Francesco Sanna
L'Unità 3 settembre 2016
Ha ragione Arturo Parisi, il testo
sottoposto a referendum è nel solco dell’Ulivo
Le elezioni politiche del 2013, ancor
più dopo la sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale che ha
sancito l’illegittimità della legge elettorale, hanno fatto
emergere specie tra gli elettori del centro-sinistra, una
domanda che, per farla semplice potrebbe dirsi così: chi vi
autorizza a cambiare la Costituzione?
Mentre nelle legislature precedenti era
implicito che il Parlamento potesse intraprendere la revisione
costituzionale, oggi tra le critiche – anche in forma dotta – di
chi dissente sulla riforma, ve ne è una più radicale che contesta
la mancanza di un’investitura preliminare degli elettori a cambiare
la Carta fondamentale.
Normalmente, la risposta che diamo si
fonda sulla natura straordinaria del momento politico, il discorso di
insediamento di Giorgio Napolitano, il dovere di dimostrare che il
Parlamento aveva la capacità di fare le riforme, l’assunzione del
tema quale punto programmatico dei Governi Letta e Renzi. Ma è
chiaro che tale risposta non soddisfa la domanda di coloro che
pretendono l’investitura costituente, ritenendo che non vi sia mai
stata. Se non si risponde bene si rischia di subire l’accusa di
usurpare una funzione che non si possiede ed il conseguente “not in
my name“.
E’ allora importante, per chi non
voglia eludere nessuno dei temi che si discutono nella campagna
referendaria, andare a riprendere brevemente cosa proponevano
gli ultimi programmi del centrosinistra. Anzitutto per rintracciare
in essi (se vi era) il “mandato” a riformare la Costituzione. E
poi vederne più da vicino coerenze e distanze con il testo
approvato, e magari trovarvi idee e motivazioni per il proprio voto
nel referendum confermativo.
*****
Intanto è da rilevare come la proposta
agli elettori di intervenire sulla seconda parte della Costituzione
non è una novità di questa legislatura.
Le tesi dell’Ulivo, pubblicate nel
dicembre del 1995, introducevano il tema del superamento del
bicameralismo paritario in maniera nettissima: esso era collocato tra
i primi punti del programma. Certo, la Carta non aveva visto la
riforma del Titolo V, l’ampliamento della legislazione concorrente
tra Stato e Regioni e l’enorme contenzioso che nei quindici anni
successivi la Corte Costituzionale sarebbe stata chiamata a dirimere,
e dunque la tesi indicava una mutazione in senso federale della
Repubblica senza porsi il problema di definire meglio il confine
delle competenze tra le Regioni e lo Stato.
Ma sicuramente l’Ulivo proponeva che
il Senato non votasse più la fiducia al Governo, fosse composto da
“esponenti delle istituzioni regionali che conservino le cariche
locali“, in un numero che “dipenderà dalla popolazione
delle Regioni stesse, con correttivi idonei a garantire le Regioni
più piccole“. Le “istituzioni regionali” alle quali i
senatori sarebbero dovuti appartenere sono evocate genericamente, ma
è chiaro che potessero essere sia i rappresentanti delle
assemblee legislative sia gli esecutivi, le Giunte regionali.
Sicuramente il numero dei senatori determinato dalla entità della
popolazione della Regione non avrebbe potuto portare al modello
Bundesrat, la seconda camera del Parlamento tedesco formata dai
delegati dei Governi regionali, né al modello americano in cui gli
stati piccoli o grandi “portano” comunque a Washington due
senatori. Inoltre, tale seconda Camera avrebbe avuto un potere
legislativo fortemente differenziato, poiché sarebbe stato
esercitato ” per la deliberazione delle sole leggi che interessano
le Regioni, oltre alle leggi costituzionali“.
L’Ulivo voleva la “riduzione dei
tempi di discussione dei provvedimenti, assicurando tempi certi per
il voto sui progetti del Governo“, l’innalzamento del numero di
firme per proporre il referendum abrogativo, e valutava
“l’eventualità di introdurre nella Costituzione la previsione di
forme di referendum “propositivo” collegate all’iniziativa
popolare, con tutte le regole e le cautele necessarie in tema di
condizioni dell’iniziativa, di formulazione dei quesiti e di
disciplina della consultazione“.
