A
pranzo con Michele Serra
di Salvatore Merlo
Il Foglio 23 Settembre 2016
Giornali, politica, satira e vaffa. “La
mia lotta è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi
diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”
E le parole “mio mondo e mio partito”
forse un po’ gli bruciano in gola. “Non ci siamo più”, dice
con una malinconica ironia. Estinti: come il bue primigenio, come il
ghiro gigante di Minorca, come la tigre del Caspio. “E pure ognuno
di questi pareva inestirpabile”. Qualche fossile ancora riemerge,
tuttavia, qua e là. “Ma bisogna avere l’umiltà di accettare le
cose nuove, anche quelle che non ti prevedono”. Come Matteo Renzi?
“Mi capita di ricevere missive irose dei miei lettori: ‘Ah, ma
come fai?’, ‘Questo orribile provinciale fiorentino…’,
‘Bisogna fare qualcosa…’. Ecco, io invece penso che non
dobbiamo rompere i coglioni. Se la nostra sinistra diventa una
mummia, noi possiamo anche diventare delle mummie noi stessi, ma non
possiamo mica pretendere che anche tutto il resto del mondo si
mummifichi”.
E a questo punto lo sguardo fisso, che
prima somigliava a un pugno chiuso, si scioglie in un ridere degli
occhi, “bisogna avere uno sguardo non stupidamente arreso, ma
nemmeno accigliato e corroso dal catastrofismo”. Così abbassa il
tono di voce, stringe le palpebre, prende una voce non sua, che
potrebbe essere quella dell’avaro di Moliére, o la caricatura
fumettistica di un vecchio pessimista: “Ahhh, il mondo è diventato
una merda! Non c’è più Berlinguer… Che palle!”. Ride, Michele
Serra, con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle
situazioni, e la comicità. Anche amara. E forse un po’ evoca “i
compagni” volenterosi e tristi di Mario Monicelli, quei pasticcioni
sconfitti e dolenti della commedia. “La mia famiglia d’origine ha
perso”, dice, “ma il mondo continua anche senza di me”. E
insomma esprime lo smarrimento dell’uomo di sinistra, la cui
simmetria dei principi è stata scompigliata da un vento che spira da
regioni che forse lui in tutta innocenza credeva non esistessero,
fino a ieri, o fino all’altro ieri, o comunque fino all’incrinarsi
delle certezze di un mondo al quale sente d’essere appartenuto –
di appartenere? – “non solo da militante, ma da funzionario”.
Strano dove le nostre passioni ci
conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni
indesiderati, a destini malaccetti. “Alle primarie votai Bersani.
Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo
Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto
votare contro me stesso, cioè avrei dovuto votare per Renzi”. In
una delle sue rubriche, in un’Amaca, qualche settimana fa, aveva
scritto: “Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che
non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se
non la supporto, Maria Elena Boschi”. Che ti ha fatto la Boschi?
“Niente”, risponde lui, con il suo sorriso arabo. “Mi sembra
volenterosa… in Italia ci sono due modelli di quarantenne, quello
renziano e quello grillino. Almeno quelli come la Boschi provano a
dare un’impronta, a fare qualcosa”. I bamboccioni che il ministro
Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno
fatto. “E invece cosa abbiamo fatto noi sessantenni di sinistra per
dire di ‘no’?”. Ecco. Al referendum come voti? “Io voto per
il ‘sì’, anche se vincerà il ‘no’. E vincerà il ‘no’
perché l’aria che tira è quella del disfacimento. E poi guardati
intorno: mezzo Pd vota ‘no’, la destra vota ‘no’, la sinistra
vota ‘no’, i grillini votano ‘no’…”.
Il Naviglio Grande è nitido, largo e
lindo, sembra la guancia ben rasata di Milano (mi dirà “Lui” tra
poco: “Tutta questa zona aveva un suo fascino anche prima, ma un
fascino malinconico, mentre adesso è un luogo allegro”).
