Pierluigi Castagnetti
Avvenire 3 aprile 2020
L’Ungheria dal post-comunismo al nazionalismo dei «pieni
poteri» di Orbán
Caro direttore, nella primavera del 1990, all’indomani della
caduta del Muro e alla vigilia delle prime elezioni democratiche,
incontrai, assieme a Guido Bodrato, nel vescovado di Esztergom che è
anche la diocesi di Budapest, il cardinal László Paskai, primate
d’Ungheria, per discutere della nuova situazione, sotto il profilo
sia politico sia pastorale.
Dagli appunti di viaggio rileggo con una certa commozione le
parole del presule. Alla mia domanda su come potessimo aiutare, noi
cattolici italiani, soprattutto i giovani ungheresi a prendere
confidenza con la democrazia e a formarsi a un impegno politico,
rispose con un sorriso amaro: «Abbiamo bisogno di tutto». E
aggiunse: «Noi non sappiamo cosa sia la democrazia. Voi non potete
capire perché avete avuto una dittatura che è durata 'solo'
vent’anni, ma noi, finita la guerra ne abbiamo aggiunto altri
quaranta. Da noi semplicemente non esistono più coloro che hanno
anche pallida memoria della democrazia. C’è un piccolo nucleo di
intellettuali di formazione liberale. Per fortuna. Ma non ci sono
educatori. Non ci sono neppure docenti universitari che nel loro
curriculum abbiano potuto studiarla. Non ci sono testi di diritto
costituzionale. Dovremo importare un’intera bibliografia
dall’Europa ma, poiché in pochi conoscono lingue straniere diverse
dal russo, dovremo tradurre e poi stampare. Sarà un lavoro lungo e
dall’esito non scontato, soprattutto per la formazione di una
società civile consapevole. Speriamo di riuscirci».
Incontrammo poi il presidente Antal, liberale, amico di Nino
Andreatta, che ribadì le stesse valutazioni del cardinale,
aggiungendo che, per quanto lo riguardava, avrebbe assunto come punto
di riferimento la figura di Alcide De Gasperi che proprio in quei
giorni stava studiando.
Ogni volta che mi occupo di Ungheria mi vengono alla mente questi
due incontri. In particolare oggi, dopo che Viktor Orbán sull’onda
della crisi innescata dalla pandemia da coronavirus si è fatto
assegnare da un Parlamento di cui controlla i due terzi dei
componenti, i pieni poteri, senza limite di tempo. Orbán è una
figura che seguo da tempo e che ha cominciato a insospettirmi sin
dall’inizio per i suoi reiterati silenzi nelle riunioni della
presidenza del Ppe, prima che arrivassero le parole degli ultimi anni
assai più inquietanti.
Il suo disegno dichiarato, come noto, è quello di realizzare in
Europa un modello di «democrazia cristiana», una denominazione che
non ha nulla a che fare con le esperienze dei partiti a ispirazione
cristiana dell’Europa del dopoguerra. L’evocazione religiosa è
solo nominalistica e finalizzata a creare una forma di
identificazione collettiva, oltreché a dare solidità a un progetto
politico dai contenuti poco definiti e preferibilmente poco dicibili.
Il presupposto di partenza è rappresentato dalla convinzione che il
popolo magiaro, come indole, sia poco interessato alla democrazia e
alle sue forme, quanto piuttosto a un agonismo/antagonismo politico
sul modello destra/sinistra. Nell’assenza di leadership forti nei
partiti liberali e cattolico-popolari, Orbán ha sviluppato il suo
progetto nel corso degli ultimi vent’anni, incuriosendo e
sorprendendo per i risultati elettorali ottenuti, i partner del Ppe,
a partire da Kohl. Ha lavorato molto sulla spaccatura della società,
sul modello politico amico/ nemico dichiaratamente schmittiano. La
cultura dell’odio. «Sono disperato per la cultura dell’odio che
sta consumando la mia Ungheria», ripete da anni l’intellettuale
ungherese Imre Kertész.
Era del tutto evidente che saremmo arrivati ai pieni poteri.
Peraltro con il consenso della maggioranza dei cittadini e del
Parlamento, diciamo pure nella piena tradizione delle dittature del
Novecento europeo. Qual è stato e qual è il ruolo svolto dalla
religione, o meglio da una certa immagine di religione, in una
società che in stragrande maggioranza professa anche oggi l’ateismo,
non più di Stato, ma come opzione liberamente scelta, è la vera
questione, su cui da alcuni mesi ha cominciato a lavorare tra altri
Mauro Magatti, con qualche iniziale riserva da parte mia, oggi
evidentemente superata.
Partiamo da ciò che dice l’interessato del suo movimento e del
suo disegno politico: «Diciamo con sicurezza che la democrazia
cristiana non è liberale. La democrazia liberale è liberale, mentre
la democrazia cristiana per definizione non è liberale. È, se vi
piace, illiberale. E possiamo dirlo in particolare in relazione ad
alcune questioni importanti. La democrazia liberale è a favore del
multiculturalismo, mentre la democrazia cristiana dà priorità alla
cultura cristiana; questo è un concetto illiberale. La democrazia
liberale è pro immigrazione, mentre la democrazia cristiana è
anti-immigrazione; questo è un concetto davvero illiberale. La
democrazia liberale si schiera a favore di modelli familiari
adattabili, mentre la democrazia cristiana poggia sui fondamenti del
modello familiare cristiano; ancora una volta questo è un concetto
illiberale » (Il Regno-documenti, 17/2018).
La cosa interessante è rappresentata dal fatto che con queste
idee, Orbán nelle elezioni del 2018, ha raccolto il 47% dei suffragi
e due terzi dei parlamentari, in un Paese che all’80% è fatto di
non credenti, e in cui il 67% dei giovani, dai 19 ai 29 anni,
dichiara di non sentirsi assolutamente interessato ad alcun discorso
religioso (indagine promossa dall’Institut Catholique de Paris,
appena prima delle elezioni). Per capire l’incertezza del Ppe su
come trattare il caso Orbán, occorre allora riflettere su questo
fenomeno che in una qualche misura potrebbe anticipare un processo di
potenziale estensione dei movimenti nazionalisti nel continente («Il
nazionalismo è la guerra», si ricorderà, è stato sino alla fine
dei suoi giorni il motto di di Helmut Kohl), oltre che su ragioni
politiche evidenti perché i voti di Fidesz sono necessari a
garantire la maggioranza alla presidente della Commissione Ursula von
der Leyen.
Il tema è particolarmente sconvolgente per i cattolici italiani
che, a partire da Sturzo e poi con De Gasperi, hanno fondato il loro
impegno politico, «non in nome ma a causa della fede», proprio
sull’incontro fra cristianesimo e democrazia.
Ma è la Chiesa stessa ad essere minacciata da questa idea di
cristianesimoamuleto elettorale, totalmente disancorato dal magistero
e dal Vangelo.
Epperò i tempi ormai stringono. Non è solo il Ppe a essere
interpellato, ma le istituzioni della Ue, che debbono esprimersi
sulla possibilità che si affermi nel continente, esplicitamente, e
persino con iattanza, un’idea di democrazia illiberale, come dato
di normalità. Senza evocare immagini che vorremmo non fossero mai
più ripetibili, possiamo dire che sono ormai giunti i tempi in cui
bisogna passare da Neville Chamberlain e Winston Churchill. Prima che
sia troppo tardi.
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