Vedo una assonanza delle Tesi uliviste
molto forte con i contenuti della riforma di oggi.
Quindi sono d’accordo con Arturo
Parisi, che riconosce alle riforme costituzionali approvate dal
Parlamento un contenuto “nel solco” delle tesi programmatiche
dell’Ulivo del 1996, mentre penso sbagli Andrea Pertici, professore
a Pisa, tendenza “Possibile” – a sostenere che le
distanze prevalgono sulle similitudini.
Per tenere in piedi la critica di
Pertici occorrerebbe forzare le parole di Parisi, tramutando il
“solco” tracciato ben venti anni prima dalle Tesi dell’Ulivo in
un articolato preciso di norme costituzionali. Il solco per forza di
cose ha subito l’erosione del tempo e si colloca in paesaggio
istituzionale mutato. Ma l’orientamento della riforma è
decisamente il medesimo.
Del resto, è la logica stessa della
revisione costituzionale, necessitando di un consenso parlamentare
vasto, che porta a non trascrivere pedissequamente i programmi di una
forza politica, anche maggioritaria, nella norma costituzionale.
Anche in vista del possibile referendum confermativo, infatti, è
utile che le forze presenti in Parlamento si riconoscano
complessivamente nella riforma e rintraccino nei testi il proprio
anche parziale contributo.
*****
Dieci anni dopo, nel 2006, il programma
de l’Unione, “Per il bene dell’Italia” (quello delle 281
pagine), pur reagendo polemicamente al tentativo del centrodestra di
affermare la logica della “dittatura della maggioranza”,
“evitando ogni confronto democratico”, propone modifiche a 18
articoli della Costituzione.
Sugli istituti di partecipazione,
l’amplissima coalizione guidata da Romano Prodi affermava
l’intenzione di ampliarli e arricchirli anche rivitalizzando il
referendum abrogativo: “proponiamo per questo di aumentare da
500.000 a 750.000 il numero di firme necessarie per indire un
referendum e di ridurre il quorum previsto per la validità della
consultazione alla metà dei voti espressi nelle precedenti elezioni
alla Camera dei Deputati“. La soluzione adottata dalla riforma 2016
è identica, salvo che per la previsione di 800.000 firme di
richiesta e per il mantenimento, in una sorta di doppio binario, del
sistema attuale (500.000 firme e referendum valido se partecipa la
metà più uno degli elettori).
Sulle garanzie istituzionali, ci si
impegnava ad “elevare la maggioranza necessaria ad eleggere il
Presidente della Repubblica“, senza peraltro individuarla né
indicare a partire da quale scrutinio. Il tema è recepito dalla
riforma 2016, che dal quarto al sesto scrutinio prevede non più la
maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune,
ma i tre quinti, e dal settimo scrutinio i tre quinti dei votanti.
Molto chiara la proposta della riforma
sulla funzione del nuovo Senato: “bisogna coinvolgere le autonomie
territoriali nella definizione dell’indirizzo politico nazionale“.
L’obiettivo si ottiene “superando l’attuale bicameralismo
paritario, ovvero istituendo un Senato che sia camera di effettiva
rappresentanza delle regioni e delle autonomie“, “espressione
delle autonomie territoriali“, “titolare di competenze
legislative differenziate rispetto alla Camera dei Deputati”. Il
numero dei senatori, “effettivi rappresentanti degli interessi del
loro territorio“, “sarà ridotto a 150“.
Sulla divisione dei poteri tra lo Stato
e le Regioni, il programma ritiene che occorra ridefinire “le
materie di esclusiva competenza statale“, ricentralizzando “la
disciplina dei rapporti di lavoro, la tutela e la sicurezza del
lavoro (ma la competenza sul mercato del lavoro e la formazione
professionale rimane alle Regioni), l’ordinamento delle professioni
e delle comunicazioni, le norme generali sulle grandi reti di
trasporto e navigazione, il trasporto e la distribuzione
dell’energia, la strategia nazionale per il turismo“. A questo
proposito si può dire che la manovra sulla ridefinizione delle
competenze effettuata dalla riforma è più ampia, ma tutti i punti
del programma 2006 vi sono ricompresi.
