismo, quello di cui vediamo
triste spettacolo in parlamento, con eletti che cambiano casacca sei
volte in una legislatura e partiti di cui si fa fatica a indicare la
linea politica perché sono, per definizione, delle legioni straniere
di uomini politici sbandati, cavalli scossi il cui traguardo è solo
la rielezione.
La politica è altro e l’Italia lo sa
bene. La democrazia, fragile ed esposta al temporale di questo tempo
difficile, ha bisogno di essere forte, capace di decidere,
trasparente, veloce, partecipata davvero. E la politica, una volta
definita una moderna ed equilibrata innovazione istituzionale, dovrà
ritrovare un rapporto con il popolo. E lo ritroverà solo se caccerà
i mercanti dal tempio, se farà pulizia morale, se smetterà di
apparire una fabbrica di carriere e potere più che un servizio, se
tornerà ad essere la più alta missione civile immaginabile.
Altrimenti finirà col sembrare meno
matto di quanto si possa dire il candidato repubblicano alla
presidenza degli Stati Uniti che, Reagan si sarebbe rivoltato nella
tomba, ha indicato Putin come modello. Trump ha strizzato l’occhio
a un sentimento che si diffonde in lungo e in largo: la voglia di un
potere forte, autoritario. Riemerge e, se non stiamo attenti, può
attecchire. Anche nel Paese dell’otto settembre che non finisce
mai.
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