Walter Veltroni
Corriere della Sera 17
aprile 2020
Come sarà il mondo
dopo? Non è ora, proprio ora, il momento di immaginarlo e
progettarlo?
Sanchez ha riaperto la Spagna da martedì scorso,
Macron ha annunciato che l’11 maggio la Francia riparte e
altrettanto ha fatto la Merkel. Tutti Paesi in cui l’epidemia è
arrivata almeno due settimane dopo che da noi.
In Italia ci si dibatte tra commissioni pletoriche —
più di 200 membri — e ovviamente in conflitto, tra regioni che si
sentono Stati, tra polemiche interne alla maggioranza e
all’opposizione. La verità è una sola: oggi un lavoratore o un
imprenditore, in Italia, non sanno quando ricominceranno a vivere la
loro vita.
Sono passate quasi sette settimane dai primi
lockdown e il governo, dopo varie contorsioni, ne ha annunciate altre
tre.
Bisogna rivendicare con orgoglio che il Paese ha
mostrato, in questo tempo e fin qui, un’incredibile serietà e
compattezza. Si smetta di dire il contrario, per favore. Nei giorni
di Pasqua sono stati effettuati controlli, solo a Roma e Milano, a
decine di migliaia di persone e le contravvenzioni registrate sono
state meno di mille. Gli italiani hanno rispettato le regole, hanno
tenuto chiusi i loro negozi, in molti hanno perduto il lavoro, in
troppi fanno fatica a pagare il cibo o l’affitto.
Le città sono deserte, spettrali. Ma non sono più
belle, così. Le città sono belle se le attraversa la vita, se si
sente il suono delle parole e il rumore degli incontri. E la vita
deve tornare, con le prudenze e le avvertenze necessarie. Senza una
ripartenza, che tenga ovviamente conto delle esigenze primarie della
salute, il Paese si sfarinerà. Nessuno meglio di una figura come
Colao ne può essere consapevole. Anche perché noi, che eravamo già
agli ultimi posti per crescita del Pil prima del virus, siamo più
esposti di altri, come dimostra il pericoloso avvitamento verso
l’alto dei rendimenti dei titoli.
Si dica chiaramente cosa bisogna fare. Poche
avvertenze, chiare e non contraddette quotidianamente com’è
avvenuto fin qui a proposito di mascherine, test, reagenti, tempi di
incubazione del virus, terapie e vaccini. Gli italiani hanno, dopo
tre mesi, solo tre certezze: che bisogna stare a casa, lavarsi le
mani e mantenere le distanze necessarie se si esce. Ci si aspetta
qualcosa di più.
Smettiamo di parlare — dopo ventimila morti, la
strage degli anziani nelle Rsa, un indice di letalità superiore alla
media mondiale, e una previsione di calo del Pil del 9,1 — delle
magnifiche sorti e progressive del modello italiano. Definizione
autodifensiva che non rende giustizia al generoso sforzo di medici,
scienziati, ministri, amministratori, poliziotti, insegnanti,
infermieri, volontari che hanno cercato, in un eccessivo caos, di
affrontare un’emergenza spaventosa e, almeno per una parte,
imprevedibile.
Ma in questo momento ciò che più manca è un
pensiero nitido, in primo luogo della politica e del governo, che
immagini e progetti il «mondo dopo».
Ora abbiamo bisogno di pensieri lunghi. Non di
tatticismo e polemiche. L’illusione del ritorno alla normalità è,
per chi lo coltiva, un sogno impossibile
Ciò che è accaduto, centinaia di migliaia di mor
ti e miliardi di persone segregate nelle case in città vuote, non
passerà senza lasciare un solco nella storia dell’umanità. Non
torneremo a lavorare, consumare, viaggiare come prima. E ora bisogna
mettere bene a fuoco, oltre l’emotività, ciò che questo può
significare, in termini di collasso dell’esistente e, al tempo
stesso, di possibilità di rigenerazione.