La mattina è stata ansimante e
boccheggiante, con scrosci di pioggia a tratti torrenziale. Da
qualche minuto un sole malaticcio ravviva il cielo bianco, mentre
dall’imboccatura di porta Ticinese ecco arrivare, dondolando
appena, un signore dall’aria pensosa, ma allegra: pantaloni
marroni, camicia chiara, una ciocca di capelli spettinata, e
brizzolata, un filo di barba. E’ lui, Michele Serra. “Hai visto,
ci sono i pesci nel Naviglio”, dice, indicando quelle acque che non
sono più “perplesse”, come le descriveva Giuseppe Marotta negli
anni Sessanta, ma che dopo il grande recupero dell’Expo hanno
assunto un tocco attraente, adesso sembrano raccontare favole
levigate. “Qui i sindaci sono stati bravi, anche quelli di destra.
Ma soprattutto è stato bravo Giuliano Pisapia, che se volesse
potrebbe diventare il vero avversario di Renzi… Solo adesso Milano
palpita davvero di vita, di vita civile e di bellezza, quella stessa
città che fu lugubre quando ero ragazzo e che invece mi scorreva
attorno così estranea e rampante negli anni Ottanta”.
E la città lugubre era quella in cui
si spaccavano teste a sprangate, la città che negli Anni di piombo
subiva attonita la bomba di Piazza Fontana, la violenza ideologica e
il terrorismo. “In via Scaldasole frequentavo un circolo anarchico,
del Movimento socialista libertario. Andavo lì con tre amici di
scuola, Mario Ferrandi, Guido Salvini, ed Enrico Mentana. Il primo è
finito all’ergastolo per terrorismo, il secondo è il giudice che
ha riaperto le indagini su Piazza Fontana, il terzo è il direttore
del Tg di La7. Pensa un po’”.
La città che invece gli scorreva
estranea, era la Milano di Bettino Craxi, quella da bere. Lo
disprezzavi Craxi? “Lo consideravo un nemico. Credevo che avesse
ragione Berlinguer, e lui torto. Ero abbastanza comunista, e
abbastanza moralista”. A un certo punto però, qualsiasi cosa si
faccia, le carte dei motivi e delle conseguenze si imbrogliano
maledettamente, e quando gli anni passano nessuno sa più se ha agito
bene o male. “Era facile essere moralisti all’epoca, forse
c’erano anche delle esagerazioni, ma il sacco della città ci fu
davvero. C’era un ceto emergente e spregiudicato, odioso”.
Dunque il Pci, la militanza, un intrico
di pulsioni e intenzioni risalenti a tempi immemorabili ormai
informi, forse senza scopo. “Entrai nel partito credo a diciotto
anni, sezione ‘martiri di Modena’, in via Caccialepori. Entrai
per autodifesa, forse anche per paura. Era il ’73 o il ’74 e la
gente si apriva la testa a bastonate. Poi un giorno un mio amico andò
a fare il militare e mi disse: ‘Vuoi il mio lavoro?’. E che fai?
‘Faccio il dimafonista all’Unità’”. Cioè lo sbarbatello al
quale gli inviati dettavano i pezzi al telefono. “Così presi una
vecchia Olivetti Lettera 22 di mia madre e mi esercitai nella
dattilografia, ero imbranato ovviamente, ma dissi a quelli dell’Unità
che ero un professionista. Mi presero. Facevo le notti. A quei tempi
i giornali rombavano, erano fabbriche: la colata a piombo, la
linotype, gli odori. I tipografi erano individui neri, inchiostrati,
che bevevano latte per combattere l’avvelenamento da piombo (ma più
spesso bevevano Campari Soda). Era vera classe operaia. Si parlava
solo dialetto milanese, che per me, io che venivo da una famiglia
borghese, era come una porta sbattuta in faccia, un fragoroso
abbassarsi di saracinesca, dovevo farmelo tradurre”.
Poi lentamente il passaggio alla
scrittura, al giornalismo. Supremo, prezioso dilettantismo o
capriccio. Almeno all’inizio. “Adesso sono venticinque anni che
scrivo tutti i giorni. Una follia, un’ossessione. Ho scritto su
Panorama, l’Espresso, Repubblica, Telesette, il Monello,
l’Illustrazione italiana… Chissà quante stronzate ho scritto!”.
Ricordane qualcuna, dai. “Per fortuna mi dimentico tutto, e per
fortuna la carta va al macero”. C’è internet, ti avverto. “Ma
mi hanno spiegato che per fortuna anche le memorie elettroniche hanno
una loro obsolescenza”. Sì, ma credo di millenni. “Cazzo!”.