Daniele Bova
L'Unità 19 settembre 2016
Usciva esattamente 20 anni fa l’ultimo
disco del cantautore genovese: crocevia di suoni e tradizioni ma
anche racconto degli emarginati e della solitudine, necessaria, degli
uomini.
Tra i dischi di Fabrizio De Andrè,
Anime Salve è quello a cui molti sono più affezionati: vuoi perché
legato alla sua imminente morte, vuoi perché si tratta di un punto
d’arrivo importante: la summa di un percorso di ricerca iniziato
con l’omonimo album del 1981. Da quel lavoro, che racconta i sardi
e i pellerossa nella loro essenza di popoli minacciati, Faber
comincia un cammino che lo porterà a due approdi apparentemente
inconciliabili, ma intimamente legati. Da una parte l’apertura
totale e incondizionata all’Altro, che si concretizza, a livello
testuale e musicale, nell’annettere alla sua poetica suggestioni
provenienti da tradizioni e culture lontane; dall’altra, la presa
di coscienza della centralità della solitudine, intesa come
possibilità di raccontare in maniera più autentica l’essere
umano. “Il mio è un inno alla solitudine come possibilità di
riscatto da situazioni di disagio – dirà in un’intervista
– il primo grande disagio l’uomo lo prova al momento della
nascita, quando passa dall’acqua all’aria. Il secondo quando si
rende conto che il suo destino è morire. Alcuni, poi, ne vivono un
terzo: il disagio dell’isolamento. Ebbene, secondo me, chi passa
attraverso questi tre disagi matura spiritualmente. La solitudine
porta a contatto con l’Assoluto“.
Le Anime Salve del titolo sono quindi
gli spiriti solitari: l’intera opera è un tentativo di afferrare
l’uomo nei suoi tratti salienti, in ciò che gli è più proprio.
L’unico modo per far questo è indagarlo nella sua emarginazione,
in quei casi limite che De Andrè stesso definisce scherzi della
natura – proprio perché vittime della natura stessa, come chi
nasce donna in un corpo di uomo (l’argomento del brano d’apertura
Princesa) – oppure nella realtà di popoli che non sono mai scesi a
compromessi per salvaguardare “i retaggi millenari che si portano
dietro”, come quello dei rom. Il cantautore vede in questi attori
l’esempio di quella solitudine primaria capace di farci accedere
all’essenza delle cose: “Io sono uno che sceglie la solitudine –
avrebbe dichiarato – e come artista mi faccio carico di
interpretare il disagio rendendolo qualcosa di utile e di bello. E’
il mio mestiere.”
Il disco si rivela un parto molto
complesso, perché alla stregua dei temi trattati, anche a livello
formale si struttura su una coralità di punti di vista, sotto forma
di grande affresco della world music evoluta. Ogni brano è scritto a
4 mani con Ivano Fossati, i musicisti che collaborano sono numerosi e
legati a sonorità disparate – dal percussionista Giuseppe “Naco”
Bonaccorso (scomparso pochi mesi prima che uscisse il disco), al
grande suonatore di cimbalom (strumento gitano) Sàndor Kuti, dal
fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, all’arpista Cecilia
Chailly, il mood delle canzoni è vario e suscettibile di cambi e
contaminazioni all’interno delle singole composizioni. Si passa, ad
esempio, da ritmi e sonorità mediterranee, a spunti di matrice
sudamericana, da accenni jazz al folk, senza precludersi ballate
introspettive come Ho visito Nina Volare. In parte, l’humus
frastagliato del disco deriva dalle spinte antitetiche di chi vi ha
suonato dentro, ma senza che questo arrivi a compromettere il senso
unitario del tutto, anche grazie al lavoro di Pietro Milesi, capace
di mediare, con soluzioni di arrangiamento e di produzione, tra le
diverse influenze.
In questo mosaico, De Andrè non è altro che lo “spirito guida” che lascia esprimersi, integrarsi e a volte scontrarsi (come nel caso di alcune divergenze artistiche con Fossati) tutte le parti in gioco.
In questo mosaico, De Andrè non è altro che lo “spirito guida” che lascia esprimersi, integrarsi e a volte scontrarsi (come nel caso di alcune divergenze artistiche con Fossati) tutte le parti in gioco.
“Non capisco come chi esercita il
potere non si renda conto di non essere anche lui libero. Chi
esercita il controllo sugli altri, infatti, non è libero. Basta
vedere come certe madri vanno in apprensione per i figli, perdendo
così ogni libertà. Eppure ci sono ancora del matti che si divertono
ad esercitare il controllo sugli altri”. Come tutti i lavori di De
Andrè, anche Anime Salve mantiene una sua cifra “politica”; di
più: mai come in questi brani tale termine ci appare nella sua
pienezza di significato, calato in situazioni determinate e
marginali, di “frontiera” e parallelamente esemplificativo di
ogni contesto e di ogni epoca. Citando uno storico verso del brano
che chiude l’album, Smisurata Preghiera, è come se De Andrè ci
suggerisse che “chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col
suo marchio di speciale disperazione” non siano solo gli scherzi
della natura, i reietti, i disadattati, ma tutti noi: perché ognuno,
a modo suo, è alle prese con lo stesso compito: “consegnare alla
morte una goccia di splendore… Di umanità.. Di verità… “.
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