“Per il bene dell’Italia” prevede
l’introduzione di una clausola di supremazia per la quale al
Parlamento è consentito di “intervenire con legge per tutelare
l’interesse della Repubblica anche in materia di competenza
regionale quando siano in gioco superiori interessi della
collettività, quando si debba garantire l’unità giuridica o
economica del Paese o garantire l’uguaglianza dei cittadini
nell’esercizio dei diritti costituzionali“. Come è noto, la
riforma 2016 introduce la clausola di supremazia, richiedendo però
che essa possa essere attivata solo per iniziativa del Governo, che
il nuovo Senato possa richiederne l’esame e la Camera possa
superare le sue proposte di modifica a maggioranza assoluta a sua
volta con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei deputati.
La legislatura dell’ultimo Governo
Prodi ebbe vita breve, ma va ricordato che molte delle proposte
contenute nel programma “Per il bene dell’Italia” furono
trasfuse nel lavoro parlamentare della Commissione Affari
Costituzionali della Camera, noto come “Bozza Violante”.
*****
Nelle prime elezioni – anno 2008 –
alle quali partecipa il Partito Democratico, il nuovo soggetto
politico presenta un programma nel quale molti dei contenuti che ho
ricordato sono ripresi e precisati. In primo luogo, “il Presidente
del Consiglio dovrebbe ricevere da solo la fiducia esclusivamente
dalla Camera“. E “i disegni di legge approvati dal Governo
dovrebbero essere votati entro una data certa, comunque non oltre due
mesi“. Entrambi questi punti – esclusa la fiducia al solo
Presidente – fanno parte della attuale riforma.
La differenziazione dei compiti del
Senato è disegnata nella previsione per cui “le leggi,
tranne quelle costituzionali, di revisione costituzionale e quelle
che ordinano i rapporti tra centro e periferia, dovrebbero – in
caso di conflitto persistente – essere approvate dalla sola
Camera.”
Il Senato, formato da “100 membri
scelti dalle autonomie regionali e locali, è la sede della
collaborazione tra lo Stato e tali autonomie. La opportuna
revisione dell’elenco di materie del Titolo V con una clausola di
supremazia, trasversale alle materie, per il livello federale, col
consenso del Senato, consentirebbe di superare la conflittualità
permanente“.
E ancora “vanno introdotti il
referendum propositivo, nel caso in cui una proposta di legge di
iniziativa popolare con un milione di firme sia ignorata dal
Parlamento per un biennio, e norme rigorose contro tutti i conflitti
di interesse e il cumulo di cariche pubbliche; il quorum di
partecipazione per la validità dei referendum va ricondotto
alla metà più uno dei partecipanti politicamente attivi,
quelli che hanno votato alle precedenti elezioni politiche; alla
Camera va previsto un significativo Statuto dell’Opposizione, a
cominciare dalle Commissioni parlamentari di inchiesta, che devono
essere decise su richiesta di un quarto dei deputati.”
Come si vede, il PD a vocazione
maggioritaria di Veltroni precisa ed amplia, nel programma offerto
agli elettori, la prospettiva riformatrice aperta dall’Ulivo e
dalla coalizione del 2006.
*****
Il Partito Democratico, con Pierluigi
Bersani segretario forza di opposizione nella legislatura 2008/2013,
raffina ulteriormente i punti di aggiornamento della Costituzione con
il documento elaborato dalla Assemblea Nazionale programmatica
(eletta dalle primarie a cui parteciparono oltre tre milioni di
persone) del 21 e 22 maggio 2010, i cui contenuti –
ulteriormente discussi nel seminario del Forum Istituzioni tenutosi
alla Camera alcune settimane dopo, a cui partecipano e intervengono
decine di costituzionalisti – saranno trasfusi nel programma delle
elezioni politiche.
E così, nelle elezioni del febbraio
2013 la coalizione di centro-sinistra “Italia. Bene Comune” (PD,
SEL, Socialisti, Centro Democratico) che propone Bersani alla guida
del Governo, attribuisce esplicitamente alla attuale legislatura una
“funzione costituente“.