Poniamoci alcune domande. Il mondo sarà
globalizzato come prima? O le difficoltà di viaggio e di scambio
genereranno il bisogno di riscoprire una dimensione locale?
Il locale, il contrario del localismo, è la
dimensione in cui, da sempre, la rete delle esperienze sociali e
umane si radica e si apre all’esterno. Identità e apertura sono
gemelle. Essere cittadini del mondo o europei non significa
rinunciare alla dimensione ultima e definitiva delle proprie radici.
Non c’è nulla di regressivo in questo. È in una dimensione
locale, fatta di cooperative e associazioni, che ad esempio è nato
il movimento democratico.
Si potrà essere davvero Glocal. Si dovranno
inventare forme di lavoro e commercio che agiscano vicino a sé. Non
si potrà più conoscere il frenetico pendolarismo di questi anni,
gli autobus strapieni e le metropolitane con la gente schiacciata, i
manager che attraversano il mondo per portare, fisicamente, le loro
parole ad altri. Ma, al tempo stesso, la digitalizzazione consentirà
di sentirsi parte di un mondo e non fortino impaurito, comunità
afflitta da un localismo che diventa prigione. La vita tenderà a
strutturarsi in quartieri che dovranno possedere tutte le funzioni,
comprese quelle espulse ormai da anni dalle comunità locali. Penso,
per fare solo un esempio, alla dimensione sanitaria che non potrà
essere più riassunta nell’ospedalizzazione esasperata, ma
necessiterà di una rete di filtro a livello di base, con l’obiettivo
di riservare il ricovero alla necessità di alto specialismo.
Così come, ne ha parlato Macron, dovremo abituarci
alle nuove condizioni del mercato globale e dunque a riaprire filiere
produttive che garantiscano l’autosufficienza del proprio Paese.
Qui sta la grandezza dell’opera politica che va
compiuta: dovremo, al contempo, rafforzare tutti gli strumenti di
cooperazione e integrazione sovranazionale. Come il virus dimostra,
il mondo non si governa con i muri ma con la cooperazione. Chi si
lamenta dell’egoismo altrui, in questa crisi, in realtà si lamenta
delle idee che ha contribuito in questi anni a seminare. Il
sovranismo degli altri, che ci appare giustamente egoista, è
fratello di quello che si predica. Il tempo che verrà ha invece
bisogno di forme di decisione globale, di ricerca scientifica
coordinata, di coordinamento di politiche finanziarie. Se l’Europa
non lo capirà, a partire dal prossimo consiglio del 23, se gli Usa
non si renderanno conto che non sarà dallo sgretolamento del nostro
continente che si rafforzeranno, l’esito di questa crisi potrà
essere davvero grave.
Dovremo immaginare nuove forme di lavoro, di
trasporto, di consumo culturale, di apprendimento, di cura personale.
Non è poco. Muteranno i mercati finanziari, la gestione del debito,
le strategie del lavoro e quelle dell’accoglienza. Bisognerà
disegnare il rapporto tra la necessaria ripresa di un ruolo pubblico
nell’economia e la salvaguardia del tessuto delle piccole e medie
imprese che è il senso storico, non solo la peculiarità,
dell’economia italiana. E definire forme di governo che esaltino la
prossimità, il ravvicinamento della decisione politica alla vita dei
cittadini.
Finirà, si dice. Ma, ad ora, nessuno scienziato ci
sa dire se il virus potrà tornare, magari al riaffiorare del freddo.
Allora, siccome non si può immaginare di chiudere i cittadini del
mondo in casa per un anno intero, sarà bene definire modalità certe
di rilevazione della estensione reale del contagio e di delimitazione
del raggio di azione di chi può infettare, non dell’umanità
intera.
E insieme, ma questo spetta a politica e cultura,
disegnare e plasmare il mondo nuovo. Almeno immaginarlo.
«Il giorno entra nella notte», ha scritto Borges.
Facciamo in modo che avvenga .
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