Nel documento programmatico di sintesi,
che impegna tutti i futuri eletti, il primo punto si intitola
“Democrazia“. In esso si afferma che “sulla riforma
dell’assetto istituzionale, siamo favorevoli a un sistema
parlamentare semplificato e rafforzato, con un ruolo incisivo del
governo e la tutela della funzione di equilibrio assegnata al
Presidente della Repubblica. Riformuleremo un federalismo
responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di
forza dell’assetto democratico e unitario del Paese…..Daremo vita
ad un percorso riformatore che assicuri concretezza e certezza di
tempi alla funzione costituente della prossima legislatura“.
Più in dettaglio, il documento del
Partito Democratico, “L’Italia Giusta – Riformare le
istituzioni per superare la crisi della democrazia”, partendo dalla
necessità di cambiare la legge elettorale, vuole “una netta
differenziazione tra il sistema elettorale della Camera – che deve
favorire la costruzione nelle urne di una maggioranza di governo –
e il sistema elettorale del Senato – che deve favorire la
rappresentanza dei territori”.
L’obiettivo sarebbe stato
“riqualificare il Parlamento come luogo della rappresentanza
politica della nazione (Camera) e dei territori (Senato)”.
Ci si arrivava ridando “autorevolezza
e rappresentatività al Parlamento, oltre che con una nuova legge
elettorale, attraverso il dimezzamento del numero dei parlamentari,
il potenziamento delle funzioni di controllo, il superamento del
bicameralismo paritario con funzioni e competenze differenziate tra
Camera e Senato: la Camera dei deputati, rappresentante della
nazione, sarebbe titolare del rapporto fiduciario mentre il Senato,
rappresentante delle autonomie territoriali, avrebbe il potere di
richiamare tutte le proposte di legge approvate dalla Camera entro i
limiti e alle condizioni fissate dalla Costituzione; dovrebbe inoltre
“governare” il rapporto tra Stato, Regioni, Autonomie locali. Le
leggi costituzionali e quelle che regolano i rapporti tra Stato,
Regioni e Autonomie locali sono bicamerali. Deve essere valorizzato,
come richiesto dal Trattato di Lisbona, il ruolo dell’intero
Parlamento e dei Consigli regionali nei processi di decisione
comunitaria”.
E ancora “si deve inoltre rafforzare
l’istituto del referendum, aumentando il numero delle
sottoscrizioni necessarie per l’iniziativa, anticipando il giudizio
della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesiti,
abbassando il quorum richiesto per la validità della consultazione,
riferendolo alla partecipazione al voto registrata nelle precedenti
elezioni per la Camera dei deputati. Rafforzare le proposte di legge
di iniziativa popolare, assicurando entro termini ragionevoli l’esame
parlamentare della proposta e il voto finale“.
“Sui disegni di legge del governo può
chiedere il voto a data fissa, compatibile con la complessità del
provvedimento, nei limiti e secondo le modalità stabilite dai
regolamenti parlamentari “.
Nell’ambito di un “regionalismo
cooperativo e solidale“, la riforma proposta dal Partito
Democratico avrebbe puntato a “ridurre le sfere di competenza
concorrente, introdurre la clausola di sovranità, definire una
cornice unitaria di comune responsabilità (Stato, Regioni, AALL)
nell’attuazione delle politiche nazionali. Anche rispetto al
rapporto e alla ripartizione di competenze tra Stato e Regioni le
parole chiave sono: razionalizzazione ed efficienza”.
* * * * *
Leggere il complesso dei più
importanti punti programmatici del centrosinistra italiano accanto ai
contenuti della riforma costituzionale racconta una continuità
ideale, di analisi dell’invecchiamento della organizzazione
istituzionale della Repubblica e di indicazione di soluzioni frutto
di un lungo e competente confronto democratico.
Analisi, elaborazioni e soluzioni
discusse alla luce del sole, e con la capacità di coinvolgimento di
cui i partiti ed il sistema politico sono stati capaci, nel tempo
politico, sociale e culturale dato.
Per questo sono convinto che aver
affrontato il compito difficile della riforma costituzionale in
questa legislatura non abbia tradito il mandato degli elettori
democratici, ma lo abbia realizzato. Il rimaner fermi, questo sì,
avrebbe significato negare la “funzione costituente della
legislatura” a cui si è impegnato chi è entrato in Parlamento
nelle liste del PD. Ma anche i contenuti della riforma mantengono il
senso ed in alcuni casi il tratto puntuale della promessa assunta
davanti ai cittadini.
Nessun commento:
Posta un commento